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 2016  giugno 18 Sabato calendario

DI FRAGOLE, PANNA E ALTRE RELIGIONI


L’impero sportivo britannico delle tradizioni, quello ingolosito dal fragole&panna di Wimbledon, colorato dai copricapi di Ascot e fregiato dai mille trofei del rugby (anche da quelli “inesistenti” come il Cucchiaio di legno), è stato violato.
Per mano di Fantozzi.
Capitò quando Paolo Villaggio, invitato al torneo di Wimbledon nel 1979 dall’amico Adriano Panatta, si spacciò per suo coach e venne travolto dal desiderio di vedere di persona Elisabetta II. “Villaggio approfitta del momento e si produce in uno scatto demenziale verso il Royal Box”, si legge in Lei non sa chi eravamo noi, la biografia del tennista, “... e a onor del vero, prima di essere placcato da altre due guardie della stazza dei migliori corazzieri, riesce a fare ciao con la manina alla regina”. Il Ragioniere del cinema fu poi cacciato con disonore, ma questo è secondario; in fondo, da italiani dissacratori e diversamente affezionati alle regole, ci piace pensare che l’ultrasecolare apparato di rules, i riti e le consuetudini dello sport d’oltremanica, sia in fondo più “umano” e frangibile di quello che appare.
Il Centre Court di Wimbledon è il Fort Knox dello sport. Persino i grandi giocatori fanno fatica a ottenere il fatidico pass, nei giorni del torneo. «Lì ti trattano male, la tradizione è solo una scusa», disse Andrei Medvedev, rimbalzato di fronte alla richiesta di un biglietto gratis in più. «Quando chiesi quelli per il coach e per il massaggiatore, mi risposero: “No, puoi averne solo uno”. Poi mi hanno riconosciuto: “Ah, sì, sei stato in finale a Parigi, dovresti averne due, ma non puoi. Sorry”». Ma questa rigidità è una questione di rango? Non solo. Nei 340 giorni senza Championships, il campo centrale resta chiuso, lì ci entra solo il giardiniere. E solo il campione in carica può infrangere la verginità annuale di quel campo lì: ecco perché la partita inaugurale spetta a lui. Tutti gli altri vanno – letteralmente – in bianco, altro capitolo del protocollo londinese: il dress code degli atleti dev’essere immacolato, il camouflage o i toni fluo qui sono un reato. Persino ottenere la tenuta da raccattapalle o la cravatta viola e verde dell’All England Lawn Tennis & Croquet Club sono imprese modello Leicester di Ranieri: per vestire la prima, i Ball Boys & Girls devono superare una lunga selezione e poi un corso di formazione sul campo; per annodarsi al collo la seconda, l’aspirante socio deve sottoporsi a una lunga corvée di lavoro gratuito al servizio del club. Solo dopo anni, se verrà ritenuto degno, potrà essere ammesso e ricevere la divisa e la cravatta. Ma così non è un po’ troppo? «Lo sport svolge nella società moderna il ruolo che, nell’antichità, spettava al teatro, cioè di rappresentazione di un’identità collettiva», spiega Enrico Martines, professore di Storia della cultura inglese all’Università di Parma. «In più bisogna considerare che, di per sé, lo sport è più conservatore che innovatore e che, soprattutto, si sta parlando di una società come quella britannica rigidamente strutturata e che ha fatto dell’ordine sociale e culturale la ricetta della propria forza».

INCHINI E SALSICCE
Al protocollo di Wimbledon bisogna aggiungere, per i giocatori, il doveroso inchino di fronte ai membri della Famiglia Reale, con tanto di addetto specializzato nell’insegnamento della riverenza per le tenniste meno “monarchiche”; per i gentlemen una partita a bridge nell’intervallo tra un match e l’altro; per il popolino, il viaggio della speranza al botteghino che ogni giorno mette in vendita una quota di biglietti, tenuti appositamente da parte. La fila in vista dell’apertura mattutina inizia la sera prima, non è raro perciò vedere i “fedeli” alle prese con barbecue che ne allietino l’attesa.
Il momento enogastronomico, con cisterne di birra e spumante (ultimamente anche il nostro Prosecco) che evaporano prima, durante e dopo tutti gli eventi sportivi britannici, non manca mai. Lasciando le fragole e le grigliate di Wimbledon, si passa alle merende country organizzate a Twickenham, la casa del rugby. Nel giorno in cui la nazionale gioca nel Tempio, nel parcheggio sul prato all’ombra della tribuna Est, dai portabagagli di Bentley e Rolls Royce sbucano gustosi banchetti a base di prosciutto arrosto, sandwich e dolcetti assortiti. Sul campo, per l’annuale Sei Nazioni le tradizioni si chiamano Triple Crown (trofeo riservato a chi sconfigge in un’edizione tutte le altre tre britanniche), Calcutta Cup (in palio a ogni Inghilterra-Scozia) e Wooden Spoon, il famigerato Cucchiaio di legno, cioè il trofeo che non c’è, perché fisicamente non esiste e solo la leggenda lo vuole custodito in un castello delle isole Orcadi. La palla ovale, in Gran Bretagna, vive poi anche di secondi inni: quando gioca l’Irlanda – unita, qui non c’è Eire né Ulster – subito dopo l’ufficiale Soldier’s Song cantano tutti a squarciagola l’“ovale” Ireland’s Call. Vive anche di sfide per noi italiani sempre difficili da immaginare come Marina-Esercito, Cambridge-Oxford o il Varsity Match (celeberrimo nel canottaggio). Anche la disfida tra le due più conosciute università porta con sé un cerimoniale tutt’altro che sbrigativo. Prendete il capitano di Cambridge, per esempio. Dal 1872, ogni ultima domenica mattina di novembre, tocca a lui l’onere di andare a bussare porta per porta, college per college, per annunciare la convocazione o l’esclusione a ciascun componente della rosa dall’imminente sfida con l’odiata dark side, cioè Oxford. «Il rugby e il cricket rappresentarono nell’800 l’emanazione sportiva della classe dominante», continua Martines, autore, tra gli altri, del libro Sporting Britannia. «Attraverso queste discipline la società vittoriana esportava in tutte le terre dell’Impero l’ideologia della muscular christianity che valorizzava il coraggio, la buona salute, ma anche la moderazione e l’autocontrollo. Diverso fu il tipo di percorso seguito dal calcio, esportato seguendo i canali commerciali e mercantili in giro per il mondo, per esempio in Sudamerica».

CALCIO ALL’INGLESE
La Premier League 2.0, benché in mano a ricchissime proprietà straniere (vedi gli emiri del Manchester City), è pur sempre il campionato del You’ll Never Walk Alone, il coro ultrà più famoso del mondo e, solo per restare all’attualità, dei quasi 30 mila tifosi del Crystal Palace – un sobborgo di Londra – presenti a Wembley per l’ultima finale di F.A. Cup. «Proprio questo evento rappresenta la massima celebrazione calcistica britannica, con la banda militare che suona nell’intervallo o il community singing, che in passato prevedeva addirittura una sorta di direttore del coro, tutto vestito di bianco, che dal piedistallo guidava i canti degli 80 mila presenti». L’abbigliamento stesso, nel senso della maglietta della propria squadra di calcio, ha una connotazione di sacralità: mentre in Italia, stadio a parte, la indosseremmo al calcetto con gli amici o sul divano per vederci la Champions, a Londra e dintorni poco ci manca che ci vadano anche all’altare. E allo stadio il tifoso vuole sposarsi prima e magari far spargere le proprie ceneri poi: mai sentiti casi simili da noi...
Le altre due divinità laiche locali sono i cavalli e il cricket, con il secondo, a detta di Martines, titolare di un primato specifico: «Intanto è inglese, non britannico, quindi si parla di englishness e non di britishness. Soprattutto, è lo sport più interclassista in assoluto, sin dalla nascita. Nelle campagne, già dal XVIII secolo, diventò la prima attività ludica in cui i proprietari terrieri giocavano insieme ai loro braccianti. Questo perché, pur essendo uno sport di squadra, prevedeva una gerarchia dei ruoli (ci sono quelli “nobili” e quelli di “servizio”) e poi non prevede il contatto, quindi anche persone di estrazioni diverse potevano praticarlo nel rispetto dei rispettivi status. Gli spogliatoi restavano due: uno per i ricchi e uno per gli altri».
Bisogna invece risalire fino al 1780 per scovare il primo Derby nella storia dell’ippica. Intanto, contrariamente al termine usato negli sport di squadra, che deriva dal nome della cittadina di Derby (anticamente divisa tra due fazioni), quello del mondo dei cavalli è da ascriversi – giusto per non perdere il senso delle tradizioni – al lancio di una moneta, avvenuto tra il dodicesimo conte di Derby e sir Charles Bunbury. Amavano i cavalli, erano ricchi ed entrambi desideravano arrogarsi la paternità di una nuova corsa di grande prestigio. Il “testa o croce” favorì il primo, e proprio al 1780 risale il primo Derby, disputato all’ippodromo di Epsom. Poi c’è Ascot, sorry Royal Ascot: l’etichetta è d’obbligo, perché la famiglia reale tratta i quattro giorni di giugno ai margini del parco di Windsor come la propria finale di coppa. Attorno alla pista, lunga un miglio e poco più, in erba Berkshire rasata rigorosamente a 10 centimetri, prende corpo il più poderoso protocollo di riti – al pari di Wimbledon – dello sport. L’eccentricità dei copricapi indossati dalle signore è solo uno di questi. Ci sono poi i tight dei signori, i bicchieri di Pimm’s e l’ingresso alle 14 della Regina in carrozza. Che al suo arrivo, pare, non è ancora mai stata disturbata dallo “scatto demenziale” di un improvvido Ragioniere italiano...