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 2016  giugno 18 Sabato calendario

IO, CALVI E LA BOCCONI

Nel suo libro fresco di stampa, Nostalgia. Storia di un ragazzo di Trezzo sull’Adda (Egea, 339 pag.), Luigi Guatri, decano della scuola italiana della valutazione d’azienda, ripercorre i momenti e i personaggi salienti della sua vita personale, professionale e accademica con l’Università Bocconi, di cui è stato Rettore e Consigliere delegato, mentre ora è presidente dell’Istituto Javotte Bocconi- Associazione Amici della Bocconi, che esprime la maggioranza dei consiglieri di amministrazione dell’Ateneo. Ecco la sua ricostruzione del rapporto che la Bocconi ebbe tra il 1974 e il 1982 con Roberto Calvi, allora a capo del Banco Ambrosiano.
Nel settembre del 1974 Furio Cicogna, allora presidente dell’Università Bocconi, aveva convocato presso la sede del Banco Lariano il piccolo gruppo, una dozzina di persone, che costituiva il Consiglio di facoltà (compreso il Rettore Giordano Dell’Amore e il preside Innocenzo Gasparini) per informarlo che il bilancio dell’università andava male, anzi malissimo. Aveva perciò pensato a una soluzione radicale. Occorreva che i docenti ordinari approvassero un «prodotto» di grande qualità e di sicuro richiamo (il Des, corso in Discipline Economico- Sociali, un corso full time con contenuti e regole proprie e di alto livello). Anche perché, aveva sottolineato, il Des era una delle vie (o degli stimoli) per ottenere dal Gruppo Banco Ambrosiano un rilevante contributo annuale: ben 500 milioni di lire, ossia tre volte gli introiti delle tasse accademiche dell’epoca. Questo straordinario «prodotto» accademico sarebbe stato il mezzo (a fianco del contributo di 500 milioni) per ottenere il rilancio della Bocconi.
Il gruppo dei presenti fu colpito dalla pesante situazione del bilancio (che quasi tutti, io compreso, non conoscevano): una premessa che non consentiva di discutere molto sulla proposta. Neppure Giordano Dell’Amore (il presidente della Cariplo, che pure si faceva carico ogni anno di un rilevante contributo di circa 100 milioni di lire) ebbe da obiettare. Si alzò solo un’esile voce in opposizione, del più giovane e inesperto dei presenti, l’ultimo arrivato: ero io. Dissi che, visto il programma del Des, di alta qualità ma destinato certamente a produrre nuove perdite, la debolezza economica strutturale della nostra Bocconi non ne avrebbe tratto alcun giovamento; e rimediando solo con una grande contribuzione privata (sia pure concessa senza alcuna condizione) avremmo messo a rischio la nostra indipendenza. (...)
Fui ascoltato da Furio Cicogna con grande attenzione. Ma alla fine mi disse che non si poteva fare altro. E tutto fu approvato. Nacque così il nostro rapporto con Roberto Calvi e con quelli che, anni dopo, Spadolini definì «gli eccessi del mecenatismo privato». Nel settembre dello stesso anno mi recai di nuovo alla presidenza del Banco Lariano: Cicogna mi propose di accettare la nomina nel Consiglio della Bocconi e di assumere la carica di consigliere delegato, con tutti i poteri. Chiesi 15 giorni per riflettere; mi concesse 48 ore. Il giorno dopo accettai e in quella carica rimasi per 25 anni.
LA RICETTA PER RISANARE
Fu nella veste di importante mecenate che Calvi entrò come vicepresidente nel Consiglio dell’università (era l’unica condizione che pose), sia pure senza alcun potere, che del resto non richiese mai. Dopo poco tempo Cicogna morì (eravamo nel gennaio del 1976) e al suo posto fu nominato il senatore Giovanni Spadolini. Da quel momento si creò questa curiosa triade: Spadolini, presidente; Calvi, vicepresidente; Guatri, consigliere delegato (a me furono di fatto delegati tutti i poteri amministrativi e finanziari). Con Spadolini ebbi subito un discorso franco: gli illustrai un piano di quattro, cinque anni (che discussi, con incontri riservati in casa mia, con alcuni più giovani colleghi, tra i quali ricordo Roberto Ruozi, Vittorio Coda, Claudio Demattè). La linea strategica che proposi fu: ripristinare, con graduale ma sensibile aumento dei contributi accademici richiesti agli studenti (con il supporto di un’adeguata comunicazione, di un miglioramento di tutti i nostri «prodotti culturali», dell’introduzione del numero chiuso di iscrizione ecc.), l’equilibrio del bilancio; conservare i contributi dei privati, ma renderli in quattro, cinque anni «non più necessari». Il presidente Spadolini accettò con entusiasmo: non vedeva l’ora che potessimo «contare solo su noi stessi». La presenza in Consiglio di Calvi (che pure in diversi anni ben poche volte prese la parola e, soprattutto, non chiese mai nulla per sé, divenne nel tempo, per Spadolini, un vero incubo. Fin dall’inizio mi disse che Calvi, nel caso di sua assenza, non avrebbe mai dovuto presiedere il Consiglio. Il che feci più e più volte; senza, invero, che Calvi mai eccepisse alcunché; anzi, come fosse cosa naturale.
Da Roberto Calvi ci giunse, dopo alcuni anni, solo una richiesta: mi invitò con Enrico Resti (il fidatissimo direttore amministrativo della mia epoca) presso la presidenza del Banco Ambrosiano, dove accennò all’eventualità di una laurea honoris causa. Gli facemmo presente che non era nella tradizione della Bocconi, che non era mai accaduto prima e che l’orientamento unanime era di continuare su quella strada: non eccepì nulla; non ne parlò mai più. I dubbi in questo senso di Spadolini non erano del tutto immotivati. Qualcuno all’epoca mi riferì (vero o non vero che fosse) che Calvi andava dicendo: «Con 500 milioni all’anno ho acquisito la Bocconi». Del resto, anche Paolo Panerai in un suo Orsi & Tori ebbe qualche anno dopo a scrivere di Calvi e del suo «salvataggio» della Bocconi: «Sechi mi faceva sedere sempre vicino a Calvi perché riuscissi a carpirgli qualche segreto negli anni in cui era portato in palmo di mano, anche per aver salvato la Bocconi con un generoso finanziamento che, prima dell’era di Luigi Guatri e della trasformazione dell’università in un’efficiente azienda, gli valse la poltrona di vicepresidente. Nonostante i miei stimoli, Calvi non parlava mai. Al massimo raccontava dei suoi polli e dei suoi vitelli che allevava a Drezzo vicino al confine con la Svizzera».
GLI APPROCCI A BAFFI
Contemporaneamente a Calvi, nel Consiglio sedeva un bocconiano a piena ragione considerato una gloria della nostra università: il governatore Paolo Baffi. Una figura severa e solenne, di indiscussa capacità e moralmente ineccepibile. In quegli anni assistetti con sorpresa (che poi i fatti avrebbero in parte spiegato) al tentativo di Calvi di scambiare qualche parola con Baffi: talvolta, quando quest’ultimo usciva dalla sala del Consiglio, seguendolo nel corridoio. Notai anche la ritrosia di Baffi a tali approcci. Nel 1979, a seguito di un’ingiusta inchiesta giudiziaria romana (Alibrandi-Infelisi), il capo della vigilanza di Banca d’Italia Sarcinelli fu arrestato e Baffi costretto alle dimissioni da governatore; si dimise allora anche dal Consiglio della Bocconi, con sommo dispiacere di tutti noi. Solo in anni successivi, quando le vicende Calvi-Rizzoli-P2 divennero note, qualche organo di stampa suppose collegamenti tra l’attacco feroce a Baffi-Sarcinelli e l’avvicinarsi (con l’ispezione Padalino) della deflagrazione della vicenda Banco Ambrosiano. Forse nelle nostre (inconsapevoli) sedute si era svolto un dramma silente...
Alcuni stimati professionisti (avvocati, commercialisti, anche accademici) ebbero la sventura di essere chiamati dal presidente del Banco Ambrosiano a ricoprire cariche societarie nel gruppo: ne furono travolti e la loro vita ne uscì segnata: cito per tutti l’avvocato Giuseppe Prisco e il professore Antonio Confalonieri (quest’ultimo ne morì). Eppure io, che li conoscevo bene, potrei mettere la mano sul fuoco che non furono consapevoli di nulla. Non si resero conto del fatto che Calvi, per il tramite di società off-shore alle Bahamas e in altri paradisi fiscali, aveva acquisito con i mezzi del Banco le azioni dello stesso Banco. Così Calvi aveva finito per controllare se stesso. Nel 1981 il «rischio» complessivo raggiunse la cifra di 1.400 miliardi di lire. Una voragine, la radice del dissesto. (...).
LA CONSULENZA DEGLI ULTIMI GIORNI
Io ero considerato all’epoca il massimo esperto di valutazioni aziendali in Italia. Calvi mi chiese qualche volta di fornirgli consulenze sui rapporti di cambio attinenti a fusioni di banche, sui valori di possibili acquisizioni eccetera. Ma quella che mi è rimasta indelebile nella mente fu la richiesta che mi fece (20-25 giorni prima della sua scomparsa) di modificare, capovolgendola, l’impostazione complessiva del Gruppo Ambrosiano. Chiamò, oltre a me (che avrei dovuto occuparmi dei valori delle società), due illustri specialisti: Ariberto Mignoli, il grande studioso di diritto commerciale, e Victor Uckmar, il massimo fiscalista in Italia, di cui abbiamo parlato nel precedente capitolo. Ci chiese, in sintesi, di studiare in 15 giorni una nuova organizzazione del gruppo, che vedesse ai vertici la Toro Assicurazioni e il Banco Ambrosiano come società controllata, come tutte le altre. Ci diede appuntamento dopo due o tre settimane, raccomandando vivamente di essere puntuali e indicando che i suoi collaboratori sarebbero sempre stati disponibili per qualsiasi informazione. Quando si alzò e già aveva aperto la porta per uscire, si voltò e mi chiese: «Professore, i 500 milioni di quest’anno sono arrivati alla Bocconi?». «Sì, grazie, presidente». Scomparve e non lo rivedemmo mai più.
Dopo due giorni una valanga di carte ufficiali (con quintali di bilanci) invase i nostri studi: ma le nostre cure per la riorganizzazione (in articulo mortis) del Gruppo Banco Ambrosiano sarebbero state vane, oltre che fuori tempo massimo. Nessuna riorganizzazione avrebbe potuto chiudere i buchi, che noi non conoscevamo (e dei quali non ci aveva detto nulla). Mi sono più volte chiesto: perché mai nel lasciare quella seduta (che per lui avrebbe dovuto, forse, essere un atto importante) l’ultima parola che mi aveva rivolto riguardava i contributi alla Bocconi? Sono i misteri insondabili della psiche umana.
di Luigi Guatri, MilanoFinanza 18/6/2016