Luigi Spinola, pagina99 18/6/2016, 18 giugno 2016
ALLE URNE CON I TUDOR E WINSTON CHURCHILL
Se in Italia in vista del referendum costituzionale i politici si contendono l’endorsement dei partigiani, nel Regno Unito alla vigilia del voto sull’Europa il richiamo ai padri della patria risale molto più indietro nella genealogia della nazione. E l’astensione non è concessa a nessuno.
I sostenitori dell’opzione Leave hanno tentato di arruolare anche William Shakespeare, annotando che il bardo giudicava la Grecia “insolente”, la Danimarca ovviamente “marcia”, gli olandesi “sfrontati”, gli spagnoli “vanitosi”, i tedeschi “rudi”. Poco più di una boutade, ma l’esame di coscienza collettivo in realtà è materia delicata.
L’elettore davanti all’urna si vedrà passare tutta la storia davanti, sollecitato ad andare oltre la razionale valutazione dei costi e benefici dell’appartenenza alla Ue per arrovellarsi sull’identità nazionale forgiata nei secoli. E sebbene trecento autorevoli storici abbiano sottoscritto un appello per assicurare all’elettorato che la fortuna del Regno è legata e da tempo alla sua integrazione nel sistema europeo, la partita che si svolge sul campo lungo della storia può avvantaggiare i sostenitori della Brexit, favoriti dal fantasma della passata grandezza.
Del resto, spiegava Charlotte Higgins in un recente long read del Guardian,il regno è più che mai travolto dalla Tudormania perché i Tudor incarnano al meglio l’idea del destino eccezionale dell’Inghilterra, un regno a parte e superiore gli altri. Così i sostenitori del Leave leggono nel distacco dalla Chiesa di Roma la Brexit originaria, celebrando Enrico VIII come il primo brexiteer. E ritrovano nella voglia di ribellarsi ai commissari di Bruxelles o ai giuristi di Strasburgo, lo spirito di rottura della Riforma, che animava il rifiuto dell’uniformità dottrinale imposta con il diritto canonico.
È una tesi, quella della Brexit ante litteram, che trova d’accordo anche un sostenitore del campo dell’opzione Remain come lo storico Niall Ferguson. Lui però – fa sapere sul Times – avrebbe suggerito a Enrico VIII di «restare, tenersi Caterina d’Aragona e fare fronte comune contro i turchi». E anche oggi sottolinea la necessità di restare, perché il Regno oltre che eccezionale è anche indispensabile. La storia insegna che l’equilibrio europeo è assicurato da Londra. E l’isolazionismo britannico porta alla disintegrazione del continente. «Non coltiviamo l’illusione di poter partire», ammonisce Ferguson, «perché saremo poi costretti a tornare per mettere a posto le cose». Non solo quindi perché uscire dall’Europa vuol dire, prosaicamente «perdere ogni influenza sui termini dei rapporti con nostri principali partner commerciali, e pregiudicare il futuro di Londra come centro finanziario».
Rischi e conseguenze negative che i brexiteer più radicali sono pronti a correre pur di non piegarsi a Bruxelles. Come non cedettero di fronte a Napoleone l’ammiraglio Nelson, trionfatore di Trafalgar, e il Duca di Wellington che guidò l’esercito britannico a Waterloo, arruolati anch’essi oggi tra i separatisti. Parallelo legittimo, spiega lo storico ultraconservatore Andrew Roberts, autore del recente Napoleon the Great, secondo il quale «coloro che allora volevano arrendersi sono lo stesso tipo di persone pronte oggi a piegarsi ai diktat di Bruxelles». Anche Napoleone offrì al Regno Unito l’opportunità di prosperare nella sua Europa offrendo commercio in cambio di pace. “La nazione dei bottegai” (Napoleone dixit) però non rinunciò a lottare e subì pesanti conseguenze economiche dal blocco continentale che tagliò fuori le navi inglesi dai porti d’Europa. Perché il premier William Pitt il Giovane non credeva, a differenza di David Cameron, che «nulla è più importante che proteggere la sicurezza finanziaria delle persone», come ha affermato durante la campagna l’attuale primo ministro. E ieri come oggi, sostiene lo storico, sono in primis i pesi massimi della City e del Big Business a spingere per la resa.
Lo spettro più efficace però rimane quello hitleriano. E Winston Churchill il mito più conteso nella famiglia conservatrice. Se paventare un Quarto Reich tedesco rientra nell’arsenale retorico dei populismi euroscettici di destra e sinistra, nel caso di Boris Johnson il richiamo al passato è sistematico. Perché permette al capofila del fronte della Brexit di indossare i panni del Churchill dei nostri tempi, statista che venera e sul quale ha scritto un’avvincente biografia. La successione però è aspramente contestata da Cameron, oltre che dal pronipote del Leone d’Inghilterra, il parlamentare tory Nicholas Soames, che lo ha diffidato dall’intestarsi l’eredità politica del bisnonno.
Nessuno può dire con certezza come voterebbe Winston Churchill, scomparso quando la comunità europea muoveva i primi passi e Londra l’osservava da fuori. Qualche buon argomento per annoverare tra i loro l’uomo che nel 1940 immaginava un’unione politica con la Francia, gli europeisti però ce l’hanno. E più che negli indizi, o nelle dichiarazioni a favore degli «Stati Uniti d’Europa» (molti anche quelli contrari) pesa la sua visione della virtuosa coesistenza, come majestic circles sui quali poggia l’armonia geopolitica e culturale del Regno, dell’anglosfera (che sopravvive nella special relationship con gli Usa, che per Washington sarebbe meno speciale se Londra uscisse dalla Ue), del Commonwealth che gestisce l’eredità imperiale e della grande famiglia europea.
Ma anche se si presentasse alle urne, neanche quello di Churchill sarebbe un voto decisivo. Perse anche le prime elezioni post belliche, dopo aver guidato la nazione alla vittoria contro la Germania tra lacrime dolore e sangue.