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 2016  giugno 22 Mercoledì calendario

DIVERSI MA PARALLELI. CHI SONO CAMERON E FARAGE, CHE STANNO DIVIDENDO L’ANIMA DEGLI INGLESI

Owne (Kent) Ieri sera alle cinque Tom Joyce, Hugh Burton e Mike Williams erano seduti davanti a una pinta di Harveys in un pub di questo villaggio del Kent, sapendo che il quarto bevitore abituale non sarebbe arrivato. Il loro amico è altrove. Nigel Farage sta macinando le ultime ore di campagna per la Brexit, l’uscita della Gran Bretagna dall’Unione Europea, e contro il premier David Cameron che invece vuole restare. Perché in fondo i ventisei chilometri da qui a Westminster sono tutto ciò che separa le origini dei due leader che domani notte potrebbero costare carissimi all’Europa.
Sembra poco, eppure in Inghilterra può essere un’immensità. Cameron, cinquant’anni da compiere in ottobre, e Farage, 52 in primavera, hanno due anni di differenza ma l’aria di appartenere a generazioni lontanissime. Il leader nazionalista, campione della campagna per la secessione, sembra infinitamente più antico di un premier che la scorsa settimana aveva finito per tradire persino dei segni di panico con la sua campagna referendaria per il «Remain».
Bisogna guardare dentro le vite di quei due per capire che la data di nascita non c’entra granché. Fra Cameron e Farage non conta lo scarto di età, ma una differenza di casta che traspare dal viso, dagli occhi, dal modo di muoversi e di parlare. Anche questo fa sì che ciò che era nato come un diversivo tattico di Cameron – un referendum sulla Ue per tenere unito il partito conservatore dietro di sé – abbia finito per trasformarsi in una minaccia esistenziale per l’Europa. È diventato un genio sgusciato fuori dalla lampada, che il premier non è in grado di governare e Farage sa agitare alla perfezione quasi che per l’Inghilterra non ci fosse un domani.
Il primo ministro di Londra non era stato programmato per infilarsi in azzardi del genere nella sua carriera. Moltissimo suggerisce che Cameron sia stato tirato su come in una campana di vetro a protezione da ogni incognita e da qualunque salto nel buio. Discendente di re Guglielmo IV, figlio di un ricco broker azionario della City e di una giudice di pace – nessuno dei due laureati, entrambi però pieni di parlamentari negli alberi genealogici – Cameron è venuto al mondo nel quartiere di Westminster: ventisei chilometri a ovest dal villaggio di Downe dove Farage era nato due anni prima.
Ma Cameron ha visto la luce a un indirizzo che di per sé è già un programma della vita che gli è stata preparata: Marylebone Road, l’arteria di eleganza vittoriana e fuori moda fra Buckingham Palace, Mayfair e Belgravia dove tutto è pervaso da un inconfondibile odore di denaro antico. I genitori, occupati, lo mandano presto a vivere nella dimora avita a Peasemore, un villaggio di poche decine di anime nel Berkshire, Inghilterra del Sud giusto a ovest di Londra. Lì il ragazzo cresce senza mostrare alcun interesse per la politica, molto invece per sport poco comprensibili ai suoi coetanei del continente come il cricket o la caccia. Soprattutto cresce fra istitutori della parrocchia anglicana locale («quando penso alla chiesa, penso a casa» dirà).
Con i genitori, il padre thatcheriano euroscettico, la madre conservatrice nazionalista, Cameron va in vacanza d’estate ma non a Parigi o anche solo in una delle ex colonie britanniche. No, va in Cornovaglia a coltivare ancora di più la sua cultura così inconfondibilmente aristocratica e inglese. A tredici anni è già a Eton, in vista di un’istruzione scolastica che dev’essere costata in famiglia l’equivalente di almeno mezzo milione di euro attuali, prima ancora di entrare all’università. A diciotto anni è a Oxford e quando ne esce il virus della politica e l’ambizione di entrare a Westminster ormai lo hanno colto. Il giorno prima che si presenti a un’intervista di lavoro al Conservative Central Office, la sede del partito era già stata raggiunta da una chiamata da Buckingham Palace con il suggerimento di prestare bene attenzione a quel ragazzo. Lo ha scritto il Daily Mail nel 2007, mai smentito, aggiungendo un dettaglio: Cameron stesso non sapeva di essere stato raccomandato da palazzo reale, tutto avveniva per lui nella massima protezione e serenità.
Nel frattempo per Farage la vita andava, catastroficamente, in maniera opposta. Quando aveva cinque anni il padre alcolista, Guy Oscar Justus Farage, anch’egli broker della City, aveva abbandonato lui e sua madre. Il giovane Farage studia in scuole private, non delle migliori, ma rinuncia a entrare all’università per diventare trader di materie prime nella City. Dirà: «La City in quegli anni era un grande posto, incredibile. La cultura del bere era enorme. Era un mondo competitivo, brutale, duro ma molto eccitante. Gestivo milioni di sterline e bevevo più o meno di continuo. Se mi fossi concentrato sul business sarei stato molto ricco».
Lui si concentrava però di più sull’alcol. A ventun anni esce ubriaco fradicio da un bar di notte e viene travolto da un’auto, in quello che sarebbe diventato il primo di vari episodi nei quali arriva a un soffio dalla morte. Rischia di perdere una gamba ma si ristabilisce fino a quando, mesi dopo, gli viene diagnosticato un tumore a un testicolo. I medici temono che sia già in metastasi e disperano di salvarlo, ma il suo recupero sarà completo.
Il terzo episodio nel quale sfiora la morte è del 2010. Farage è già leader da quattro anni dello Ukip, il partito ultra-nazionalista britannico nato alla destra dei Conservatori. Lui stesso era stato fra i Tory ma ne era uscito in polemica con la scelta di sottoscrivere il Trattato di Maastricht del 1992, pur tenendo Londra fuori dall’unione monetaria europea. Nel 2010 Farage in campagna elettorale, quella con cui Cameron sarebbe diventato premier, si schianta con un aereo da turismo del partito: lo striscione pro-Ukip che trascinava si era annodato sulla coda. Il suo compagno di volo muore ma lui ne esce con lo sterno sfondato e una decina di fratture, ancora più celebre di prima. Farage del resto sembra avere una fascinazione particolare con il rischio e la morte. Uno dei suoi hobby è visitare i campi di battaglia della Grande Guerra, soprattutto Ypres, è lì ridursi in uno stupore alcolico con i suoi amici di una vita.
Tre di loro nel suo villaggio, Tom Joyce, Hugh Burton e Mike Williams, ieri sera discutevano con calma su come votare domani al referendum sulla Brexit. Nei ragionamenti dei tre sembra entrata sia l’ostilità nichilista di Farage verso l’Europa che l’inconsistente credibilità di Cameron nel difendere l’adesione ad essa. «Cambio idea ogni giorno – ammetteva Burton —. Farage è un amico e l’Europa non piace neanche a me. Ma almeno è un diavolo che conosco bene, forse voterò per restare».