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 2016  giugno 17 Venerdì calendario

IBRA, IL GIGANTE– Ibrahimović è grande. Però non lo è solo, come evidente, dal punto di vista di chi ama il calcio

IBRA, IL GIGANTE– Ibrahimović è grande. Però non lo è solo, come evidente, dal punto di vista di chi ama il calcio. No, Ibra è grande fisicamente, è imponente. Sembra di un’altra scala. Come se noi fossimo un ventidue pollici e lui uno schermo da cinerama. Questo conta, nello sport. E conta nella vita. Specie se la si comincia, da figlio di immigrati, in mezzo a contesti sociali da “vita violenta”. Nella sua autobiografia, Io, IBRA – con Open di Andre Agassi, forse il più bel libro di sport scritto di recente –, Ibra racconta con crudezza imprese e sofferenze di una vita che non potrebbe essere descritta con gli stilemi delle biografie di maniera. La sua storia gronda verità e sincerità. Secondo me è pronta per un film. Anche se, francamente, sarebbe difficile individuare qualcuno che potrebbe interpretare Ibra. Uno ci sarebbe stato. Se non fosse morto qualche giorno fa, dopo una lunga malattia, e non avesse avuto la pelle di colore nero. Difficoltà ormai insormontabili. L’unico che avrebbe potuto credibilmente assumere le vesti del giocatore svedese era infatti Muhammad Ali. Forse perché, fin da ragazzo, Ibra sognava di essere come Ali. La vita non era una passeggiata di salute a Louisville negli Anni Cinquanta e non lo era a Rosengard nei Novanta. Tutto sembra dire che quelli sono i luoghi dei perdenti, nella lotteria della vita. Forse per questo i più forti, quelli con un carattere di amianto, alla fine vincono e coltivano persino un’etica della vittoria. È la prima cosa di cui mi parla, Zlatan Ibrahimović, quando lo incontro, in un vecchio teatro del nono arrondissement di Parigi. «Io non accetto di perdere, non lo accetto proprio. L’ho imparato dalla vita. Arrivare secondi è essere il primo degli ultimi, questa è la verità. Ognuno ha il suo modo di vivere. Per me contano la grinta e l’aggressività, la determinazione e la concentrazione sui propri obiettivi. Io ho la missione di vincere». Lei è un caso particolare di attaccante, nel calcio. Segna tantissimo ma è anche il recordman degli assist, dei passaggi decisivi ai compagni di squadra. «Tra le tante cose che hanno detto di me, c’è anche questa: che sarei un giocatore egoista. Lo chiedano ai miei compagni di squadra. Io sono un innamorato del collettivo. In allenamento mi arrabbio se i miei compagni non ce la mettono tutta. Io voglio vincere, ma so che non si vince da soli. Un attaccante deve essere egoista, deve voler segnare. Ma questo non significa essere stupidi. Se un compagno è piazzato meglio di te, passagli il pallone. Così si vince». Non so quanti esempi ci siano di giocatori che, in qualsiasi squadra abbiano militato, hanno vinto almeno lo scudetto, il titolo. Lei se lo è aggiudicato con Ajax, Juventus, Inter, Milan, Barcellona, Paris Saint-Germain. Dove andava lei si vinceva. E ora quale sarà la sua nuova meta? Sa che in Italia i tifosi di tante squadre hanno ancora il cuore spezzato? Tornerà da noi? «Le dico due cose, forse contraddittorie. La prima è che non si sa mai. La seconda è che non si torna mai dove si è fatta la storia. Quella in Italia è stata una bella esperienza. Da voi ho vissuto i miei anni migliori, quelli che mi hanno formato come uomo e come calciatore. Il calcio italiano, per me, è il più bello del mondo. C’è una passione infinita, calda, totale. Qualcosa che assomiglia al mio modo di intendere lo sport. E forse anche la vita». Cosa le piace dell’Italia? «La considero la mia seconda casa. Ho vissuto benissimo a Milano e a Torino. Mi piace in primo luogo come si parla, il body language degli italiani. Poi il cibo, e il fatto che la gente è sempre in giro, è accogliente. Ti senti subito uno di loro. Un calciatore, poi, è rispettato e amato. Qualche volta è quasi più importante di uno di famiglia». In Italia, alla Juventus, lei incontrò Fabio Capello col quale ebbe un ottimo rapporto. Ciò che non è successo sempre con gli altri tecnici. «In verità, anche questa è un po’ una leggenda. In fondo, io mi sono lasciato male solo con Guardiola. Con gli altri ho discusso, anche litigato, come è normale, ma cose di campo. Sono rimasto amico con tutti. È vero che Capello fu capace di prendermi nel modo giusto. Fabio era uno a cui, più dei bei tocchi di classe, più delle esibizioni di estetica del calcio, piaceva vincere. Per questo ci capimmo subito. Lui è stato importante. Diceva che voleva togliermi “a legnate” certe leziosità che avevo messo in mostra all’Ajax. Voleva che segnassi, poche chiacchiere. Dopo gli allenamenti, quando gli altri rientravano nello spogliatoio, lui mi chiamava e mi metteva in area, con il suo vice, a calciare in porta, anche cento volte. Per dirle il tipo, una volta ebbi un litigio, anche fisico, con Zebina, un mio compagno di squadra. Io lo colpii. Mi aspettavo un urlo di rimprovero. Invece Capello se ne rimase in silenzio e poi disse che quel gesto aveva fatto bene alla squadra. Perché lui voleva sempre il massimo di tensione e di adrenalina. Perfetto, per me». Torniamo alla vittoria come fine ultimo. «Guardi, io se non vinco, mi incazzo a morte. Noi dobbiamo vincere, sempre. La mia è una magnifica ossessione. E mi piace chi la condivide». Lei ha mai sentito il sapore acre della esclusione? Ora mi riferisco alla sua vita da ragazzo, figlio di immigrati in Svezia. «Tante volte. Io non ero biondo, non mi chiamavo Larsson, non ero di buona famiglia. Per me è stata dura e molto ho fatto con le mie forze, con la mia determinazione. Questa condizione di diversità mi ha dato molta carica, molta voglia di riscatto. Volevo riuscire, sono riuscito. Oggi, per molti ragazzi che vivono adesso come io vivevo allora, sono la dimostrazione vivente che ce la si può fare, che l’esito di un’esistenza non è scritto nel codice postale del quartiere in cui sei nato. Dipende da te. Adesso credo di essere un esempio. E mi sento pienamente svedese. Sono un nuovo svedese». Cosa pensa dei muri che vengono edificati per evitare l’arrivo dei migranti? «Non mi piacciono. Io non credo a queste cose. Per me la vita assomiglia al calcio. E il calcio è una specie di religione aperta a tutti. Io voglio un mondo aperto». E nella sua vita ha sofferto per episodi di razzismo? «Sì, ma di due tipi diversi. In Italia accadeva in campo, le solite cose orrende che vengono gridate a chi viene considerato altro da sé. In Svezia erano più identificabili con forme di razzismo sociale. Ma le devo dire che più me ne dicevano, più io trasformavo tutto in energia positiva, in voglia di fare e di riuscire. Fare gol a una squadra i cui tifosi ti hanno insultato con cori razzisti è una bella soddisfazione, mi creda». Quando smetterà di giocare? «La vita di un calciatore è programmata come quella di una macchina. Sveglia, colazione, allenamento, pranzo, partita... Sempre uguale. Uscire da questo ingranaggio è difficile, ne sono consapevole. Ho visto molti miei colleghi che, dopo aver appeso le scarpe al chiodo, passavano le giornate a contemplare i muri. Smetterò quando non mi divertirò più, quando cesserà la voglia di vincere, quando avvertirò di non essere più all’altezza di quello che sono stato. Ma non è oggi. Ho ancora voglia, e ancora voglia di imparare. Credo che Totti, in Italia, sia nella stessa condizione. Anche lui non deve dimostrare nulla. E Francesco è un’icona del calcio italiano». Lei sta lanciando una sua linea di moda. Il ragazzo di Rosengard non è diventato solamente una star del calcio, ma ora anche un imprenditore... «Mi crede se le dico che non lo faccio per soldi? A casa mia mancavano sempre, e spesso il frigorifero era vuoto. Le posso assicurare che se anche non facessi nulla, nel mio frigo, oggi e per molto tempo, non mancherebbe niente. La verità è che voglio mettermi di nuovo alla prova. Voglio vedere se sono capace di vincere anche in campi diversi da quello verde degli stadi. Sfido me stesso, e voglio vincere». Che ricordo ha dell’attacco terroristico del Bataclan, avvenuto qui a Parigi, dove ha vissuto negli ultimi quattroanni? «Non ero a Parigi, quella sera. Giocavo fuori con la nazionale svedese. Quando sono tornato lì, era tutto freddo, tutto triste, come sospeso. Sono stati giorni di vera sofferenza. Io penso che chi fa quelle cose ha il vuoto nella testa. Il mio modello, e guardi che non è un’utopia astratta, è “Peace and love”. Ovunque, sempre». C’è un oggetto che lei vorrebbe con sé su un’isola deserta? «Un telefono, per stare con gli altri». Concludiamo parlando dei suoi genitori. Nel suo libro sono due personalità forti e presenti, ciascuno a suo modo. Suo padre, che era separato da sua madre, l’ha cresciuta come poteva. Era un uomo segnato dalla vita e dal dolore della guerra nella sua patria, la Bosnia. Spesso era ubriaco e assente. Poi un giorno si presentò a lei: era vestito perfettamente e la sua casa, ieri una bolgia di disordine, l’aveva trasformata in un ordinato museo della sua vita calcistica. Lei, insomma, non solo aveva riscattato se stesso, ma dato un nuovo senso alla vita di suo padre. Trovo tutto questo molto bello, quasi poetico. «Mio papà, ancora oggi, mi segue, sempre silenzioso e presente. Ora ha trovato il suo equilibrio. E io sono felice di questo. Mia mamma, invece, non vuole sentirne di smettere di lavorare. Continua a pulire le scale dei locali pubblici. “Altrimenti mi annoio”, mi ha detto. E penso abbia ragione».