26 giugno 2016
APPUNTI PER GAZZETTA - LA SPAGNA TORNA A VOTARE
NICASTRO SUL CDS DI STAMATTINA
DAL NOSTRO INVIATO
MADRID Si vota oggi in Spagna, ma il risultato darà anche il grado di febbre dell’Europa orfana di Londra. Dopo appena sei mesi il regno di Felipe VI torna ai seggi perché nessun partito è riuscito a formare una maggioranza. Tra la prima e la seconda campagna elettorale i cordoni della borsa si sono rilassati e il deficit ha ricominciato a galoppare. Ci vuole un esecutivo stabile per reggere l’impopolarità delle politiche di austerità che chiede ancora Bruxelles, almeno fino a che non diano risultati più tangibili di quelli che si sono intravisti fino ad ora. C’è crescita, ci sono nuovi assunti, ma la diseguaglianza cresce e il lavoro, se c’è, resta precario. Purtroppo la macroeconomia non si mangia come le tapas . Una ricerca Nielsen dice che nel 2009 gli spagnoli spendevano al bar 100 euro al mese, oggi solo 67. Difficile convincere chi deve rinunciare ad uscire la sera che le cose siano andate a posto.
Chi interpreta meglio lo scontento è Podemos, il partito di Pablo Iglesias. Il professore di scienze politiche con il suo codino fa parte di quella ondata di nuova sinistra «anti sistema» cui apparteneva anche il greco Alexis Tsipras (lui solo senza cravatta) prima di chinare il capo ai diktat europei. Iglesias dice apertamente che l’austerità è sbagliata, che bisogna ricominciare ad indebitarsi e spingere così, keynesianamente, la crescita. Dice anche che la Spagna non è la Grecia, che il suo peso economico e politico permetterà di influenzare le decisioni europee anche grazie ad altri governi che stanno abbandonando la via del rigore: dal Portogallo, alla Francia, all’Irlanda, alla stessa Italia.
Rispetto alle elezioni di dicembre Iglesias si presenta con sondaggi ancora più favorevoli. Merito principale è l’alleanza con lo storico partito comunista di Izquierda Unida (Sinistra Unita). La sigla che ne è nata è già un capolavoro di marketing politico: Unidos Podemos, uniti ce la possiamo fare.
Gli altri protagonisti sembrano giocare in difesa. Lo storico partito socialista operaio spagnolo, Psoe, mantiene la candidatura del giovane e telegenico Pedro Sánchez. Promette anche lui meno austerità, ma ha alle spalle il peccato originale di un partito che all’inizio della Grande Crisi sposò i sacrifici. Ora propone più tasse per i ricchi, più scuola e regole sul lavoro meno favorevoli alle imprese. I sondaggi dicono che non basterà per recuperare l’egemonia sull’elettorato di sinistra che rischia di passare a Podemos. Il «sorpasso» è una possibilità. Un Psoe terzo partito sarebbe la pietra tombale della Transizione, la fase storica di uscita dal franchismo dominata dall’alternanza di una destra e una sinistra istituzionali.
In calo anche Albert Rivera, leader di Ciudadanos. Il partito arancione è nato come alternativa pulita al Partido Popular macchiato dagli scandali. In questa campagna si è spostato più a sinistra, verso un liberalismo sociale che sembra aver scontentato parte del suo elettorato.
Sembrerebbe poter restare primo Mariano Rajoy. Il premier uscente, leader del Partido Popular, fa leva sulla paura di un salto nell’incertezza se dovesse prevalere Podemos. Chiede continuità, rivendica i successi del suo governo che ha ereditato dal Psoe un Paese in bancarotta con migliaia di disoccupati in più ogni giorno ed è stato capace di stabilizzarlo e rilanciarlo, senza cancellare lo Stato sociale. Il suo è un elettorato fedele e ha il vantaggio di non avere nessuno a destra.
L’economia non è l’unico tema della campagna. Altrettanto sentito è il rischio della frammentazione nazionale. L’indipendentismo catalano ha avuto l’appoggio di Podemos che ha promesso un referendum indipendentista. Sul carro di Iglesias potrebbero salire anche i nazionalisti di Paesi Baschi e Galizia.
Andrea Nicastro
Già lo diceva Aristotele: la democrazia diventa demagogia quando l’aristocrazia non si dimostra esemplare nell’esercizio delle virtù pubbliche. La società perde il rispetto delle leggi e propende alla mediocrità. Cosi il resto della società si sente legittimata a agire secondo i principi peggiori. La democrazia occidentale si sta decomponendo dalla testa».
Per recuperare la rotta era necessaria una dose di austerità. Non è male essere austeri. Come diceva Cicerone, l’austerità è una delle qualità del cittadino della Repubblica. Ma l’austerità deve essere stile, non ideologia, non religione. Sì, si è ecceduto».
In Spagna questo governo ha adottato un’austerità economica che in alcuni aspetti è andata oltre. Va corretta. Ma in compenso siamo riusciti a conservare la pace sociale. Abbiamo salvato le pensioni a differenza della Grecia e preservato l’accesso universale alla sanità e alla educazione pubblica. Abbiamo impostato la ripresa. Con una politica realistica, non con i sogni».«Il mercato non deve stare in mano agli speculatori, ma ai legislatori. Non lo dice Gramsci, ma Adam Smith. C’è in Sallustio, Polibio, Tito Livio, nello stesso Cicerone. L’Ue sta implodendo perché si lascia trascinare dalla paura e non dalla razionalità, la gente percepisce che le istituzioni non sono uno strumento di liberazione, ma di imposizione. Bisogna aggiustare la rotta».
(JOSé MARIA LASSALLE SEGRETARIO DI STATO ALLA CULTURA DEL GOVERNO RAJOY AD ANDREA NICASTRO)
Di chi è la responsabilità?
«Si è cominciato negli anni 90 quando la socialdemocrazia di Blair e Schröder ha imboccato la via neoliberista. L’accelerazione è arrivata nel 2008 con la crisi finanziaria. È stato allora che l’Europa ha imposto privatizzazioni, tagli ai bilanci statali, restrizione fiscale. E l’ha fatto calpestando la volontà democratica espressa nelle urne da popoli interi. In questo modo l’alternativa politica è sfumata. Invece di vedere due partiti, uno più conservatore uno più riformista, è diventato impossibile distinguerli. Dopo il 2008, su 19 elezioni generali, 18 governi che erano in maggioranza sono stati spazzati via. L’elettorato ha cercato l’alternativa, ma il governo che è subentrato ha detto di dover fare la medesima politica per colpa di Bruxelles».
Si poteva fare diversamente?
«Certo. Le politiche imposte erano di per sé illogiche. Dovevano allo stesso tempo ridurre il debito, il deficit e riattivare il ciclo economico. In tutte le società invece il debito è aumentato, la disoccupazione è peggiorata e i consumi sono crollati. Anche la Germania che è solitamente accusata di tirare le fila del progetto ci ha rimesso: ha il tasso di diseguaglianza più alto della sua storia, così come la povertà, mentre il tasso di investimento produttivo è il più basso dalla guerra. I tedeschi soffrono come gli altri europei». (Pablo Bustinduy, 33 anni, professore di filosofia, sorta di ministro degli Esteri ombra di Unidos Podemos AD ANDREA NICASTRO)
CONCITA DE GREGORIO SU REPUBBLICA
NAZIONALE - 26 giugno 2016
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26/6/2016
le elezioni in spagna
Le politiche.
Pp e Psoe sperano che le paure post-referendum li avvantaggino contro Podemos
Alle urne in Spagna con le bandiere Ue fuori dalle finestre Effetto Brexit sul voto
CONCITA DE GREGORIO
BARCELLONA
È nel paese più europeista d’Europa che si misurano oggi, a settantadue ore dal referendum inglese, gli effetti di Brexit sull’elettorato. Non c’è paese nell’Unione più unanime: a Barcellona e Bilbao anche chi non si sente spagnolo si sente europeo. È la storia della democrazia post-franchista, è cultura diffusa e cresciuta generazione dopo generazione nella culla degli Erasmus. Dunque, è sull’onda di un vero shock che si vota. La reazione è l’enigma della vigilia: ritorno agli ovili politici o contagio da spallata referendaria. Lo scenario, in bilico, può cambiare radicalmente nell’una o altra ipotesi. La situazione oggi è questa.
La Spagna torna al voto dopo sei mesi: il risultato di dicembre ha reso impossibile la formazione di un governo. I primi quattro partiti sono tutti sotto il 30 per cento e nessuna alleanza si è rivelata possibile. I sondaggi della vigilia, per quello che valgono e comunque realizzati prima di Brexit, dicono: stabili il Pp di Mariano Rajoy, partito di governo, al 29 per cento e il Psoe al 21. In crescita Podemos (25) e Ciudadanos (16) formazioni nate negli ultimi anni in chiave di rinnovamento. Più radicale Podemos, forte di una base popolare visibilissima e rumorosa, più moderata Ciudadanos, un partito più di uffici che di piazza che raccoglie la media borghesia silenziosa, delusa da destra e sinistra tradizionali. Ma questo prima dello schiaffo inglese all’Europa, appunto. La domanda oggi è quale effetto Brexit sul voto: effetto tutto emotivo, parliamo di tre giorni.
Nessuno dei quattro principali partiti è antieuropeista, al contrario: la Spagna ha storicamente guardato all’Europa come ad una soluzione, fin dalle battaglie dei democratici sotto la dittatura. Né esiste, in Spagna, una destra radicale euroscettica del genere Ukip, tutto il residuo franchismo essendosi riparato e riciclato nel Pp.
Il risultato del referendum è stato tuttavia sbandierato ad uso interno nei comizi finali, venerdì sera: per alimentare la paura da parte di Psoe e Pp, che sperano di far leva sul timore del caos per rastrellare voti. Per denunciare «il pericolo dei referendum» che, ha detto il leader del Psoe Pedro Sanchez, «delega ai cittadini decisione che spettano ai politici».
L’antipatia antireferendaria si tinge qui di storia patria: i partiti favorevoli all’indipendenza della Catalogna, reduci da un referendum vinto e annullato, sono oggi alleati con Podemos. Ma il voto inglese potrebbe sortire anche l’effetto opposto: anziché ricompattare Pp e Psoe potrebbe causare una sorta di “contagio” popolare e chiamare alle urne, con Podemos, anche coloro che non sarebbero andati a votare. In sintesi: Rajoy e Sanchez sperano che Brexit danneggi Podemos («ora più che mai c’è bisogno di ordine e stabilità», ha detto sabato Rajoy) mentre Podemos denuncia «l’ineleganza di chi si serve di Brexit per strappare un paio di voti» e, unico, difende lo strumento referendum con l’argomento del dito e della luna: «Il problema non è che i cittadini votino ma le ragioni per cui votano in quel modo. Nessuno vorrebbe uscire da un’Europa giusta e solidale». Del resto Podemos è l’unica fra le quattro formazioni principali che ha accreditato un delegato in Inghilterra, a Manchester, a sostenere materialmente la campagna per Remain.
Quindi: non siamo in Francia né in Olanda nè in Italia, non c’è nessuna forza politica, qui in Spagna, che voglia cavalcare Brexit per uscire dall’Europa. Il voto di oggi è da leggersi tutto nel segno degli equilibri interni. Molto delicati, molto mutevoli. Vediamo.
Il Pp dell’incolore Rajoy non potrà comunque governare da solo: Brexit fornisce l’utile leva della paura ma arriva tardi, all’indomani dell’ennesimo scandalo che vede coinvolto il ministro dell’Interno e il magistrato a capo dell’autorità Anticorruzione. Potrebbe allearsi con Ciudadanos, contrario all’indipendenza della Catalogna. Non basterebbe, con un sistema elettorale proporzionale, senza premio di maggioranza. Il Psoe di Pedro Sánchez, nonostante la camicia bianca e le maniche arrotolate, ha ottenuto a dicembre il peggior risultato della storia post franchista. Balla tra il 20 e il 21 e giusto sabato il grande vecchio del partito, l’ex premier Felipe González, è sceso in piazza a dire che mai e poi mai il Psoe dovrà allearsi «coi populisti». Mai con Podemos, insomma. Del resto Iglesias ha già scartato al primo giro, a dicembre, l’ipotesi di un’alleanza col Psoe e cavalca piuttosto il grande successo delle amministrative: le sue sindache governano Madrid e Barcellona, tra gli altri. Il comizio di chiusura a Madrid ha visto sabato notte una folla come in Spagna non si vedeva da tempo: «Dicono che siamo populisti e antisistema perché hanno paura. Gli antisistema sono quelli che privatizzano la scuola e l’educazione. Noi difendiamo la legge, l’ordine, la giustizia sociale». Podemos in effetti ha vinto le amministrative non “contro” la vecchia classe politica ma “per” una società più equa in senso economico e sociale. La sua debolezza sta nella vaghezza sul come pensi di governare, con chi. Se il re desse l’incarico a Iglesias, potrebbe farlo coi socialisti spaccando il Psoe. Può darsi. Molto dipenderà dalla forza del risultato: su Podemos pesa la diffidenza che nella parte più moderata del suo elettorato hanno suscitato le polemiche sul caso Venezuela: sarebbe stato Chávez, col quale molti dell’attuale classe dirigente di Podemos hanno collaborato negli anni in cui Pp e Psoe hanno chiuso le porte alle nuove leve della politica, a finanziare il movimento. Alle sue origini e non solo.
Ultima ipotesi: una possibile soluzione Monti. Un economista di fama (in alternativa, un servitore dello stato bipartisan) alla guida di un governo di scopo, un accordo di legislatura che cambi il sistema elettorale non adatto allo scenario quadripartito. Sarebbe un governo della nazione: Pp, Psoe e Ciudadanos. Gli avversari di sempre, quando gli schieramenti erano due, uniti per governare nonostante Podemos. Tutto il mondo è paese.
Nessuno sa però come reagiranno gli spagnoli alla “ferita inglese”. Ieri su più di un balcone sono comparse bandiere dell’Unione. Case di studenti, ma non solo Erasmus. «Prima europei, poi spagnoli, dicono gli alleati catalani di Podemos ». Col cuore in tasca, si vota.
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È il paese più europeista, a Barcellona chi non si sente spagnolo si sente europeo L’appello del leader Pp: “Ora più che mai c’è bisogno di ordine e stabilità”
AL VOTO
I supporter di Podemos a Madrid per l’ultimo momento di campagna elettorale Oggi la Spagna va alle urne per la seconda volta nel giro di sei mesi
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Pablo Iglesias, leader di Podemos
NAZIONALE - 26 giugno 2016
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26/6/2016
le elezioni in spagna
Iglesias all’assalto dell’Andalusia, feudo Psoe
ALESSANDRO OPPES
IL REPORTAGE. COMIZIO NELLA REGIONE CHIAVE DELLA SFIDA PER IL “SORPASSO”. MA PROPRIO QUI SPICCANO LE AMBIGUITÀ DI PODEMOS
DAL NOSTRO INVIATO
JEREZ DE LA FRONTERA.
L’avviso, inconsueto nella sua durezza, era arrivato a Pablo Iglesias dalla tenace leader andalusa di Podemos, Teresa Rodríguez: meno presenza negli studi televisivi e più “
patear pueblo a pueblo”,
scarpinare per paesini e remoti, dove il messaggio del “cambio” non arriva se non con il metodo del porta a porta. È qui, nel cuore dell’Andalusia profonda, che si gioca la partita decisiva di questa tornata elettorale. Non è solo perché questa sterminata regione elegge il maggior numero di deputati, 61 su un totale di 350. Questa è da trent’anni la roccaforte del Psoe, che non ha affatto intenzione di mollare la presa, tanto più ora che ha alla guida una leader carismatica come Susana Díaz, un osso duro, poco incline a patti con Podemos. E per sfidarla sul suo terreno Iglesias ha dovuto fare un esercizio di equilibrismo, perché i socialisti restano comunque alleati indispensabili per aspirare alla Moncloa. È sceso quaggiù, in una terra che finora gli ha dato scarse soddisfazioni (lui stesso riconosce la “cattiva immagine” del partito in Andalusia). E se nelle fredde analisi in tv si era proclamato come nuovo adepto alla socialdemocrazia, sulla piazza di Jerez ha toccato con mano le mille contraddizioni di un movimento con tante anime.
Sulla spianata della Alameda Vieja, all’ombra delle antiche torri dell’Alcázar del XII secolo, c’era un mare di bandiere rosse, insegne repubblicane e vessilli del Sat, l’inflessibile sindacato dei braccianti. Il cui leader, Diego Cañamero, capolista per Podemos nella provincia di Jaén, imputato per l’occupazione abusiva di una tenuta agricola, ha arroventato il clima delle ultime ore di campagna con imbarazzanti attacchi ai socialisti.
In vendita nei banchetti, vanno a ruba le opere complete di Lenin, Marx e Trotskij. Volontari distribuiscono esemplari di “ Lucha de clases, corrente marxista internacional”. Non sorprende così che l’ovazione più forte sia per Alberto Garzón, il leader di Izquierda Unida nuovo compagno di strada di Iglesias sotto la sigla di Unidos Podemos, andaluso doc di Malaga, orgogliosamente comunista.
A Cadice, capoluogo di questa provincia, da un anno Podemos è al governo con José María González, alias “Kichi”, un ex militante antisistema che è anche il compagno della leader regionale Teresa Rodríguez, esponente dell’ala anti-capitalista del partito. Kichi, che in campagna elettorale criticava l’industria armamentistica ora, da sindaco, benedice il contratto dei cantieri navali Navantia per la costruzione di cinque fregate destinate all’Arabia Saudita. I posti di lavoro prima di tutto, si giustifica. Gli antimilitaristi gridano al tradimento. È un altro segno delle ambiguità di Podemos, dagli slogan di piazza alla politica di palazzo.
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OMERO CIAI SU REPUBBLICA
NAZIONALE - 26 giugno 2016
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26/6/2016
le elezioni in spagna
I 4 leader e l’incognita dei comunisti
Dopo 6 mesi di ingovernabilità Podemos spiazza tutti con l’alleanza con Izquierda Unida
OMERO CIAI
DAL NOSTRO INVIATO
MADRID.
Mariano Rajoy è l’inossidabile che oggi lotterà per non perdere neppure uno dei seggi, 122, che conquistò sei mesi fa. Albert Rivera, volto pulito della destra, è il nuovo che non sfonda, anche lui afferrato ai 40 seggi del 20 dicembre 2015. Pedro Sanchez e il Psoe ne ottennero 90, il peggior risultato dagli anni Ottanta. Podemos, il movimento figlio degli “indignados” contro i partiti tradizionali, ne ebbe 69.
In questa sorta di secondo turno del voto spagnolo tutti ripartono da lì, dal giorno che per la prima volta certificò la frantumazione dello scenario politico, storicamente bipolare fra destra e sinistra, in quattro partiti, due vecchi e due nuovi. Ora saranno variazioni minime nell’attribuzione dei seggi con la legge D’Hontd, quella che finora ha favorito il bipartitismo, a dirci stasera chi potrà cantare vittoria e chi sarà sconfitto.
Nessun partito ha preso davvero atto di quel che accadde sei mesi fa, una situazione inedita di fronte alla quale era necessario accettare patti e fare concessioni. Qualcuno dice perché l’idea del “compromesso” non esiste in spagnolo, è un concetto estraneo alla cultura locale.
Il 20 dicembre, Mariano Rajoy, il leader del partito popolare, perse in una sola notte 64 seggi e l’ampia maggioranza assoluta che aveva avuto nel 2011. Chiunque al suo posto avrebbe restituito l’incarico, lasciando spazio a dirigenti nuovi e meno coinvolti negli scandali che hanno tormentato il Pp. Lui, invece non s’è mosso di un millimetro, trasformandosi in quello che oggi tutti considerano “il tappo” che ha impedito la nascita di un nuovo governo. Se perde voti e seggi stasera il suo destino è segnato ma l’effetto panico del risultato del referendum britannico potrebbe paradossalmente aiutarlo. La paura del futuro fa votare i brand sperimentati.
Le stesse cose si potrebbero dire di Pedro Sanchez, il candidato del Psoe meno votato di sempre, rimasto alla guida di un partito molto litigioso, molto diviso, e soprattutto molto indeciso sulle scelte da fare in una politica di alleanze.
L’unico stratega sulla scena è il professore di Podemos, lo spregiudicato Pablo Iglesias, che ha avuto l’idea geniale di rimettere in gioco i comunisti di Izquierda Unida. La formazione più radicale del panorama vale un milione di voti ma, per la legge maggioritaria, ha ottenuto solo due seggi sei mesi fa. Ora, nell’alleanza con Podemos, può regalare una quindicina di seggi all’audace Pablo.
Nasce da qui l’unica possibile svolta del voto di oggi. Mentre sei mesi fa sia la destra (Pp e Ciudadanos), sia la sinistra erano lontani dal numero magico dei 176 seggi, ora i socialisti e Unidos Podemos (Podemos + Iu), possono sfiorarla. E più vi si avvicineranno, più sarà difficile per il partito di Sanchez sottrarsi all’abbraccio di Podemos. Se, insieme, arriveranno a 170, sulla carta il nuovo governo già c’è, basterà il sostegno, anche esterno, di un partito regionale moderato come quello dei nazionalisti baschi (Pnv).
L’incognita, che sveleremo stasera, è lo shock del “sorpasso”. Non nei voti ma nei seggi. Ne avrà più Sanchez o ne avrà più Iglesias? Nel primo caso il patto a sinistra sarà più facile, nel secondo un po’ meno.
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Rajoy gioca la sua ultima carta oggi per riottenere consensi dopo il crollo di dicembre
Madrid, incubo ingovernabilità
L’ipotesi della grande coalizione
Oggi la Spagna vota. Rebus alleanze. Nel Psoe diviso c’è chi apre ai popolari
Francesco Olivo SULLA STAMPA DI STAMATTINA
(Susana Vera/REUTERS) - Una supporter del premier uscente, Mariano Rajoy
Mancava un mese alle elezioni e Pedro Sánchez, il leader socialista rassicurava un potente circolo di economisti nei dintorni di Barcellona: «Non ci saranno terze elezioni». Le frasi del capo del Psoe, ripetute agli imprenditori presenti, non erano scontate. La Spagna oggi torna al voto con una grande incognita: i risultati potrebbero somigliare molto a quelli dello scorso dicembre, ovvero allo scenario che ha portato a un’inedita paralisi. Stanotte, i seggi chiudono alle 20, con tutta probabilità il Paese non avrà un governo. E se negli ultimi sei mesi il Paese ha vissuto con relativa calma questa instabilità politica, la pazienza ora è finita e una terzo turno non è un’ipotesi accettabile, specie con una Borsa colpita duramente dalla Brexit.
Da domani partiranno trattative, i veti incrociati della campagna elettorale dovranno cadere. Quattro i partiti in campo: in testa, secondo gli ultimi sondaggi, è il Partito Popolare, lontanissimo però dalla maggioranza assoluta. I tre avversari, Pedro Sánchez (Partito Socialista), Pablo Iglesias (Podemos) e il centrista Albert Rivera (Ciudadanos) non sentono ragioni: nessun appoggio al Pp. Ciudadanos potrebbe affiancare il centrodestra solo a una condizione: la testa del premier Mariano Rajoy, per ora non disposto a farsela tagliare. Incompatibili, per promessa reciproca, i due nuovi movimenti, Podemos e Ciudadanos. Difficile un dialogo anche tra socialisti e Podemos. E se è vero quello che Sanchez ha detto agli imprenditori, come se ne esce?
La grande coalizione è un’ipotesi lontana, per ragioni storiche (non si è mai fatta a nessun livello) e politiche, «mai e poi mai», ha ripetuto il leader socialista, il quale però, davanti a un risultato negativo del suo partito potrebbe lasciare. Se Sánchez negherà fino alla morte ogni appoggio (anche passivo) alla destra, i colonnelli del suo Psoe mettono veti dall’altro lato, ovvero a Podemos. «Non governeremo con i populisti», ha detto venerdì Felipe González, patriarca socialista, mai stanco della politica. La voce di Felipe continua ad avere un peso enorme nel partito (quella di Zapatero è pressoché irrilevante), per accorgersene più che a Madrid bisogna spingersi a Sud, a Siviglia, la città dell’ex premier. In Andalusia, la regione con più disoccupati d’Europa, i socialisti hanno il bacino di voti storico e ormai quasi unico. Qui governa la vulcanica Susana Díaz, avversaria di Sánchez, con aspirazioni nazionali. La sua campagna è stata chiara: botte a Podemos e ai nazionalisti catalani, ovvero due dei possibili partner di Sánchez a partire da stanotte. Tagliare i ponti al segretario, potrebbe voler dire aprire le porte, se non alla grande coalizione, almeno a un accordo per lasciare governare la destra, magari con una legislatura corta. È la teoria del «comanda il più votato», enunciata proprio da Felipe. Mentre si montano i seggi si comincia già a parlare di un «re straniero», un Mario Monti alla spagnola, capace di mettere d’accordo tutti e capace di farsi intendere a Bruxelles.
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