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 2016  giugno 18 Sabato calendario

COME SI FABBRICA UNA BARBIE


Apriti, Sesamo. Ma invece di ritrovarsi a passeggiare solo per Sesame Street, tra i pupazzi di Elmo e Cookie Monster, quando si varca la soglia della Mattel di El Segundo si è catapultati in una sorta di virtual reality a metà tra Disneyland e La fabbrica di cioccolato di Willy Wonka. C’è quell’innegabile mood di spensierata felicità dei parchi a tema: ovunque, giocattoli, poster di film e schizzi alle pareti, una colonna sonora che invita entrare in questo mondo dai vivaci colori al neon dimenticando la “grigia realtà” e videoproiezioni (tra cui una fantastica clip in bianco e nero anni Cinquanta) che raccontano la storia del marchio Mattel. Che oggi significa non solo Barbie, ma anche Hot Wheels, Fisher- Price, American Girl e Matchbox, inglobati nel brand in anni recenti.
Invece dei nani Oompah Loompah della Fabbrica di cioccolato, alla “catena di montaggio” ci sono squadre di designer, ingegneri, chimici, inventori, stilisti e parrucchieri, riuniti in vari dipartimenti e al lavoro sugli schizzi per prototipi che verranno poi realizzati dalle mega stampanti 3D. Più che una fabbrica, infatti, la Mattel di El Segundo è un progettificio, una fucina di creativi. La produzione in serie è invece realizzata in Cina, in un gran numero di fabbriche a cui la Mattel affida il compito di inondare il mercato con milioni di giocattoli: dalle Barbie alle automobiline da corsa, a supereroi e damigelle, agli Elmo parlanti e danzanti, a Dora l’Esploratrice.
Paradossale ma vero. La bambola che più di ogni altro giocattolo impersona l’American dream, archetipo della California Girl immortalata da decine di canzoni pop e rock e ispirata dalla figlia adolescente di Ruth Handler (la “mamma” californiana che concepì la prima Barbie), è “made in China”. Ma il design che riflette la sua evoluzione culturale, i nuovi tipi, modelli, abiti e migliaia di accessori del Barbie lifestyle, nascono qui: in un building di El Segundo dal luogo in cui la Mattel venne fondata, nel 1945, da Harold “Matt” Matson e Elliot Handler (il marchio derivato dalla somma dei loro due nomi, Ruth, moglie di Elliot, salì a bordo in seguito, quando Matson dovette ritirarsi per motivi di salute).
Da allora, l’azienda ha attraversato numerose crisi e scandali. Per esempio quello del piombo eccessivo trovato nelle vernici, che nel 2007 la costrinsero a ritirare 18 milioni di giocattoli prodotti nelle fabbriche cinesi, oggi monitorate da vicino sia per la qualità dei materiali impiegati che per le condizioni di lavoro. Ha acquisito aziende secondarie, ottenuto licenze da Nintendo e Disney per produrre linee di videogiochi e “principesse”. È presente in quaranta nazioni, vende i suoi prodotti in più di 150, è quotata in borsa dal 1963, e nel 2013 è stata nominata come una delle 100 aziende top per cui lavorare dalla rivista Fortune. Un titolo ben meritato, a giudicare dalla soddisfazione degli impiegati, molti dei quali lavorano qui da più di vent’anni.

Ingegneri, stampanti e stilisti
Nello stabilimento, il reparto dedicato a Barbie è quello più affascinante (insieme all’Hot Wheels Garage, per gli appassionati d’automobili). Ci si aggira tra contenitori di plastica zeppi di singoli avambracci, un po’ macabri come le teste glabre delle bambole “impalate” su bastoncini di plastica con piedistallo, in attesa della capigliatura che verrà attaccata con una macchina da cucire speciale. E ancora, tra abiti per ogni occasione e accessori rifiniti anche nei minutissimi dettagli (dalle collane di perle ai tacchi a spillo, al barboncino da passeggio), facciate di “dream house” dipinte in rosa e lilla (proprio come quella vera che Ruth Handler si fece costruire a Santa Monica, in omaggio alla propria creazione), mobili in miniatura, modellini di Cadillac anni Cinquanta e motociclette con sidecar, piscine e sedie a sdraio… tutto in formato Barbie.
Ogni variazione parte dalla scannerizzazione in dettaglio di un modello precedente (per esempio, una testa), che viene analizzato al computer per introdurre i diversi possibili cambiamenti: in questo caso forma degli occhi, colore delle labbra, struttura facciale, tono della pelle. Il risultato, una volta approvato dal team dei designer, viene reso in una animazione in tre dimensioni e inviato alla stampante, che lavora con diverse spolette di fili colorati di plastica e silicone. A questo punto gli ingegneri verificano il funzionamento e la flessibilità della nuova parte inserita nella bambola. Se c’è il loro ok, la testa in questione, o il braccio, o la gamba, vengono mandati al make up e dal parrucchiere. «È un lavoro d’infinita attenzione ai dettagli», spiega Mary Jordan, da 23 anni stilista personale della Barbie, che prepara per le sue varie personificazioni armata di gel per capelli, toupèe, spille da balia e glitter.
Cinquantasette compleanni non hanno tolto alla bambola più venduta nel mondo (una ogni tre secondi, per l’esattezza) un’ombra del suo fascino. Ma per non rischiare di diventare come una di quelle signore agée che continuano a seguire il modello di bellezza in voga quando erano giovani, ha avuto bisogno di un serio make-over: il “Project Dawn”(come dire l’alba di una nuova era), che dopo due anni di lavoro dallo scorso gennaio ha dato alla bionda da capogiro, tettona e tutta gambe, con un giro vita impossibile, anche altre proporzioni e corporature, che non ispirino ansia, anoressia o senso d’inadeguatezza nelle ragazzine.

Tre volte fascino
La declinazione in versione “tall,” “petite” e “curvy” (come i jeans Levis’) è un cambiamento che segue a ruota l’introduzione di sette diversi toni di pelle e colori di occhi, decisa nel 2015 e accolta dal pubblico con entusiasmo, risollevando i dati di vendita allora in pauroso calo. «Mattel ha finalmente capito che per riguadagnare i favori del pubblico doveva rinnovare la sua non-più-inossidabile Barbie doll», commenta Jim Silver, giornalista di TTPM, un website che recensisce i prodotti dell’industria dei giocattoli e videogame. Al nuovo volto dell’iconica bionda di plastica, la rivista Time ha dedicato la copertina di uno dei primi numeri del 2016, e un reportage dietro le quinte della Mattel intitolato “E ora possiamo smetterla di parlare del mio corpo?”.
«Penso che oggi Barbie rappresenti un role-model diversificato e adatto al 21esimo secolo», spiega Richard Dickson, presidente e direttore operativo di Mattel e paladino della sua reinvenzione. «Consentire una varietà di corporature è stata la naturale progressione nell’evoluzione di un marchio che da sempre cerca di riflettere la cultura in cambiamento », aggiunge Robert Best, uno dei leader del design team che per due anni ha passato ogni giorno a dipingere a mano diversi colori di iridi e sfumature di rossetto, fino ad arrivare ai prototipi finali delle nuove Barbie.
Il successo di Barbie è universalmente attribuito al fascino di una bambola per la prima volta adulta, che potesse rappresentare ciò che le bambine desideravano diventare: una giovane donna emancipata con un lavoro, un fidanzato, una o più case, un’auto che guidava da sola e, naturalmente, un vasto guardaroba per ogni occasione. Ma se nei primi anni 60 questa era una rivoluzione rispetto alle bambole-figlie da coccolare e nutrire col biberon per fare pratica da “mammine”, negli anni seguenti Barbie è stata oggetto di pesanti critiche e ostracismo da parte delle femministe e dei genitori più “illuminati”. E in effetti, nonostante l’introduzione di una Barbie afro-americana già alla fine degli anni 60 e di una asiatica negli 80, ancora nel 1991 Barbie pronunciava attraverso l’altoparlante nascosto nel suo piattissimo addome nella versione “parlante” frasi come «Math class is tough» e «Party dresses are fun» (la matematica è difficile, i vestiti da party sono divertenti): non esattamente perle di saggezza einsteiniane.
Negli ultimi anni, Mattel ha promosso una virata immettendo sul mercato bambole da amare più per le loro ambizioni di carriera che per i centimetri di girovita. Un nuovo spot pubblicitario intitolato “Imagine the Possibilities” mostra ragazzine che brandiscono le loro Barbie vestite e accessoriate come insegnanti, allenatrici sportive, hairstylist, dottoresse e così via. E Hello Barbie, la versione interattiva, chiede ai bambini (e finalmente si è visto anche un maschio nella sua pubblicità!) che cosa vogliano fare da grandi. Un passo avanti nel superamento degli stereotipi. Che naturalmente non hanno mai messo in discussione la sua importanza di icona, celebrata da Andy Warhol con un famoso ritratto nel 1986 e da molti altri artisti. Barbie. The icon, come il titolo della mostra che si è appena conclusa dopo cinque mesi al Mudec di Milano per poi spostarsi a Palazzo Albergati di Bologna (fino al 2 ottobre) e al complesso del Vittoriano a Roma (fino al 30 ottobre). Mentre un’altra esposizione ispirata al suo mito ha inaugurato nella settimana delle sfilate a Parigi ai Musées des Arts decoratifs ed è visitabile fino al 18 settembre.