Franco Arturi, SportWeek 18/6/2016, 18 giugno 2016
SONO TUTTI FIGLI DI
Questa è una storia vera. Di cavalli, soprattutto, ma non solo: anche di sovrani, misteri, vecchiette spione, affari miracolosi, tradimenti, minacce, riti, rivoluzioni. È la storia dei quattro stalloni che fissarono la razza dei purosangue e che sono gli antenati di tutti i galoppatori che corrono negli ippodromi dei 4 continenti. Ma è anche la ricostruzione della nascita dello sport più antico fra quelli codificati: l’ippica. Le prime corse di cui si ha notizia certa furono promosse da Riccardo Cuor di Leone, che in Terra Santa, durante la Terza Crociata, aveva trovato conferma diretta di ciò che nel suo Paese gli esperti sospettavano già da decenni, cioè che i cavalli arabo-berberi correvano come il vento: erano i più veloci. E il re, probabilmente nel 1194, promosse delle gare riservate a quegli animali, istituendo la prima corsa a premi della storia: 40 sterline d’oro in palio. Dove? Sulla piana di Epsom, teatro del Derby ancora oggi, quasi un millennio dopo. I reali inglesi sono sempre stati appassionatissimi di cavalli da corsa: uno dei primi atti di Elisabetta I, salita al trono nel 1558, fu quello di ingaggiare un superesperto dell’epoca, il napoletano Prospero d’Osma, perché le sistemasse le scuderie reali. Disponiamo ancora oggi del suo rapporto: il testo saltò fuori a un’asta del 1927 e contiene prescrizioni di straordinaria modernità. Le prime corse regolari datano 1671, su impulso del conte di Craven e si diffusero presto in tutto il regno. Le regole, prima valide per la sola Newmarket, poi esportate dovunque, furono (e sono) dettate dal Jockey Club, sorto nel 1750: si trattava del salotto buono di tutta l’aristocrazia britannica.
Gli stalloni fondatori di questa razza, che furono incrociati con una ventina di Royal Mares, cioè di fattrici di proprietà del re, sono gli immortali Byerley Turk, un baio oscuro del 1680, Darley Arabian, un baio del 1700, Godolphin Arabian, baio oscuro del 1724 (il terzetto di cavalli araboberberi), ed Eclipse, un sauro del 1764. Come siamo sicuri che siano i trisavoli dei campioni odierni? Semplice: le genealogie sono tutte riportate su un libro, lo stud-book, istituito appositamente fra la metà e la fine del Settecento. Ma conosciamoli da vicino questi superpadri. Il più antico è Byerley Turk: il nome deriva dal fatto che fu catturato dal capitano Byerley sotto le mura di Vienna, assediata dai turchi. Di lui si sa poco, salvo che era un corridore eccezionale e come stallone generò oltre 600 vincitori. Nei suoi ritratti si coglie un modello perfetto e s’intuiscono temperamento e forza.
Darley Arabian, invece, era originario di Aleppo, in Siria, e fu scoperto dal locale console inglese, sir Thomas Darley, che se lo assicurò barattandolo con un fucile: nell’occasione il vecchio proprietario infranse il Corano che vieta espressamente di vendere agli infedeli cavalli di razza pura. Arrivato in Inghilterra, lo stallone rapì gli sguardi dei competenti per una bellezza mai colta prima in nessun equino. Curioso il fatto che questo fenomeno non poté di fatto correre mai perché nel giorno prestabilito per l’esordio le corse furono abolite causa... rivoluzione (sommosse dei giacobiti rimasti fedeli agli Stuart) e poco dopo gli ippodromi chiusi. Così Darley passò direttamente in razza, dove fece molta, molta strada attraverso figli, nipoti e bisnipoti. Il terzo stallone arabo-berbero è Godolphin Arabian (a lui è intitolata la più ricca scuderia inglese dei tempi nostri, appartenente alla famiglia Maktoum), campione di peripezie. Il “bey” di Tunisi l’aveva offerto, insieme ad altri puledri, al re di Francia Luigi XV. Ma il cavallo si rivelò intrattabile per i canoni equestri allora in voga a Versailles e quindi fu declassato, maltrattato, destinato a compiti umili. Col risultato che divenne ancor più ribelle. Finì addirittura a tirare il carretto di un acquaiolo: e proprio mentre assolveva a questa misera funzione fu visto sul Pont Neuf da un inglese di occhio fino. Si chiamava Coke e portò il cavallo in patria, rivendendolo a tale Roger Williams, un oste di Saint James. Ma anche il nuovo domicilio non piacque al cavallo, sempre più ombroso, e il proprietario se ne disfò vendendolo a sua volta a Lord Godolphin, nome e destinazione finale dell’animale.
Godolphin fu inviato in allevamento, a Gag Magog, nel Cambridgeshire. Ma il suo ruolo era quello dell’“esploratore”, cioè del cavallo che doveva accertarsi se la fattrice era ricettiva, dopo di che la giumenta era presentata allo stallone “vero”, cioè Hobgoblin. Secondo alcune fonti, alla fine Godolphin ne ebbe abbastanza di quel trattamento “disumano” e affrontò in duello Hobgoblin, uccidendolo a zoccolate per godersi in proprio la fattrice del momento, Roxana. L’episodio è immortalato in varie tele, per esempio dalla pittrice Rosa Bonheur. Da quell’unione nacque Lath, che si rivelò corridore super e aprì la strada all’eccezionale successo di razzatore del padre.
Un discendente fenomenale di Godolphin (ma pure di Darley) fu Eclipse, ricordato come un autentico mostro delle piste. Anche lui però da puledro era irascibile, indomabile. Il suo coproprietario, Wildman, giocò un’ultima carta, chiamando un irlandese di nome Sullivan che aveva esattamente la fama di “uomo che sussurra ai cavalli”. Sullivan andò nel box con l’animale, gli «pose la bocca su una narice – come ricostruisce il giornalista e storico di ippica Luigi Gianoli, grande firma della Gazzetta – e cominciò a insufflarvi il proprio fiato, smettendo l’operazione a tratti e mormorando parole misteriose. Passarono pochi minuti, e quando Sullivan uscì Eclipse era ormai un cavallo docile, mansueto». Poté allora cominciare una carriera eccezionale. L’esordio fu segnato da un episodio curioso: il proprietario, per non rivelarne il valore, cercò di tener nascosti i suoi allenamenti al pubblico con manovre diversive; ma una vecchietta curiosa riuscì a sbirciarne da una siepe un lavoro e si fece il segno della croce: «Io non saprei dire che cosa fosse, un animale, un demonio, ma poco fa ho visto un cavallo con una zampa bianca correre come un fulmine...». Quel racconto finì alle orecchie di qualche gentleman e la quota di Eclipse crollò all’ippodromo. A ragione: in due anni questo campionissimo sbaragliò ogni concorrenza. Il suo proprietario arrivò a scommettere su una vittoria per 200 metri di distacco, e andò all’incasso. I nostri colleghi dell’epoca ebbero di che sbizzarrirsi. Sui giornali di allora si lesse: «Eclipse parte subito e vola. Folate di otto metri, in quattro balzi sono trentasei, l’immensità della sua folata è sbalorditiva. Pare che a starci sopra si arrivi al traguardo mezzo soffocati dall’aria». Ma la frase più bella la coniò il suo coproprietario O’Kelly: «Eclipse primo e gli altri in nessun luogo». Una supremazia tanto schiacciante da far sorgere invidie: alle scuderie arrivarono lettere minatorie. Eclipse dovette essere sorvegliato notte e giorno. L’ultima sua corsa fu una passerella: nessuno aveva osato scendere in pista a misurarsi e lui fece il percorso al passo godendosi l’ammirazione generale.
Ecco: entrando in un ippodromo e posando gli occhi su un qualunque galoppatore, ora conosciamo le sue radici e il patrimonio che abbiamo ereditato anche in questo campo dagli inglesi. Come scrisse T.S. Eliot: «Col dimenticare la tradizione, perdiamo il nostro potere sul presente».