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 2016  giugno 15 Mercoledì calendario

La triste storia di Angela, la sposa bambina che nel 2013 tagliò a pezzi il marito padrone– Angela era una ragazza delicata ma molto bella

La triste storia di Angela, la sposa bambina che nel 2013 tagliò a pezzi il marito padrone– Angela era una ragazza delicata ma molto bella. Viveva in una piccola frazione abitata da poche famiglie tutte imparentate tra di loro. Era nata dopo cinque figli, tre femmine e due maschi. A sette anni doveva accudire il fratellino arrivato dopo di lei; a otto anni pascolava le capre; a undici anni il padre le affidò il vitellino che la famiglia avrebbe dovuto crescere a “soccida” con il padrone; a tredici anni impastava il pane di “jermanu”; a quattordici anni faceva il bucato al fiume. A quindici anni sbocciò esile e meravigliosa come un fiore delle serre calabresi. Qualche volta, la sera, prima di addormentarsi, dava uno sguardo fugace al suo corpo sbirciando sotto le coperte di ginestra. Sapeva di esser bella e lo capiva da come gli uomini la guardavano quando andava in Paese. A sedici anni la chiesero in sposa. Non aveva mai deciso nulla della sua vita e non decise neanche quella volta. Il padre conosceva il genitore del giovane pretendente come “un gran lavoratore” e tanto gli bastò per accettare la proposta di nozze. Lo comunicò alla ragazza utilizzando le parole di un antico adagio calabrese: «L’utri pigghjia ddu pedicinu», quindi il tuo futuro sposo sarà una lavoratore come suo padre. Anche in questo si sbagliava. In estate la madre portò Angela al fiume per il bucato, la ragazza si immerse lentamente nelle acque limpide. Lo faceva ogni estate e l’acqua dell’Allaro le regalava le uniche fresche carezze che avrebbe ricevuto nella sua vita. Poi fu festa ma non per Angela. Il padre le comprò un vestito “americano” piuttosto vecchio ma la sposa era, comunque, splendida. La cerimonia fu scarna. Parenti e vicini mangiarono in abbondanza. Finito il pranzo, lo sposo fece salire Angela sull’asino per portarla nella sua “nuova” casa. Non era stata felice nella piccola abitazione di famiglia ma adesso mentre la vedeva allontanarsi dal suo sguardo e sparire dietro i monti, il petto le si riempiva di angoscia. L’unica consolazione una capretta e una piccola cagna che portava con sé in dote. La natura del marito la comprese già durante il viaggio quando le unghie ancora sporche di sugo affondarono in quelle carni delicate che opponevano invano un inutile fremito di resistenza. Andarono ad abitare in una casa isolata, molto lontana della sua piccola frazione. Il marito rese l’abitudine a picchiarla, all’inizio con qualche scusa, poi per il semplice fatto di esistere. A ventisei anni di figli ne aveva sei. I genitori erano sempre più vecchi e distanti e lei doveva accudire i figli, pascolare le capre, cucinare, lavare i panni, dar da mangiare ai maiali, raccogliere le erbe per i conigli, preparare l’orto. Il marito rientrava tardi, non portava soldi perché quel poco che guadagnava lo spendeva nelle cantina del Paese. Ogni sera, arrivava ubriaco, picchiava Angela, terrorizzava i bambini. Solo la cagna sembrava capire il dramma senza fine di Angela e si attaccò a Lei con un affetto quasi morboso. Quando la donna era a letto per il parto l’animale non mangiava, e quando il marito la picchiava la cagna digrignava i denti prendendosi la sua parte di legnate. Quando Angela portava gli animali al pascolo, la cagna correva e saltellava sui prati quasi volesse farla sorridere. Quando, seduta su qualche pietra, Angela stringeva al petto le sue creature mettendosi a piangere a dirotto, la cagna si avvicinava al viso e leccava le sue lacrime. Il marito odiava la bestiola, poiché la considerava complice della moglie o meglio testimone dei suoi misfatti. Una mattina trovarono un gallo sgozzato, era stata la faina ma il marito accusò la povera bestiola. Prese un’ascia e con un solo fendente le spezzò la schiena. Angela vide cadere a terra l’animale e il sangue rosso scendere sull’erba verde di aprile. La cagna respirava emettendo dei rantoli di morte ma non staccava lo sguardo dalla donna che tanto l’aveva amata. Sembrava provasse una grande pietà per quella povera donna che avrebbe lasciato sola. Angela le bagnò la testa con l’acqua e se la strinse al seno non curandosi del sangue che scorreva a fontanelle. Si guardò le mani intrise di sangue, e a quel punto alzò la testa e guardò il marito. Lo vide sorridere soddisfatto. Sul suo volto era stampato un sorriso beffardo, bestiale, crudele che contrastava con la pietà dell’animale morente. Cercò nel viso dell’uomo qualche tratto di umanità, ma si accorse di non trovarlo. Seppellì l’animale sotto un ciliegio in fiore. A settembre arrivarono le piogge. Quel giorno Angela si era alzata di buon mattino, aveva preparato qualcosa da mangiare per i figli, aveva impastato il pane, portato a pascolo le capre, messe a dimora i semi per l’orto. Più tardi preparò la cena e aveva messo a letto i bambini. Una delle tante giornate di una drammatica esistenza. Quindi travasò dell’olio e mise i panni ad asciugare vicino al fuoco. Mangiò in piedi un po’ di pane e formaggio e mise sul tavolo la cena e il vino per il marito. La pioggia cadeva a dirotto e lei andò nella stalla a chiudere bene la porta. Il marito arrivò più ubriaco del solito. Era grosso, violento, brutale, forte come un bue mai domato dalla fatica. Trovò la donna nella stalla e, con la scusa della cena, la picchiò utilizzando una corda della bardatura dell’asino. Poi la buttò come uno straccio nel fango della stalla e la violentò. Quindi con soddisfatta arroganza si alzò barcollando, rientrò a casa, trovò il letto e si addormentò. Qualche ora dopo qualcuno bussò alla porta della caserma del Paese. I carabinieri aprendo, videro dinanzi ai loro occhi una donna piccola, quasi svanita nei vestiti fradici di acqua e intrisi di sangue. Era circondata da sei bambini con gli occhi pieni di terrore. Portava sotto il grembiule un’accetta ancora sporca di sangue, di capelli e di frammenti di ossa. Nei suoi occhi brillava un’inquietante luce di libertà. Ilario Ammendolia