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 2016  giugno 18 Sabato calendario

IL PIANO SULLE CARCERI CHE SMENTISCE ORLANDO


Settemila euro al metro quadrato: è il costo indicativo, recuperabile da qualsiasi motore di ricerca per il mercato immobiliare, delle abitazioni nei pressi del carcere di San Vittore, a Milano. Se si parte da questo numero, non stupisce che la discussione pubblica e politica in Italia sul nuovo piano carceri si sia recentemente concentrata sull’ipotesi dell’alienazione delle più antiche e grandi strutture piantate nel centro delle grandi città del nostro Paese. San Vittore a Milano, appunto, Regina Coeli a Roma, Poggioreale a Napoli.
Il primo è del 1879, Regina Coeli è stata trasformata in casa circondariale nel 1881, Poggioreale è dei primi del Novecento. Quindi, che altro si può fare se non vendere, tanto più che con i costi potrebbero essere pagate nuove strutture, magari fuori dai centri cittadini? Il ministro della Giustizia Andrea Orlando ha lasciato poco spazio alle interpretazioni spiegando a Repubblica che bisogna «superare i “moloch” ottocenteschi, strutture con costi di manutenzione altissimi per servizi come lo smaltimento dei rifiuti o il riscaldamento. Edifici che, anche fisicamente, con lo schema di un corpo centrale e dei “raggi”, puntano solo alla sicurezza attraverso una segregazione che spinge i detenuti alla passività, senza alcuna logica riabilitativa».
A prima vista il ragionamento non fa una piega. Eppure, se si guarda al rapporto finale dello scorso febbraio del tavolo 1 degli Stati Generali dell’esecuzione penale – voluti proprio dal governo – si parla sì di nuovi modelli architettonici e di necessità di superare l’impostazione attuale, ma alla vendita delle grandi, storiche strutture invece non si fa cenno. Anzi, «è più facile intervenire sugli istituti anteriori agli anni ’70, perché il massiccio uso, verificatosi dopo il 1975, di elementi portanti e di setti prefabbricati in cemento armato ha reso gli edifici realizzati in quella stagione di difficile trasformabilità: ciò ha richiesto il ricorso a interventi di ampliamento delle stesse strutture attraverso nuovi padiglioni detentivi, che non hanno offerto alcun elemento di rinnovamento funzionale e distributivo», si legge nella relazione frutto del lavoro di architetti, magistrati, avvocati, direttori di istituti e garanti dei detenuti.
L’idea di partenza è che anche la configurazione architettonica contribuisca a riabilitare e reinserire in società i detenuti. E, ribadisce il coordinatore dei lavori, l’architetto Luca Zevi, raggiunto da pagina99: «Sotto diversi aspetti, le carceri ottocentesche sono più facili da ristrutturare, sfruttando per esempio gli ampi corridoi per nuove funzioni lavorative e di socializzazione». Poi aggiunge: «Noi ci siamo espressi in controtendenza anche rispetto alla linea di espellere le carceri dai centri urbani». Vuol dire che il ministro sta facendo il contrario di quanto la relazione dei tecnici consiglia? Certo se ci sono ragioni per alienare gli istituti nel centro di Roma, Milano e Napoli, queste sono di ordine politico ed economico. Dire che non sono più utilizzabili, è invece una sicura forzatura del pensiero dei tecnici del tavolo.
Alcuni numeri per capire di cosa stiamo parlando. Oggi nelle oltre duecento prigioni italiane si trovano 53.873 detenuti (ultimi dati pubblicati sul sito del ministero della Giustizia) contro una capienza regolamentare di 49.697 persone. Il problema c’è, ma se tra i lettori molti si aspettavano una situazione più critica è perché non abbastanza si è parlato in questi anni del piano di riallineamento del nostro Paese che, condannato dalla Corte di Strasburgo nel 2013 per il sovraffollamento delle carceri, ha avviato una riduzione delle presenze, attraverso la depenalizzazione di alcuni reati e il ricorso a pene alternative. In circa due anni c’è stato un calo di 12 mila unità. Però le carceri italiane sono rimaste in gran parte quello che sono: strutture vecchie, spesso mal conservate, e pensate con una mentalità sorpassata, poco adatte alla rieducazione che – pare scontato ricordarlo – è l’obiettivo costituzionale della detenzione.
Ora, l’ampia riforma Orlando – ecco una delle novità degli Stati Generali – dovrebbe passare anche per l’architettura, con «un’evoluzione epocale degli istituti penitenziari da contenitori di celle di reclusione a organismi residenziali complessi, all’interno dei quali ai detenuti vengono garantiti tutti i diritti meno, evidentemente, quello relativo alla libertà di movimento all’esterno». Il modello è quello già adottato in nord Europa, ma anche in Spagna. Carceri-quartieri che non siano impermeabili agli scambi con la città che li contiene e che, al loro interno, siano organizzati con edifici differenziati per la notte, le attività lavorative e sportive, gli spazi dedicati agli incontri con la famiglia pensati in modo da poter garantire ai detenuti e ai loro ospiti un minimo di privacy.
Attualmente le celle sono allineate su lunghi bracci detentivi che rendono gli spazi molto alienanti. Dove possibile, bisognerebbe ristrutturarli creando unità più piccole, di sei/otto detenuti, simulando un’organizzazione più simile alle abitazioni familiari, con zone private e comuni una accanto all’altra. All’esterno di queste dovrebbero poi essere previste aree per le attività quotidiane fuori dalla cella. In Italia, nelle nostre carceri, non c’è oggi nulla di tutto questo. Ma in questo senso ristrutturare i vecchi “moloch” (dove, gioco-forza, troveranno spazio meno detenuti) «dotati di grandi spazi che dovevano suggerire la solennità della pena, è più facile che intervenire sugli edifici post anni ’70, in cui si è fatto abbondante ricorso a pannelli prefabbricati di cemento che rendono la divisione degli spazi molto rigida», prosegue Zevi. E i soldi? «Iniziamo a usare i fondi non spesi per il piano carceri precedente», suggerisce.
Nel 2008, infatti, il governo varò un piano per costruire nuove strutture che prevedeva investimenti per 675 milioni per creare 18 mila nuovi posti. Di quei soldi, ne sono stati poi stanziati 463 e spesi effettivamente, rileva la Corte dei Conti, 52. Rimangono, insomma, più di 400 milioni.
Prima ancora, però, bisogna intervenire sulle celle. Da noi, infatti, un po’ per il sovraffollamento e un po’ per rispondere a un’esigenza di socializzazione, si sono abolite le singole a favore di celle doppie e triple. Una soluzione che si è poi dimostrata inadeguata. Ora i nuovi standard prevedono che la vita del carcerato si svolga per almeno otto ore fuori dal luogo in cui dovrebbe semplicemente tornare la sera a dormire; perciò il pool di tecnici fa sapere di non essere d’accordo con chi sostiene che questo renda praticabili le celle doppie o triple, per il solo fatto la convivenza si riduce ameno ore. Invece, «è necessario che ciascuno possa godere a sera di un momento di privacy nel quale essere in contatto con sé stesso, nella camera di pernottamento individuale con un servizio igienico di pertinenza, come prescrive la norma», si legge nella relazione.
Finora, fa notare Alessio Scandurra, responsabile dell’osservatorio sulle condizione di detenzione dell’associazione Antigone, «nella maggior parte degli istituti la cella più diffusa è quella da 12 mq, pensata in origine spesso proprio come singola. Se fossero usate come singole però la capienza del nostro sistema penitenziario crollerebbe, e questo è ovviamente il problema più grosso. Non abbiamo abbastanza celle singole». Qualche esempio: Brescia Canton Monbello: capienza 189, presenza 354. Catania “Bicocca”: capienza 138, presenza 217. Como: capienza 221, presenza 385. Taranto: capienza 306, presenza 481. Vigevano: capienza 239, presenza 417. «È chiaro che in posti come questi la cella singola è una meta ancora molto lontana». Collegata a questa questione è quella dei servizi igienici, che devono essere pertinenti alla cella ma separati, non nello stesso locale. «Accade già in molti istituti, alcuni con caratteristiche molto diverse tra loro. È solo una questione di costi», precisa Scandurra.
L’altra grande riforma riguarda le strutture attuali sotto i cento, o almeno sotto i settanta detenuti di capienza, che andrebbero trasformate in sedi per forme attenuate di custodia. Le piccole carceri, così, diventerebbero luoghi dove i condannati tornerebbero la sera, con una presenza “leggera” di polizia (il personale penitenziario, in realtà, dovrebbe alloggiare in spazi diversi anche nelle grandi carceri, nota la relazione): strutture ponte verso il reinserimento nella società. Qui il concetto di porosità verso l’esterno raggiungerebbe quindi la sua espressione massima.
Qualche esempio? «Al nord – spiega Scandurra – potrei citare Pordenone (capienza 38 posti), al centro Grosseto (15) o Fermo (41) e al sud Laureana di Borrello (34). Qui l’istituto è stato inaugurato nel 2004 come sperimentazione di custodia attenuata e trattamento avanzato ma, chiuso per un anno, ha poi riaperto come carcere “normale”. Altri piccoli istituti, non necessariamente in centro, già a custodia attenuata sono Empoli (femminile, 19 posti), Massa Marittima (48) o Eboli (54)”.
Il modello è in parte quello già attuato per gli Icam, gli istituti per le detenute madri con i figli. Anche qui, però, non tutto va per il verso giusto. Le strutture di questo tipo già operative attualmente sono Torino “Lorusso e Cutugno”, Milano “San Vittore”, Venezia “Giudecca” e Cagliari (che al momento non ospita donne), ma detenute con figli al seguito si trovano anche a Firenze, Como, Roma, Reggio Emilia e Avellino.
C’è un problema di spazi, ma anche di gestione. L’architettura, da sola, non basta: «Bollate e Opera – nota Scandurra – sono due strutture identiche, architettonicamente. Ma mentre la prima è nota per la sua apertura verso l’esterno, Opera a lungo è stata considerata una delle prigioni più deficitarie. Anche se oggi non è più così».
L’obiettivo è pensare a luoghi di reclusione che comunichino con il resto del mondo, «organismi complessi, attraversati da flussi in uscita – per recarsi al lavoro o anche casa per un tempo limitato – ma anche in entrata, con una presenza sempre più intensa della città nel carcere, non soltanto con l’esposizione alla cittadinanza di quanto si va facendo all’interno – spettacoli teatrali, mostre di prodotti artigianali e artistici modellati nei laboratori – ma anche usando gli spazi interni non residenziali come punti di cultura della collettività urbana», scrivono i tecnici.
Si può fare anche nelle strutture attuali, ma bisogna disporre di fondi adeguati. E, ovviamente, bisogna volerlo politicamente. Perché espellere le carceri lontano dagli occhi – «portandole in periferia dove restano corpi remoti, estranei alla città», fa notare Scandurra – è, naturalmente, una tentazione sempre presente.