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 2016  giugno 18 Sabato calendario

GRIDA D’AMORE PER IL MIO DETENUTO


Il carcere di Regina Coeli è una città nella città, abitata da un migliaio di persone, che resta invisibile e silenziosa. Noi liberi di qui e loro prigionieri di là, oltre il muro.
Solo di tanto in tanto arriva qualche rumore. Le grida e gli incitamenti durante le partite di pallone fra detenuti, quando godono dell’ora d’aria. In passato, in occasione di qualche protesta, il fragore della “battitura”, cioè lo sbattere, tutti insieme, di oggetti contro le sbarre della cella. Per il resto, silenzio. Un silenzio che si fonde con quello che regna in questo angolo di Trastevere lontano dagli schiamazzi della movida. Qui i rumori sono pochi. Le grida dei gabbiani, all’alba così intense. In estate, l’ossessivo frinire delle cicale. A mezzogiorno il colpo di cannone dal Gianicolo.
Ma ogni tanto, il pomeriggio o la sera, il silenzio è squarciato da una voce di donna. Il primo grido è sempre un nome di uomo. Ripetuto all’infinito, magari in attesa di una voce di risposta. Poi arrivano le dichiarazioni d’amore: «Amo’, te vojo beneeee», «Nun te lasciooooooo», «Sei la mia vitaaaa». Sono le donne dei carcerati. Compagne, mogli, fidanzate, amiche. Donne che, per qualche problema burocratico o per le misure restrittive della libertà alle quali sono sottoposti i loro congiunti, non possono accedere ai colloqui in carcere. Donne che urlano magari per una comunicazione urgente, oppure perché le cose da dirsi sono tante e i colloqui non bastano mai. Per urlare, si affacciano dalla terrazza sotto il Faro, il punto della passeggiata del Gianicolo in linea d’aria più vicino alle mura di Regina Coeli. Le voci di queste donne, a volte spinte dalla brezza, scivolano sulle chiome degli alberi e vanno a spegnersi oltre le mura del carcere, filtrano nelle celle e scaldano i cuori di chi sta dentro.
Un pomeriggio due giovani donne si sono affacciate dalla terrazza con tre bambini e per un paio d’ore tutti e cinque hanno gridato il loro affetto ai loro uomini e padri rinchiusi a Regina Coeli. Per un certo tempo, anni fa, una donna straniera, forse una Rom, si è esibita in lunghi monologhi recitati con voce cupa, come un estenuante basso continuo. Forse raccontava fatti di casa, magari erano sfoghi pieni di rimproveri per l’uomo che si era cacciato nei guai lasciandola sola.
A volte questi monologhi strappano il sorriso. Come quella sera d’estate in cui una donna gridò la sua pazza idea: «Amo’, te lancio er telefono con la fune, così ci parliamo». Oppure quando le due amiche con i figli, vedendo passare un’auto dei carabinieri, hanno intimato ai bambini: «State zitti, avete strillato troppo e adesso arrivano le guardie».
Viene in mente, a parti rovesciate, una scena memorabile di Nella città l’inferno, un film del 1958 ambientato nel carcere femminile delle Mantellate (ora dismesso). La detenuta Anna Magnani, insieme a un’altra carcerata, si arrampica davanti a una finestra e grazie a uno specchietto osserva il mondo di fuori. Scorge un uomo in strada ed esclama: «Anvedi che fusto!». Poi, non sapendo chi sia, la Magnani prova ad attirare la sua attenzione gridando a squarciagola nomi a caso, nella speranza di azzeccare quello giusto: «Mariooo, Giuliooo, Vittoriooo, Pierooo».
Invece gli uomini, dalle celle, non li senti quasi mai rispondere. Ma immagini il tumulto nei loro cuori. «I carcerati, comunque, sentono vicino il respiro della città», assicura don Vittorio Trani, da 38 anni cappellano di Regina Coeli. Come venga percepito questo respiro lo raccontò bene il musicologo antifascista Massimo Mila, rinchiuso lì durante il Fascismo: «Drizzandosi sulla punta dei piedi in quel tal punto del “passeggio” si scorgono di sfuggita i pini a ombrello del Gianicolo. E spiccando un salto s’intravede, laggiù a sinistra, il terrazzo d’una casa privata: un giorno, su quel terrazzo, si videro pure dei bimbi, che giocavano. La vita il mondo, la libertà! Bah! Meglio non pensarci».