Giuseppe Sarcina, Oggi 15/6/2016, 15 giugno 2016
HILLARY E DONALD
New York (Stati Uniti), giugno
Ma per noi italiani è meglio Hillary o Donald? Leggete e giudicate voi: la campagna presidenziale americana non è mai una questione che riguarda solo gli Stati Uniti. Il Commander in chief, il capo dell’esercito più potente del mondo, può prendere decisioni che toccano anche chi vive dall’altra parte dell’Atlantico e che, certamente, non è stato chiamato a sceglier l’inquilino della Casa Bianca. La guerra o la pace. Questa è naturalmente la prima risposta che cerchiamo tutti. L’attentato di sabato 12 giugno, nel club Pulse di Orlando (Florida) aumenterà ancora di più le distanze tra Hillary Clinton e Donald Trump.
Il miliardario newyorkese vuole mettere al bando i migranti in arrivo dai Paesi musulmani. E non importa se il terrorista di Orlando, Omar Mateen, di origini afghane, fosse nato negli Stati Uniti. Che cosa diventerebbe questa ostilità diffusa in una parte dell’opinione pubblica qualora Trump dovesse vincere le elezioni di novembre? Se le dichiarazioni, gli slogan non sono pura propaganda ci si dovrebbe aspettare un netto peggioramento del clima internazionale. Rapporti più difficili tra gli Stati Uniti e Paesi come l’Arabia Saudita e l’Iran. Il tycoon di Manhattan alterna toni bellicosi ad atteggiamenti da negoziatore. È un pendolo psicologico, prima ancora che politico, che negli ultimi mesi ha continuato a oscillare, mandando in confusione anche gli analisti più rodati. Certo, l’impatto emotivo della strage di Orlando ripropone oggettivamente “l’opzione”, come dicono i generali, di una guerra diretta contro il Califfato, combattuta alla vecchia maniera, con gli scarponi dei marines sul terreno.
Lui è favorevole all’“opzione guerra”
Con Trump al comando sarebbe più probabile. Ma non sarebbe esclusa neanche se al suo posto ci fosse Hillary Clinton. Nei quattro anni da Segretario di Stato (2009-2013) è stata lei a premere per il bombardamento della Libia, nell’estate del 2011: l’obiettivo era rovesciare il regime di Muhammad Gheddafi. Hillary capeggiava lo schieramento dei “falchi” in un’amministrazione riluttante a farsi coinvolgere nei conflitti sparsi nel mondo.
La differenza sostanziale è che, in caso di intervento, Hillary Clinton otterrebbe l’appoggio dei Paesi arabi, Donald Trump farebbe più fatica.
The Donald non vuole fare lo sceriffo
Ma anche se “l’opzione guerra” venisse accantonata, resterebbe aperta la questione della sicurezza internazionale. The Donald, come lo chiamava la sua seconda moglie (in tutto sono tre) Marla Maples, esige che gli alleati «paghino di più» per la loro difesa. Gli Stati Uniti «non possono svenarsi per difendere la Germania o il Giappone», ha ripetuto in ogni comizio. È una campana che suona anche per l’Italia. Attenzione, però, perché non è solo un problema finanziario. Non si tratta di mettersi a pari con i versamenti alla Nato o di mandare un contingente militare in più in Iraq o in Afghanistan. Quando Trump dice «non siamo lo sceriffo del mondo», significa esattamente che ogni Paese, ogni governo dovrà aumentare la sua quota di responsabilità. Se l’Italia è, giustamente, preoccupata, per il caos libico o se si sente presa in giro dall’Egitto per la sequela di menzogne sulla morte di Giulio Regeni, non dovrà aspettarsi un grande aiuto dagli Usa guidati dal costruttore newyorkese.
Hillary, invece, mantiene una visione più tradizionale degli equilibri del pianeta: vero, i partner devono fare di più, ma la leadership americana resterà un punto di riferimento per tutti. Se un alleato ha bisogno, l’America c’è.
Questa differenza di approccio è visibile anche nel governo dell’economia. L’outsider repubblicano è contrario agli accordi commerciali: quelli già in vigore, come il Nafta tra Canada, Usa e Messico, e quelli in discussione, compreso il Ttip, il Trattato transatlantico sul commercio e gli investimenti. Secondo il governo italiano il Ttip rappresenta una grande occasione per le imprese italiane. Le nuove norme abbatterebbero i dazi e le cosiddette “barriere non doganali”, cioè le restrizioni sanitarie o di altro tipo che impediscono l’esportazione dei prodotti soprattutto alimentari. I consumatori americani sono letteralmente soggiogati dalla pasta, dai vini, dai formaggi tipici italiani. Li comprano nonostante i prezzi alti per effetto delle tasse doganali.
Si teme l’invasione del cibo spazzatura
In Italia la discussione è aperta: il fronte dei contrari al ponte commerciale transatlantico teme un’invasione di carne agli ormoni o di cibo spazzatura dagli Usa. Con Trump, sempre stando alle posizioni espresse finora, il Ttip finirebbe nel cestino e il dibattito sarebbe semplicemente azzerato. Con Hillary Clinton presidente invece si andrebbe avanti a discutere, ma i negoziatori americani sarebbero più rigidi: la prima donna alla Casa Bianca vorrebbe ancora più garanzie per proteggere le imprese Usa, soprattutto sul mercato domestico. È possibile, quindi, che verrebbero ridimensionate le potenziali opportunità per le aziende dell’agroalimentare italiano.
L’America resterà un’amica dell’Italia. Sarà, però, un’amica più esigente con Trump, forse un po’ più comprensiva con Hillary Clinton.