Mario Sconcerti, Limes: Il potere del calcio 5/2016, 23 giugno 2016
L’ARTE DI CONQUISTARE SPAZIO PRINCIPIO E FINE DEL GIOCO DEL CALCIO– 1. Quando centocinquant’anni fa gli inglesi inventarono il calcio, lo pensarono come una giostra medioevale
L’ARTE DI CONQUISTARE SPAZIO PRINCIPIO E FINE DEL GIOCO DEL CALCIO– 1. Quando centocinquant’anni fa gli inglesi inventarono il calcio, lo pensarono come una giostra medioevale. Uno contro uno, un dribbling obbligato e continuo perché doveva vincere l’uomo, il migliore, non esisteva la squadra. Non durò molto, ma per più di dieci anni lo schema era un vero 1-1-8, cioè un difensore, un centrocampista addetto a distribuire i palloni, e otto attaccanti. Non era previsto un gioco del calcio, una collettività. Gli otto attaccanti erano schierati tutti sulla stessa linea un po’ oltre la metà campo e da lì dovevano a turno partire cercando di saltare il proprio avversario. Questo metodo impossibile aveva una logica, era la risposta all’indefinitezza del calcio nei tremila anni precedenti. Nel senso che in tutto il mondo, dalla Cina all’antica Grecia, si era sempre giocato con una palla, ma senza un ordine. Spesso era un gioco di abilità, controllare il pallone che tornava deviato dai rami di un albero (in Giappone), o mandarlo dentro un cerchio di pietra a quattro metri di altezza (gli aztechi). Altre volte era una conquista di spazio nel territorio degli altri. In Francia, nel medioevo, si giocava tra paesi vicini. Vinceva chi portava il pallone sotto la chiesa del paese avversario. Non c’era la porta, c’era la conquista di un confine. Quasi sempre si giocava con le mani (il calcio non è altro che una sottigliezza del rugby) per via delle forme scadenti dei palloni. Controllare con i piedi sfere molto imperfette era un problema. Più facile usare le mani. Così, quando nel 1863, alla Free Mason Tavern i rappresentanti di undici università decisero che il gioco con i piedi era un gioco a parte e si sarebbe chiamato football, sembrò giusto anche dargli una forma diversa. Privilegiare il dribbling fu doveroso. Si giocava solo tra gentiluomini, il modo migliore per sottolinearlo parve la sfida cavalleresca tra individui. Era un po’ frustrante e molto confusionario. Per rimanere nel gioco anche dopo la singola tenzone, i giovani universitari si mettevano a inseguire compagni e avversari sbattendo spesso tra loro. Tornava così il disordine messo frettolosamente fuori la porta. I primi ad accorgersene furono gli scozzesi. Studiando i modi di muoversi dei rugbisti inventarono il primo vero schema del calcio. Era un 2-2-6, già più accettabile. Ma la vera novità stava nel dovere di passarsi la palla, cioè nella scoperta di un gioco di squadra. Un ribaltamento dello spirito iniziale. Il 30 novembre del 1872, con i rispettivi schemi, si giocò per la prima volta Inghilterra-Scozia. Finì zero a zero nonostante fossero in campo 14 attaccanti e appena 3 difensori. Naturalmente, evolvendosi il gioco, diventava normale seguirne le necessità. Attaccare restava il privilegio, ma si capì presto che si poteva farlo meglio arrivandoci anche attraverso difesa e centrocampo. Nacque così a cavallo tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento lo schema che è rimasto la base di tutto il calcio: la Piramide di Cambridge. Quale fu la parte di Cambridge non è mai stato chiaro, forse nacque da idee clandestine di qualche studente, in compenso fu subito chiaro il diverso equilibrio che portava in campo. La Piramide è esattamente quello che dichiara, un triangolo equilatero, cioè un 1-2-3-3, dove l’uno iniziale è il portiere. Molto interessanti le premesse tattiche. I due difensori non marcavano gli attaccanti, a quello erano demandati i due mediani e il battitore della seconda linea. I due difensori erano veri e propri liberi, marcavano a zona, avevano il compito di spazzare qualunque pallone arrivasse nei loro paraggi. La Piramide decise anche il modo di chiamarsi del nuovo calcio. I due liberi erano la terza linea, infatti si chiamarono terzini. I tre di mezzo erano la seconda linea, quella mediana. La terza, quella degli attaccanti, si chiamò prima linea. Sono, un po’ mescolati, gli stessi nomi che si danno ancora alle tre zone del campo. È qui che nasce l’idea di tattica nel calcio, cioè il tentativo di darsi una vera organizzazione. Ridotta ai minimi termini, la Piramide era un 5-5, ma bastava che una mezzala retrocedesse a prendere il pallone, o un’ala (wing in inglese) vagasse un po’ per il campo e lo schema cambiava. Per la prima volta si era preso coscienza del grande problema del calcio, l’equilibrio di squadra. Da allora di tattiche ce ne sono state molte e altre continuano a nascere, ma tutte hanno lo stesso scopo della Piramide, trovare equilibrio nella posizione in campo dei giocatori. 2. In sé le tattiche sono quasi un inganno. Se inventi un frigorifero deve raffreddare le cose. Tutti i frigoriferi lo faranno. Non esiste invece una tattica vincente a uso e consumo di tutti. Se ci fosse basterebbe applicarla e vincerebbe chiunque. Sappiamo che non funziona così. Questo porta alla prima legge del calcio: qualunque tattica va sottomessa alle qualità dei giocatori. Ma i giocatori sono individui, fondamentalmente simili ma unici, quindi diversi l’uno dall’altro. Questo porta alla seconda legge: nessuna squadra potrà mai applicare l’identico schema dell’altra. Non esistono due squadre uguali. Questo è oltremodo imbarazzante perché la conclusione drastica è che le tattiche (generali) servono a poco. Sono semplificazioni per ragazzi muscolari e per tifosi che vogliono giudicare cercando certezze. Ma il calcio è simile alla quantistica, i giocatori sono quanti che vanno dove sentono di andare. Anche nel calcio il principio base è il principio d’indeterminazione del buon vecchio Heisenberg. In più nel calcio ci sono gli avversari. Io posso organizzare una buona partita se penso di indovinare come giocheranno i miei avversari. Ma anche quelli sono individui, sono in buona parte non prevedibili. Aggiungete infine il fatto che la palla è rotonda, che ci sono le condizioni del tempo che cambiano il campo, quindi le direzioni stesse della palla. In sostanza la tattica non può essere che un principio organizzativo di base, non molto di più. Quello che conta è che una squadra abbia equilibrio, cioè possa coprire tutto il campo, in pratica sia pronta a non avere spazi liberi per l’avversario. Questo ha portato spontaneamente il calcio a giocare a zona in tutto il mondo. La zona è lo spazio a disposizione di un giocatore, il suo angolo di battaglia. Dentro la propria zona si marca poi evidentemente a uomo. Dagli anni Settanta in poi, cioè dall’esplosione del calcio olandese come filosofia di gioco, le vere novità sono state due: l’interscambiarsi di alcuni ruoli e la vicinanza tra i giocatori. Si sono usati gli spazi un po’ più a ventaglio, aiutava chiuderli o allargarli, a seconda si difendesse o si attaccasse. Il concetto moderno di equilibrio passa sostanzialmente da questo principio di base: mai meno di sei uomini addetti alla fase difensiva, almeno quattro addetti alla fase di attacco. È un principio molto elastico: il calcio è un gioco flessibile o non è. Ma anche su questo c’è molto da discutere. Forse succede solo che nel calcio si discute troppo, ma d’altra parte è nato per questo, è una chiacchiera universale, l’unico grande divertimento che il mondo ha in comune. L’equilibrio è un principio giusto, ma rispetto a che cosa? Abbiamo detto che serve ad avere un controllo corretto del campo e dell’avversario. Tutto giusto. Ma la vera fonte, l’ispirazione dell’equilibrio è il risultato. Appena una squadra subisce un goal o lo segna, l’equilibrio salta, o meglio, deve essere riformulato, ne va trovato un altro da entrambe le squadre. Che senso ha allora aver provato una formazione per una settimana e doverne cambiare i modi di giocare, spesso gli uomini, magari dopo pochi minuti di partita? Dopo un goal la squadra deve o attaccare di più o difendersi di più perché quella è la spinta che porta il risultato. Si cercherà cioè uno squilibrio, siamo arrivati dalla parte opposta rispetto a dove si era partiti. È un paradosso. Non a caso Liedholm, uno dei più grandi pensatori del calcio moderno, sosteneva che la partita perfetta finirà zero a zero. Nessun goal, nessun errore. Perché la funzione di un giocatore è rompere l’equilibrio per cui si è lavorato, provocare l’errore dell’avversario. Anche nelle più grandi prodezze di Messi ci sono errori dei suoi avversari. Più sei bravo e più ne causi. L’incertezza del gioco non è tattica, sta nella bravura dei giocatori. L’organizzazione è fondamentale, ma a tale punto che tutti ormai ne hanno una di base. È solo l’inizio, non è il percorso. Come la preparazione atletica, qualcuno pensa ancora che possa essere diversa. Non è così. Ci saranno varietà alimentari, invenzioni di esercizi, ma oggi la preparazione di un atleta è altamente controllabile, quindi rimediabile. E ha regole universali. Non cambiano i metodi, cambiano le macchine, cioè i giocatori. Questo porta alla quarta legge del mio calcio: la base non è mai strettamente tattica, ma soprattutto tecnica e fisica. La tattica non ha più il significato che gli abbiamo sempre dato, cioè quasi militare, una trovata per vincere la partita e i campionati. La tattica oggi è gestione della gara, minuto per minuto. Ricreare continuamente un equilibrio che qualche avversario spezza. Capire quando serve il giocatore che rompa l’equilibrio o aiuti a ritrovarlo. Si potrebbe provare fin dall’inizio, giocare con una squadra meno equilibrata, un 5-5 come ai tempi della Piramide, o addirittura un 4-6. Ci hanno provato in molti. Rocco inventò la Maginot, una difesa mediana a sei giocatori, Mourinho ha schierato fino a sette giocatori dediti al gioco di attacco nella stessa partita, ma sono state eccezioni. Spesso rimedi per recuperare un risultato. Nessuno ha mai avuto il coraggio o la fantasia di andare stabilmente oltre la regola ufficiale, il metodo che si può indicare nel 6-4, o meglio 6-1-3. Più difensori che attaccanti perché la vera conquista moderna è che il goal ha la stessa importanza del non goal. Il calcio all’italiana non è catenaccio. Quello servì alle squadre piccole (Salernitana, Triestina, Padova) per ridistribuire potenza. È invece sapienza nella gestione della partita, cambiare schemi, cioè compiti, continuamente. Questo annoia molti giocatori di altri campionati. In Inghilterra hanno pregiudizi verso i tecnici italiani perché parlano sempre di tattica. A Leicester fu la prima cosa che un anno fa chiesero a Ranieri: non ci faccia allenare sulla tattica, ci lasci giocare. Ranieri rinunciò alla sua differenza andando incontro alla voglia di lotta e corsa dei suoi giocatori. Non ha vinto per questo, ma lì ha cominciato a vincere. Non li ha annoiati, li ha divertiti. 3. Sono esistiti nel calcio due moduli fondamentali dopo il WM di Chapman negli anni Trenta. Uno è stato il calcio olandese alla fine anni Sessanta e uno è stato il calcio all’italiana. Sono i due veri modelli universali. Le altre sono state variazioni. Faccio un esempio. Verso gli anni Duemila cominciò ad andare di moda il 3-4-3, ma c’era il trucco. Il quarto uomo di centrocampo era sempre un difensore aggiunto, qualcuno con capacità di fare il doppio ruolo, terzino o ala. Perché comunque il principio è che un uomo debba coprire una zona. La variante è che un uomo copra due zone, come appunto quel terzino, ma mai l’inverso, cioè che nessuno copra una zona. La tattica è questa, non uno schema fisso ma un equilibrio mobile. Perfino Sacchi non ha inventato troppo. È stato il Kant del calcio, scoprì cioè che la conoscenza è larga quanto la fiamma di un cerino e spostò la squadra di conseguenza. La mobilitò su quella fiamma. Tutti dovevano correre talmente tanto per coprire le ipotesi di conoscenza che presto non fu più possibile eseguirlo. Sacchi è stato un genio, alla lettera. Ha vissuto di una sola idea. Diverso è il talento. Come diceva Carmelo Bene il genio fa quel che può, il talento fa quel che vuole. Il talento è imparare e mettere quello che impari al servizio delle tue idee. Il genio nasce con un’idea ed è il migliore. È Mozart. Ma non insegna, è se stesso e basta. Non è ripetibile, non può essere un modello. Il calcio all’italiana è metodo, sorpresa. Non è fare solo catenaccio, questo è banale. È aspettare per trovare spazio alle spalle degli avversari. Annibale mise i celti alleati nell’avanguardia del suo esercito a Canne. Sapeva che erano demotivati, infatti si fecero travolgere presto. Ma lo aveva previsto e aveva disposto la cavalleria ai lati. Quando i romani sfondarono al centro si trovarono così circondati. Questo, se possibile, è il meglio del calcio all’italiana. Calcio verticale contro calcio orizzontale. Io non ho dubbi, ma capisco ce ne possano essere. Il calcio all’italiana fu inventato dalle piccole squadre per arginare la superiorità delle grandi. La vera svolta avvenne nel 1952 quando fu una grande squadra, l’Inter, a decidere di attuarlo. Nessuno lo aveva applicato in una squadra di nome. Lo fece Foni dando ad Armano, un’ala destra offensiva, il compito di coprire tutta la fascia, fase difensiva compresa. Questo gli permise di spostare Blason, un terzino, a fare il centrale. L’Inter fu la prima squadra con due difensori centrali. Era cambiato il calcio, era nata un’idea universale. L’anno prima la Juve aveva vinto il campionato segnando 97 reti. Due anni prima aveva vinto il Milan di Nordahl segnandone più di cento. L’Inter vinse segnando appena 46 reti, meno della metà. Nacque una scuola che vive ancora, come i resti del calcio olandese, identificabili nelle lezioni di tutti gli epigoni di Guardiola. Questo porta al possesso palla, altro slogan inutile. Le statistiche dimostrano che non conta niente. Altrimenti basterebbe tenere il pallone. Il punto è come lo tieni, a che velocità, con quali movimenti. L’inventore del gioco olandese, Rinus Michels, il quale sosteneva a gran voce di non cercare di imitare l’Ajax perché era un jolly unico, scriveva che la sua prima regola era che il pallone passasse da un giocatore in movimento a un altro giocatore in movimento. Oggi il possesso palla è l’opposto. Un giocatore fermo a centrocampo devia il gioco su un altro giocatore fermo. Che senso ha? Dov’è la modernità? Niente, assolutamente niente nell’aritmetica del calcio dice che abbia più possibilità di vincere chi tiene più il pallone. Avviene semplicemente il possibile. Tutto è riconducibile alla teoria di base: il calcio è cercare spazi, o attraverso uno sfondamento o attraverso una ritirata che apre spazi alle spalle degli altri. Gli olandesi cercavano di sfondare, gli italiani fanno l’opposto. Anche la scelta del modello deve considerare le caratteristiche dei giocatori a disposizione. Chi cerca un gioco a prescindere potrà avere buone idee e spesso buona stampa, ma non farà alla lunga buon calcio. Insomma, non c’è una regola preconfezionata, altrimenti Totti non potrebbe giocare ancora a quarant’anni. Il calcio è quasi una piccola arte. Si tratta pur sempre di gestire uno strumento correndo, come artisti di strada. Né basta avere Cimabue come maestro per diventare Giotto. Serve Giotto. Con buona pace dei tattici.