Claudia Ranieri, GQ 7-8/2016, 22 giugno 2016
SIAMO TUTTI RANIERI
Storia di sport, storia di uomini e di Paesi che si incontrano, di abbracci che parlano le lingue del mondo. Storia di tutti e, per me, anche storia familiare. Qualcuno la chiama favola – la favola del Leicester – e io così la voglio ricordare.
Scrivo e intanto assisto a un allenamento. «Ehi, questi sono campioni d’Inghilterra», dice
Ale, mio marito, mentre gioca con Orlando, il nostro bambino, e in mezzo al campo c’è anche mio padre. Per tanti, è solo il professionista che si vede in tv, tutte le domeniche, seduto in panchina. Per me è semplicemente mio padre, di cui sono molto orgogliosa, certo non da oggi e perché ha vinto il titolo. Il nostro viaggio è iniziato tanto tempo fa, e come ogni favola comincia con qualcosa di simile a “C’era una volta”.
C’è una vita dietro, infatti, colma di esperienze, di tanta gavetta e di sacrificio. C’è un prima, fatto di poco, e un dopo, ora sotto gli occhi di tutti. Il rispetto e l’orgoglio vengono da lontano: dalla famiglia, la nostra costante, e dagli amici, pochi ma veri, che non sono cambiati con le bandiere, né sono saliti o scesi dal carro a seconda dei risultati. Ho visto tanta cattiveria intorno, ho letto parole splendide ma anche alcune terribili, per le quali non nascondo qualche lacrima di dolore. Ma certe vittorie non capitano per caso: servono a riparare torti e ingiustizie, a ripagare la pazienza e, soprattutto, un grande senso del lavoro.
Rispetto ad altri, ho avuto sicuramente un’infanzia privilegiata, anche se i miei ricordi non sono legati alle età diverse ma alle città: la carriera di mio padre ha ritmato i miei anni. E non c’è solo Leicester, come non ci sono state solo Roma, Londra e Firenze, ma anche Catania, Palermo, Pozzuoli, Milano, Torino, Lamezia Terme, Madrid, Valencia. Tanto tempo fa, c’è stata anche Cagliari, che mio padre accosta spesso a Leicester, per l’umanità, lo spirito e l’animo sportivo condiviso.
C’è una vita dietro, appunto. Si arriva a essere campioni d’Inghilterra anche perché si è fatta una scelta etica basata sul lavoro. Questo è mio padre: scalino dopo scalino, passo dopo passo. Sfida dopo sfida, schiaffi in faccia e carezze. Striscioni contro ma anche un pannello pixelato – in stile Space Invaders –, ai tempi di Cagliari, con la sagoma di una Ferrari e la scritta “Ranieri guida la Ferrari” per osannare le stagioni sprint di un giovanissimo allenatore che in due anni ha portato dalla C1 alla serie A una squadra che, appunto, paragonava a una Ferrari da guidare.
C’è un viaggio con la Coppa Italia sul sedile dell’auto, così vicina da poter essere accarezzata. C’è la trasferta per una Coppa del Re vinta da un padre che ha deciso di sfidare se stesso e in meno di dieci anni ha imparato a parlare lo spagnolo, l’inglese e il francese. C’è la rincorsa al titolo con la Roma, con lo slogan «Non succede, ma se succede...»: rispetto a Leicester, quella storia fu diversa,
ma ugualmente intensa ed emozionante.
È una storia lunga e spero che, un giorno, mio padre si decida a farne un libro. Non tanto per me, quanto per Orlando, il mio piccolo, il suo nipotino. Oggi ha solo un anno e mezzo, e non so cosa potrà ricordare. Spero almeno di avergli restituito con un sorriso la gioia di un istante di felicità. Un sorriso, però, vola via in fretta. Basta un attimo ed è già tutto archiviato. Ecco perché devo impegnarmi a fissare nella memoria le emozioni di questi giorni, anche se, in tutta onestà, non credo che questa notizia sarà dimenticata in fretta: stavolta nessuno riuscirà a rendere ordinaria la nostra favola. La favola di mio padre, ma anche di chi aveva bisogno di vedere con i propri occhi che i sogni si possono realizzare.
Il sogno di una squadra si è trasformato in quello di una città intera e ha superato i confini. Del Leicester si parla a Londra, a Milano, in Cina, in America: è diventata una storia worldwide. «Don’t wake us up, we want to continue to dream». Non svegliateci, vogliamo continuare a sognare. Ad assaporare la vittoria, un passo dopo l’altro, una partita dopo l’altra, attaccati alla tv. A bere camomilla, aspettando la partita successiva. A meravigliarsi, all’inizio, per quei primi punti, e a sconvolgersi poi per essere ancora così in alto in classifica. Fino a non riuscire più ad aspettare, divisi tra la voglia di conoscere il finale e quella di vedere ancora un’altra partita, come quando si arriva al finale di un bel libro e non si vuole che quel piacere finisca.
Ecco, tutto questo racconterò a Orlando. È ancora piccolo e non riuscirà a ricordare la casa di Leicester, circondata da amici e parenti, tra una frolla napoletana e una matriciana cucinata alla perfezione, in attesa della festa del sabato pomeriggio. Ho scattato una serie di foto con il mio iPhone, le stamperò e non lascerò che vengano dimenticate. Intanto, però, voglio fissare nella memoria quella giornata.
La città, una tra le più multietniche d’Inghilterra, è in festa. Striscioni, bandiere, parrucche bianco-blu, sciarpe inneggianti Mahrez, Vardy, Morgan: i campioni, le volpi. Naturalmente non posso fare a meno di notare le maschere di cartone giganti che hanno le sembianze di mio padre e le maglie con su scritto Dilidin dilidong, un modo di dire che ha usato in una delle ultime conferenze stampa. Io ci sono cresciuta, a furia di Dilidin dilidong: me lo ripeteva spesso quando ero più giovane, per darmi... metaforicamente la sveglia, e mi fa molto ridere vederlo addosso a tanta gente.
Si entra nello stadio, prendiamo posto. Dopo che anche un Bocelli emozionato canta il Nessun Dorma e sul verso “All’alba vincerò” è difficile trattenere le lacrime, inizia Leicester-Everton. È l’ultima partita in casa, una partita vera ma del tutto surreale sotto il profilo delle emozioni. Finisce 3-1 e io mi perdo anche un gol: amen, era quello segnato dall’Everton, ma ormai non conta più. Abbiamo vinto il titolo e siamo tutti pronti a scendere in campo.
Sono le 19.10. I familiari sono invitati ad avvicinarsi al tunnel che porta al campo. Qualche minuto più tardi si apre il passaggio. E da lì le immagini più belle sono i mille volti della festa che si incrociano. Una felicità privata, personale, ma condivisa, ecco cosa c’è su quel campo. La favola e le sue illustrazioni.
Ora so cosa resterà e cosa dovrò ricordare per Orlando. Resterà lo sguardo di mio marito mentre ci guardiamo intorno e come spugne assorbiamo la gioia. Resteranno le immagini di mia madre mentre esplode di felicità con la sua eleganza discreta e la sua forza, imprescindibile per mio padre: lei ferma, al centro del campo e poi fuori, ovunque ma lontano da telecamere e macchine fotografiche, mentre noi siamo invece lì a cercare un sorriso in più, una foto da condividere, da postare, da poter ricordare. Resteranno i sorrisi degli amici e dei parenti, in campo con le maglie personalizzate.
Resterà l’immagine di mio padre che alza la coppa al cielo (ah!, questo è sicuro che resterà). Resteranno i suoi sguardi mentre riceve i saluti del pubblico, le canzoni urlate, il calore di mille sconosciuti uniti in un coro. Resterà il suo occhio attento, nonostante il caos, mentre cerca il nipote, la famiglia, per festeggiare, ma soprattutto per condividere, per guardare insieme, come se non bastassero i suoi occhi per sentire la felicità.
Resteranno quelle migliaia di volti sconosciuti dello stadio, che lo circondano, ci guardano e per una sera sono un unico forte abbraccio. Tra di loro anche centinaia di italiani venuti apposta fin qui, da tremila chilometri di distanza, per festeggiare o semplicemente per sentire addosso quella felicità per un giorno a portata di tutti: Leicester sempre più multietnica. E resteranno i fuochi d’artificio, solo intravisti dietro al vetro, perché alle 11 di sera, dopo aver saltato la cena, in mezzo a un party con la musica a tutto volume, Orlando è crollato dal sonno.
Cosa resterà, io lo so. Resterà la felicità di mio padre nel fare una foto con noi, tenendo in pugno la coppa. Resteranno i suoi sguardi e il tranquillo sorriso di mia madre, l’orgoglio e la stima per loro. Resterà la favola del “credici e impegnati, ’ché tutto può succedere”. Resterà una terra straniera che urla con affetto il tuo cognome: “RANIERI, oh, oh. Nel blu dipinto di blu”. Resterà la standing ovation di una sala mentre mio padre riceve il suo premio. E intanto che questi ricordi si fissano nella memoria, spero che il mio atroce mal di schiena passi prima possibile: tenere Orlando per tre ore in braccio, a fare il giro di campo, ha reso unico anche questo.