pagina99 18/6/2016, 18 giugno 2016
L’INTEGRAZIONE DEI RIFUGIATI NON È AFFARE DA BUONI
A prendere per buono un recente rapporto globale di Amnesty International, siamo tutti preoccupati per la sorte dei rifugiati e ansiosi di riceverli, o quasi. Stando all’indice dell’accoglienza stilato qualche settimana fa sulla base di un sondaggio realizzato in 27 Paesi (l’Italia non è tra questi), quasi il 70% degli intervistati vorrebbe che il proprio governo facesse di più per aiutare i rifugiati. Questa già sorprendente percentuale sale oltre l’80% in Cina (il Paese più empatico, almeno secondo il sondaggio, anche se hanno spot pubblicitari in cui entri in una lavatrice nero e con un buon detersivo ne esci cinese) e al 76% in Germania (al secondo posto, malgrado l’ascesa della destra dell’Afd), terzo il Regno Unito (con buona di pace dei brexisti e del governo Cameron che guarda in cagnesco gli aspiranti richiedenti asilo ammassati a Calais e dintorni). Uno su dieci ne prenderebbe addirittura uno in casa, quasi uno su tre nel Regno Unito. Ed è ancora più alto – per inciso – il sostegno nei Paesi non industrializzati, che si accollano il grosso dell’accoglienza (l’86% di tutti i rifugiati al mondo).
Qualcosa non torna, è chiaro. Ci sfiora il sospetto che chi, ad esempio, è convinto che l’immigrazione sia organizzata da chissà quale centrale genocida per sostituire etnicamente gli europei, come Salvini, magari non sta lì a rispondere al Amnesty. Ma va accolto anche un altro dubbio: che il rifiuto dei rifugiati non sia il sentimento prevalente tra noi; e che quei cittadini incattiviti che spaventano alle urne la classe politica siano, in alcuni casi, una minoranza, arrabbiata ma minoranza; mentre non è detto che la maggioranza silenziosa sia chiusa in se stessa a rimuginare per forza pensieri cupi, ostili e paranoici.
L’onda di rifiuto potrebbe essere più bassa di quel che i governi, al di là e al di qua dell’Atlantico, temono. Ma questo timore ha già dato i suoi frutti. La Casa bianca obamiana si era impegnata nello scorso autunno ad accogliere 10mila profughi siriani, ma nel frattempo il Congresso cambiava con sostegno bipartisan le regole del visto e gli arrivi si sono distillati col contagocce (2.500, finora). L’Unione Europea ha consegnato a Erdogan le chiavi di ingresso, chiudendo con l’accordo con la Turchia la rotta balcanica e allo stesso tempo continuando sulla sua politica di caos e incertezza giuridica sui requisiti per avere lo status di rifugiato. In questo numero di pagina99, c’è un racconto straordinario di quel che succede alle porte d’Europa, raccolto da Stefano Liberti in una caserma della Bulgaria che ospita rifugiati siriani. Tra loro c’è un poeta-portavoce, che si chiede quand’è che il loro popolo è diventato merce. Merce quotata al mercato dei passeurs, e a quello degli scambi politici. Ma proprio la logica economica porterebbe da un’altra parte. Nel servizio di apertura, diamo le stime del potenziale “effetto Pii” del flusso dei rifugiati. Che potrebbe avviare un piccolo new deal europeo, se fosse gestito, governato. In primo luogo accettato: i costi maggiori sono infatti quelli della nostra irrazionale e caotica “politica” dei rifugiati, che tiene masse di persone ferme in attesa, dopo averle costrette a consegnare tutti i loro averi alla criminalità che li ha portati fuori dai propri Paesi.
L’Europa ha avuto lo scorso anno un afflusso eccezionale di richiedenti asilo, è vero. Ma uno sguardo alla sua storia recente, agli anni della dissoluzione dell’impero sovietico e alla tragedia umanitaria dei Balcani, mostra che già altre volte nel passato è stata capace di assorbire ondate più piccole ma comunque consistenti. Lo choc dell’ultima ondata può avere un effetto positivo sull’economia di un’Unione debilitata, stagnante, in crisi demografica oltre che di identità. E le spese per l’accoglienza possono essere un investimento, e non una zavorra assistenziale. Questo dicono le stime del Fondo monetario e di molti think-tank; questo raccontano alcuni esempi del passato; questo (forse) intuiscono, nel loro buon senso, gli intervistati del sondaggio di Amnesty. Non si tratta di buonismo, semmai di opportunismo.