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 2016  giugno 18 Sabato calendario

IL BUSINESS DELLE PRIGIONI RIEMPIE LE CELLE D’AMERICA


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Negli Stati Uniti l’industria delle prigioni private è diventata multimiliardaria: nel 2015 due tra le più note aziende che gestiscono galere non pubbliche, Correction Corporation of America (Cca) e Geo group, hanno registrato rispettivamente ricavi per 1,79 miliardi e 1,84 miliardi di dollari.
L’avvento di questo tipo di imprese risale agli anni ’80, come risposta al sovraffollamento nelle strutture di detenzione regionali e federali, un problema che in quel periodo raggiunse il suo picco. Allora il tasso di criminalità era però molto più alto di quello attuale. Dagli anni ’90 si è registrato un graduale e costante abbassamento, e oggi tale livello è circa la metà del 1990. Questo elemento, assieme ad alcuni cambiamenti di politica giudiziaria come la legalizzazione della marijuana, rappresenta uno svantaggio per le società penitenziarie private. Come si spiega, allora, il loro successo?
Da un lato ciò che rende attraenti i servizi offerti da queste aziende è evidente: forniscono il servizio a un costo per detenuto inferiore a quello delle prigioni pubbliche, e nello stesso tempo sono ben viste dalle comunità locali per le quali solo significano nuovi posti di lavoro. Dall’altro, nonostante la riduzione del tasso di criminalità, il numero delle persone detenute negli Stati Uniti continua a crescere. Su 100 mila americani, circa 700 si trovano dietro le sbarre, un dato molto diverso da quello di tanti altri Paesi del mondo: sono 88 su 100 mila in Italia, 113 in Spagna, 318 in Cina. Tali numeri sono molto vantaggiosi per le aziende che gestiscono carceri private, nelle quali si trova oggi circa il 10 % della popolazione detenuta.
Ma ci sono altre ragioni. I costi di gestione, in queste società, sono generalmente finanziati dal budget pubblico assegnato all’amministrazione penitenziaria, e sono proporzionali al numero di detenuti e al tipo di condanna. Chiaramente i costi lievitano se il numero dei reclusi è molto alto, se le pene che devono scontare sono lunghe, se alcuni detenuti richiedono misure di sicurezza avanzate e/o un’assistenza sanitaria superiore alla norma. Quindi, garantendo sempre un alto numero di carcerati, queste società si assicurano un costante e alto flusso di fondi pubblici. E per assicurarsi tale numero, le società ricorrono spesso ad accordi con i governi municipali e regionali: come ricorda il report del 2013 effettuato dall’istituto di ricerca In The Public Interest, in due terzi dei casi sono richieste una lock-up quota, cioè una quota minima di persone da tenere in carcere, e una low-crime tax, una compensazione da parte degli enti pubblici per i letti inutilizzati, nel caso in cui si riduca al di sotto della lock-up quota il numero dei detenuti. Quote e tasse vengono messe nero su bianco nei contratti, in modo da garantirsi fondi costanti da parte degli enti pubblici. Negli impianti esaminati in cui vige la lock-up quota negli accordi, la percentuale più comune sulla presenza minima richiesta di detenuti risultava del 90%, con una sola struttura al 70% e ben tre in Arizona al 100%.
Questi accordi incentivano di fatto la polizia e il sistema giudiziario a mantenere costante il numero degli arresti, evitando così di pagare per celle vuote il cui peso economico ricadrebbe sugli enti pubblici firmatari degli accordi.
Così tutte le grandi industrie del Paese, anche quella delle prigioni private si muove nel mondo politico come una lobby di influenza non insignificante. Proprio perché si accaparrano fondi e quindi margini di guadagno attraverso l’incarcerazione, è nel loro interesse dare sostegno a candidati e iniziative legislative che rispondano duramente alle varie tipologie di crimine. Non a caso, nel suo report annuale del 2014, Cca dichiara che il successo delle sue strutture potrebbe essere minacciato da una minor durezza delle forze dell’ordine e del potere giudiziario nell’applicazione della legge, come per esempio nella riduzione della durata delle condanne e nella decriminalizzazione di attività oggi perseguibili. Non a caso le società private di detenzione finanziano le campagne elettorali di quei candidati che, direttamente o indirettamente, promettono di mantenere il pugno di ferro. Negli ultimi 16 anni Geo Group ha finanziato candidati del partito democratico, di quello repubblicano e candidati indipendenti per un totale di 6,7 milioni di dollari. Nel 2010, per esempio, Marco Rubio ottenne 33.500 dollari per la sua candidatura al Senato.
Uno dei network più vasti e conosciuti dove legislatori statali e rappresentanti del settore privato si incontrano e si confrontano è l’associazione American Legislative Exchange Council (Alec). Questo organismo ha il compito specifico di fornire un’opportunità alle lobby per incidere sulla creazione di leggi. Il ruolo centrale all’interno di Alec consente alla lobby penitenziaria di avere una importante influenza nel processo legislativo.
E in questo tasso di detenzione tenuto costantemente alto sono i soggetti più deboli ad andarci di mezzo. Un discorso a parte merita la questione immigrati, ma anche i minorenni sono una categoria chiave: se solo il 10% del totale dei prigionieri è detenuto in strutture private, ben il 40% dei minorenni risconta la pena. Circa 70 mila giovani criminali sono ospitati in strutture di detenzione residenziali pubbliche e private, molti altri sono trattenuti in centri di detenzione in attesa di processo. Ciò vuol dire che su 100 mila minori, circa 300 sono carcere, e quando il dato è confrontato con quello italiano (11 su 100.000), il problema si palesa nella sua drammaticità.