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 2016  giugno 17 Venerdì calendario

PIÙ CHE VERA SPIA, UN’AUTENTICA MANGIAUOMINI

La decadenza della grande tradizione delle biografie anglosassoni è un fenomeno inesorabile da decenni, di cui sembra che solo l’Italia non si sia accorta. Carlyle, Macaulay e Trevelyan si rivolterebbero nella tomba a leggere quel che scrivono i loro presunti eredi. Ma l’editoria nostrana continua impavidamente a comprare e tradurre a caro prezzo pseudo-biografie e pseudo-storie di Roma, d’Italia o d’Europa, che meritano solo di pareggiare la gamba di un tavolo zoppo in campagna. Ogni tanto capita però d’imbattersi in lavori più dignitosi, come quello che Deborah McDonald e Jeremy Dronfield hanno dedicato alla baronessa baltica Moura Budberg, agente bolscevico e leggendaria femme fatale del Novecento (A Very Dangerous Woman, Oneworld, London). Si pensava finora che non ci fosse molto da aggiungere al profilo forse un po’ romanzato della Budberg pubblicato nel 1981 da Nina Berberova, che l’aveva conosciuta e frequentata subito dopo la rivoluzione. Ma i due intraprendenti ricercatori sono riusciti a mettere le mani su lettere, diari e documenti inediti provenienti da quella Russia post-sovietica che sembra ormai un calderone archivistico dal quale attingere qualsiasi cosa serva a comprovare o confutare una tesi. E se anche danno troppa importanza a quel che hanno scoperto, come capita ai novizi, il risultato è abbastanza convincente.
Nata nel 1893, Maria Zakrevskaya, detta Moura era una delle fanciulle in fiore della San Pietroburgo fine secolo, con una gran voglia di conoscere il mondo. Non vedeva l’ora di evadere dall’ambiente convenzionale di proprietari di campagna in cui era nata e cresciuta, e lo fece nel modo più classico. Rimasta incinta, contrasse a diciott’anni un matrimonio riparatore con un aristocratico estone, il conte Djon von Benckendorff, consigliere dell’ambasciata russa a Berlino, dal quale ebbe due figli in rapida successione. Per un paio d’anni, Moura, che non era una gran bellezza ma vi suppliva con l’intraprendenza erotica, fece girare le teste maschili e anche femminili a tutti i balli di corte in cui apparve. Riuscì anche a sedurre – pare – gli imperiali cugini Nicky e Willy, alias lo zar Nicola II e il kaiser Guglielmo II, che stavano per far precipitare sconsideratamente i loro popoli nel baratro della Grande guerra.
Cominciò allora un periodo avventuroso, dall’inizio del conflitto alle due rivoluzioni russe di febbraio e di ottobre. Separata da marito e figli, che erano rimasti tagliati fuori dal fronte nella proprietà in Estonia, Moura si mise a lavorare a Mosca per l’ufficio dell’addetto militare britannico e lì conobbe l’uomo che passa per essere stato il suo grande amore: Bruce Lockhart, un giovane e aitante scozzese, precursore nel fisico e nelle mansioni di Sean Connery, il primo e unico James Bond (diffidare delle imitazioni). Lockhart aveva ricevuto dal Primo ministro Lloyd George l’ordine di ottenere che il nuovo regime dei Soviet continuasse la lotta contro la Germania. Svanita questa illusione con la pace di Brest-Litovsk nel marzo 1918, Lockhart si dedicò al compito opposto di fomentare i sabotaggi antisovietici, per preparare l’intervento delle potenze occidentali nella guerra civile. Scoperto e condannato a morte dalla Ceka dell’implacabile Dzerzinskij, fu scambiato contro l’agitatore Maxim Litvinov, futuro commissario agli Affari esteri e ambasciatore negli Stati Uniti. Chi ne fece le spese fu Moura. Arrestata e torturata, perse il figlio che aspettava da Lockhart e fuggì invano in Finlandia dove lui, che in patria aveva già una famiglia, si guardò bene da andare a riprenderla.

Parente di Pushkin? Rimasta sola e senza mezzi, morto il marito in circostanze misteriose e temendo di non rivedere mai più i figli, Moura fu costretta a venire a patti con la Ceka. Iniziò così la sua lunga e fruttuosa carriera d’informatrice e cortigiana. Divenne la segretaria di Maxim Gorki, nella comune che lo scrittore aveva installato in un palazzo ex nobiliare della spettrale Pietrogrado dei primi anni Venti. Vi alloggiarono per alcuni mesi anche la Berberova e il marito, il poeta Vladislav Chodasevic, prima di riuscire a emigrare in Italia. Gorki era un dottor Jekill e Mister Hyde, che di giorno proteggeva artisti e intellettuali perseguitati, ma di notte sceglieva la favorita di turno da accogliere nel talamo, come un satrapo orientale. Moura resistette più a lungo di altre, anche perché riuscì a convincerlo che discendeva da Pushkin. Bisogna premettere che in Russia (anche nella fase sovietica) Pushkin era venerato come Dante, per cui l’accostamento, sia pure indiretto, non poteva non lusingare un Gorki giunto al capolinea della propria opera. Che poi Moura abbia avuto un ruolo nel complotto staliniano che nel 1936 avrebbe portato all’avvelenamento dello scrittore, non è provato ma appare tutt’altro che improbabile.
Il Gpu, successore della Ceka e precursore del Kgb, l’incaricò di spiare gli occidentali che si recavano in Urss nel clima di tregua sociale della Nep (Nuova politica economica). Cosmopolita, plurilingue, sempre più disinibita, Moura, che aveva nel frattempo impalmato un secondo aristocratico baltico divenendo baronessa Budberg, si lanciò con entusiasmo nell’incarico ricevuto. Sperava soprattutto di ottenere per sé e per i figli (il marito contava solo per il nome) un passaporto per l’estero. Si concentrò sugli inglesi, illudendosi di poter riallacciare il rapporto con Lockhart. Bertrand Russell, in visita a Pietrogrado, scampò all’insidia, malgrado lei gli avesse fatto girare la testa irta di formule matematiche. Ma non così H.G. Wells, autore prolifico in letteratura quanto in amore, che riuscì a portarsela dietro a Londra, come voleva lei, ma anche il Cremlino, che aveva ordito la trappola.

«Toglietemela dai piedi». Abbandonato Wells poco dopo il suo arrivo, Moura continuò a tramare e spiare. Ormai ci aveva preso gusto. Ma l’MI5, il servizio segreto britannico, allertato probabilmente dallo stesso Lockhart, la teneva d’occhio. Il suo nome compare di striscio in molti eventi cruciali di quegli anni, compresa la crisi dinastica che portò alle dimissioni di Edoardo VIII e al suo matrimonio con Wallis Simpson. Ma è dubbio che Moura abbia svolto il ruolo determinante che le è stato poi attribuito da dietrologi con troppa fantasia. Non fu quindi «la più seducente spia dei tempi moderni», come dichiara enfaticamente il sottotitolo del volume di McDonald e Dronfield per far vendere due o tre copie in più. Fu un personaggio tutto sommato patetico, una vittima della storia anche lei, più infelice che pericolosa. Continuò imperterrita nel secondo dopoguerra a civettare negli ambienti culturali, anche quando le sue grazie erano solo un lontano ricordo. I suoi mandanti non ottennero grazie a lei segreti politici o militari di rilievo, come quelli che a lungo ricevettero da Kim Philby, professionista di ben altra levatura. Gli indizi raccolti dagli autori, di un collegamento tra l’attività di Moura e la rete spionistica dei “Cambridge Five”, sembrano molto tenui. Alla lunga, anzi, Philby deve aver chiesto a Mosca di togliergli dai piedi quell’intrigante chiacchierona.
Con i modesti sussidi che le passava l’ambasciata sovietica, Moura decadde a propagandista in Inghilterra del mito dell’Urss durante la guerra fredda. Ma bisogna darle atto che lo fece sino all’ultimo con classe, impegno e un certo panache. Il suo appartamento di Kensington, vasto, cavernoso, di dubbia pulizia, stracolmo di libri, arredi, fotografie e samovar, come tutte le case dell’emigrazione russa, da New York a Parigi, da Berlino a Napoli, fu frequentato dal fior fiore dell’élite culturale liberal. Si andava da antichi ammiratori come Bertrand Russell a un maestro di spy stories, Graham Greene, che non la prendeva sul serio ma la trovava pittoresca. Credo che da lì sia passato anche il principe dei corrispondenti italiani a Londra, Carlo Maria Franzero, che deve averne lasciato testimonianza in un elzeviro. Moura collaborò con Laurence Olivier e Peter Ustinov per mettere in scena Cechov, e David Lean si avvalse della sua consulenza per le riprese del Dottor Zivago. Non si riconciliò invece con Bruce Lockhart, che preferiva tenerla a distanza, mentre impalmava una nobildonna dietro l’altra, con il fascino sempreverde delle spie di Sua Maestà, sia pure a riposo. Nel frattempo invecchiava, ingrassava, beveva ettolitri di vodka e gin, fumava sigari cubani e sembrava volersi quasi punire dell’avvenenza di un tempo. Quando morì, nel 1974, era da anni un’istituzione, anzi un’icona, la cara ed eccentrica vecchina russa della porta accanto. I necrologi stentarono a mettere a fuoco chi fosse stata veramente.
Ultimo particolare, che la dice lunga sui tempi ingrati che attraversiamo. Come ammettono candidamente i due autori, probabilmente non avrebbero trovato né un agente letterario, né un editore per dedicare anni di ricerche alla Budberg, se costei non fosse stata una prozia acquisita dell’attuale leader del partito liberale e vice primo ministro, Nick Clegg. L’allusione maliziosa alla parentela tra un politico di oggi e una ex spia sovietica fa sempre un certo effetto sul pubblico anglosassone. Purtroppo per i dietrologi, Clegg aveva sette anni quando morì auntie Moura, che forse nemmeno conobbe, e giocava con i soldatini e i cavalli a dondolo, ignorando i piani di Stalin per conquistare il mondo.