Nicola Calzaretta, Guerin Sportivo 7/2016, 16 giugno 2016
IL MIO PATTO CON BAGGIO– [Dario Hubner] Dario Hubner non ha mai fatto un caffè in vita sua. O meglio, solo una volta, ma era una posa studiata perché passasse come buona la storia che dopo il pallone si era messo a fare il barista
IL MIO PATTO CON BAGGIO– [Dario Hubner] Dario Hubner non ha mai fatto un caffè in vita sua. O meglio, solo una volta, ma era una posa studiata perché passasse come buona la storia che dopo il pallone si era messo a fare il barista. Così come non è vero che beveva in abbondanza con i tifosi prima delle partite e che poi, alticcio assai, nei novanta minuti seguenti riuscisse a segnare triplette. Finta anche la storia della sigaretta fumata e poi offerta a mister Ancelotti durante una tournée estiva con il Milan nel 2002. Per il resto, è tutto vero. Dario Hubner, nonno tedesco e madre istriana, di Muggia (provincia di Trieste), dove è nato il 28 aprile 1967, è un bomber di provincia che ha segnato oltre 300 gol sparsi in tutte le categorie del calcio nostrano. Un attaccante capace di vincere la classifica marcatori in A, B e C, un record. Arrivato al calcio vero in età adulta, dopo aver lavorato (sul serio) come operaio fino ai venti anni. Un centravanti arrembante, sgraziato nel correre, ma tremendamente efficace. Un bisonte del gol, Tatanka per l’appunto. Un giocatore andato avanti a scatti, addominali, Marlboro e qualche grappino. Un uomo che ha investito parte dei suoi soldi in un bar e che ha scelto di vivere nelle campagne del cremasco, le terre di sua moglie Rosa, a stretto contatto con la natura (“anche se il mare un po’ mi manca”). Ed è qui che ci incontriamo, prima di sederci ad uno dei tavoli della “Rosa Gialla” di Ripalta Cremasca per una tagliata come si deve e un bicchiere di rosso. «Mi piace mangiare. Ho sempre fatto così anche quando giocavo. Fino al giovedì, però. Primo, secondo e un po’ di vino. Oggi continuo a farlo, ma sto mettendo su pancia. Per fortuna ci sono le partite di beneficenza che sono buone occasioni anche per ritrovare vecchi compagni». E delle sigarette ne vogliamo parlare subito? «Mai fatto mistero di niente. Un pacchettino di Marlboro al giorno. Ho iniziato a tredici anni, per “colpa” di mia sorella maggiore Laura. Lo so è un vizio. Ma a me piace. Ho sempre fatto una vita normale, immerso nella natura. Deve venire il dottore a dirmi di smettere, ma mi deve fare veramente paura». Fumavi prima della partita? «Sì. E anche nell’intervallo, senza disturbare gli altri. Nel bagno o in uno stanzino. E, comunque non ero il solo. C’era poi chi veniva in ritiro il sabato con un pacchetto intero e la domenica prima della partita lo aveva finito». La grappa invece? «A fine pasto. Niente di più e niente di strano. Quello che mi ha fatto arrabbiare è che la Lega Calcio, il giorno del mio compleanno, abbia copia-incollato sul proprio sito una storia palesemente inverosimile dove venivo dipinto come una specie di ubriacone. Ma dai!». Tatanka imbufalito? «Stavolta sì». Provo allora a rimettere le cose a posto: ti piace la definizione di “calciatore autodidatta”? «Questa sì. Fino a venti anni non posso dire di avere avuto maestri. Sono entrato nel vivaio della Muggesana e sono arrivato in Prima Squadra. Ma mi sono costruito da solo. Anche e soprattutto giocando per strada, all’oratorio, nei parcheggi». Fisicamente come eri messo? «Ero piccolino. Ho fatto il vero boom tra i 15 e i 18 anni, arrivando più o meno a come sono adesso. Ho dovuto lottare, dare su con i gomiti, difendermi, perché gli altri erano sempre più grossi. Così si impara». E la scuola? «Mi presentai all’esame di terza media senza aver studiato. Alla commissione dissi: sappiate che, diploma o no, io domattina alle sette inizio a lavorare. Licenza media ottenuta e, 24 ore dopo, ero già in officina, apprendista fabbro». Hai fatto poi quel mestiere? «Sì, per quattro anni. Settore infìssi in alluminio. La bora ci dava una bella quantità di lavoro. I primi anni ho imparato, poi facevo parte delle squadre che andavano fuori a montare». E, a fine giornata, il pallone. «La vita di tantissimi. Lavoro e calcio. La Muggesana faceva la Prima Categoria. Due o tre allenamenti alla settimana. D’inverno un freddo della madonna. Giri di campo, qualche esercizio e la partita. Dopo una giornata in officina c’era posto solo per quello». Com’era lo spogliatoio della Muggesana? «Comandavano i vecchi. A noi giovani era impedito sdraiarsi sul lettino dei massaggi. Capirai, il massaggiatore era il carrozziere del paese. Nell’intervallo delle partite venivano preparati due boccioni di thè. Uno era al rum, ma non era per noi». Che ricordi conservi di quegli anni? «Si giocava in campi di terra, scarpette “Atala” a tredici tacchetti fissi. D’inverno si usava una pomata rossastra per riscaldare i piedi. I vecchi se la strofinavano sulle mani, un’arma in più contro gli avversari. Avevo corsa, potenza, fiuto del gol. Feci parte della rappresentativa del Friuli. Una volta siamo stati fuori quattro giorni per un torneo in Val d’Aosta. Avevamo tutti la stessa tuta, si mangiava insieme, facemmo un piccolo ritiro. È stata la prima volta che ho respirato l’atmosfera di una squadra vera». E anche una bella vetrina. «Mi vide il ds del Treviso, Zambianchi, e mi propose di andare in ritiro con la squadra che all’epoca militava in C2. Io parlai con il mio capo: mi licenziai, con l’accordo che mi avrebbe ripreso in officina se le cose fossero andate male. Era dispiaciuto che lasciassi il lavoro perché ero bravo». E la Pievigina come viene fuori? «Facemmo un’amichevole con loro e io segnai. Al Treviso ero chiuso. Me lo disse il mister Elvio Salvori che mi consigliò di andare un anno lì. Rimasi a vivere a Treviso con alcuni compagni, mentre il viaggio fino a Pieve di Soligo lo facevo con l’auto di Pizzolon, altro giocatore in prestito». Che stagione fu per te? «Dura. L’allenatore era Dino D’Alessi. Ero grezzo tecnicamente. Tatticamente acerbo. Se dovevo pensare al movimento da fare, l’azione era già finita. E poi, i campi in erba. Non c’ero abituato. La palla schizzava. Dovevo giocare con le scarpette a sei tacchetti, ma i piedi mi facevano malissimo». Comunque in 25 partite segni 10 gol. «Peccato che il Treviso a metà stagione fallì. Sembrava tutto perso. Per fortuna ci pensò Zambianchi che, nel frattempo si era trasferito al Pergocrema e mi portò con sé. Non fu una grande stagione, il salto di qualità è poi arrivato dopo a Fano». Tre anni nelle Marche, dal 1989 al 1992. «Al primo colpo vinciamo il campionato, io segno 8 reti, in quel periodo giocavo esterno. Nel 1992 con 14 gol diventai il miglior marcatore per la serie C1. Nel mezzo avevo incontrato Francesco Guidolin che mi ha veramente insegnato come si sta in campo. Gli devo molto». 1992, nuova tappa verso il successo: ecco il Cesena e la B. «Continuava la possibilità di crescere. Il livello si alzava ed io ero molto curioso di provarmi con giocatori tecnicamente di migliore qualità. Come Aldo Dolcetti e Lorenzo Scarafoni con cui, per due o tre stagioni, abbiamo composto un tridente eccezionale. Loro ci mettevano la fantasia e la bontà dei piedi. Io, che stavo nel mezzo, la corsa, la potenza e i gol». Hai indossato la maglia bianconera per cinque anni. «Al Cesena sono molto legato. Ho due soli tatuaggi. Uno è per i miei figli, Michela e Marco; l’altro è il “cavallino”, il simbolo del Cesena. Cinque stagioni, ogni anno in doppia cifra e il titolo di capocannoniere della B nel 1996 con 22 reti. Cesena significa anche i primi veri soldi. E l’ultima vetrina per il sospirato salto in Serie A». Che arriva nell’estate 1997 con il trasferimento al Brescia. «Si avverava il sogno di quando giocavo con mio fratello nel corridoio di casa con un pallone fatto di calzini aggomitolati. Avevo trent’anni, non pochi, ma giusti per affrontare serenamente l’ultimo ostacolo». Il sogno di bambino si era spinto anche nell’immaginare il debutto in A con gol? «Non me lo ricordo, ma rammento bene la realtà: esordio a San Siro contro l’Inter, la squadra per cui ho sempre tifato. Spillo Altobelli era il mio idolo, ma mi piaceva anche Kalle Rummenigge. È il 31 agosto 1997, ma gli occhi del mondo sono tutti per Ronaldo che, anche lui, debutta in A». E, invece, dal cilindro del Meazza spunta un golazo di Dario Hubner. «Mancava un quarto d’ora alla fine, eravamo sullo 0-0. Stoppo il pallone con la coscia, me lo porto avanti per liberare il sinistro: botta secca e Pagliuca è battuto». Domanda: quanto c’è di istinto in quel gol? «Moltissimo. Non pensi in quei momenti. O meglio, il pensiero si trasforma all’istante in movimento. Non c’è nulla di studiato. È una delle mie caratteristiche migliori. La sorpresa, che è figlia dell’istinto, che deriva dai miei inizi in strada». Il sogno sarebbe bellissimo se non ti svegliasse un certo Recoba. «Accidenti a lui (sorride). Quante partite buone ha fatto il Chino nell’Inter? Proprio contro di noi deve tirar fuori due gioielli, uno addirittura da centrocampo? È andata così. Mi rifeci la settimana dopo con una tripletta alla Sampdoria». Quattro anni a Brescia, due anni di A e due di B: che bilancio fai? «Personalmente molto buono: sono andato sempre in doppia cifra. Nei due anni di B ho fatto 42 reti. Nel 2000 abbiamo riconquistato la Serie A e l’anno seguente abbiamo raggiunto il settimo posto, qualificandoci per l’intertoto». È l’anno di Roberto Baggio e Carlo Mazzone. «Ero il capitano, ma quando seppi che arrivava Baggio, d’accordo con il mister, si decise che gli avrei consegnato la fascia. Andammo insieme nella camera di Roby per comunicargli la decisione. Gli dissi: Il capitano sei tu, ma i rigori continuerò a tirarli io». Come è stato il tuo rapporto personale con Baggio? «Ti dico che ho avuto la fortuna di giocarci insieme, ma anche la sfortuna di farlo da “vecchio”». Chi ti ha impressionato di più nei quattro anni a Brescia? «Andrea Pirlo. Un fenomeno. Riusciva a vedere il gioco cinque secondi prima degli altri. E i suoi lanci erano meravigliosi. Sul piano del carattere e della personalità il top è Filippo Galli: un uomo con i cosiddetti». E Mazzone? «Una persona stupenda, capace di saper indirizzare l’umore della squadra. Un po’ come Sonetti, anche lui bravissimo uomo-spogliatoio». C’è stato qualche mister con cui hai avuto discussioni? «Silvio Baldini al Brescia. Non riusciva a mettersi nella testa dei giocatori. Dopo una sconfitta, riprendiamo gli allenamenti e lui parte subito duro con schemi e tattiche. Io allora gli dico: i calciatori sono come i bambini. Vanno fatti divertire. Falli giocare prima. E poi, entra pure duro. Non mi volle ascoltare. Anni dopo l’ho ritrovato e mi ha detto: “Mi stavi sulle palle, ma sei l’unico che mi ha detto le cose in faccia”». E arriviamo al Piacenza, anno 2001. «Mister Novellino mi costruì la squadra addosso. E io detti il meglio di me: 24 gol, gli ultimi due decisivi per la salvezza e titolo di capocannoniere a braccetto con Trezeguet». Il tutto a 35 anni. «Stavo bene e vedevo la porta. Lo dico senza pudore: avrei meritato una chiamata in Nazionale. Mi sarebbe bastata un’amichevole. Invece niente. E mi è rimasto l’amaro in bocca, al pari di non aver mai giocato in una competizione europea». In compenso il Milan, proprio nell’estate del 2002 ti porta in tournée negli USA. «Ricordo la grande felicità e l’emozione quando misi per la prima volta piede a Milanello. Mi dissi: qui ci sono passati personaggi straordinari, fuoriclasse assoluti. E quando mi trovai davanti al busto di Nereo Rocco mi vennero i brividi». Speravi in un passaggio in rossonero a fine tournée? «Ci poteva stare. Mi incuriosiva tutto. C’era un’organizzazione perfetta. Un giorno a tavola mi macchio la maglietta bianca. Cerco di pulirla, ma non ci riesco. A fine pasto, salgo su in camera per cambiarla. Entro e ne trovo una piegata e stirata sul letto». E la storia della sigaretta nello spogliatoio offerta ad Ancelotti? «Una bufala. Ma tu pensi che possa essere possibile che io, l’ultimo arrivato, mi metta a fumare, con tanto di lattina di birra al mio fianco, e a rispondere al mister in quel modo? L’unica cosa che feci in quella esperienza fu la richiesta di una camera per fumatori nell’hotel che ci ospitava». Ad ogni modo la parentesi milanista finisce lì. «Io so che il Milan non aveva i giovani che interessavano al Piacenza. Peccato. Sarebbe stato il massimo. Rimango dove sono, poi lentamente torno nelle categorie minori e chiudo a 44 anni». Cosa ti sei portato dietro dai dilettantistico ai prof? «Per prima cosa me stesso: sono rimasto sempre uguale. Poi la voglia di divertirsi. La tranquillità nell’affrontare la partita. Non ho mai avvertito la tensione. Ho sempre dormito prima di ogni gara. Infine l’impegno in campo. Ho dato sempre il 100%. Per questo sono amato in tutte le città in cui ho giocato. E questo mi riempe d’orgoglio, al pari del primato che condivido con Protti di avere vinto la classifica cannonieri in A, B e C. C’è qualcosa che ti manca adesso? «Sono fuori dal giro e questo mi pesa. Vorrei allenare. Le società dovrebbero guardare con un occhio di maggior riguardo a chi, da calciatore, ha scritto pagine significative». Hai intravisto un nuovo Hubner nell’ultima Serie A? «Kevin Lasagna del Carpi». Qual è la cosa più bella che ti è capitata nella tua lunghissima carriera? «Prima di un Milan-Brescia, Paolo Maldini che viene da me e mi chiede la maglia. Dico: Paolo Maldini!». Nicola Calzaretta