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 2016  giugno 15 Mercoledì calendario

“DALLA PISCINA VUOTA AL CARCERE. ECCO COME È ANDATA DAVVERO”




Pubblichiamo un’anticipazione del libro di Fabrizio Corona, edito da Mondadori. In quasi 200 pagine ripercorre la sua vita tra belle donne, moda e soldi facili

Ditemi cosa non devo fare, e io lo farò. Ditemi: “Non correre, non arrampicarti, non buttarti”. Ditemelo come ora, un coro di voci che urla. “Ti ammazzi, ti spacchi la testa”, ditemelo e non vi ascolterò. Divisa blu del Kinderheim, come tutti gli altri. Solo che gli altri sono al sicuro di fronte all’edificio, gregge ubbidiente. Io invece sono sul trampolino, e vi assicuro che da quassù il mondo è diverso – quanti saremo quest’estate, trenta, quaranta? –. I bambini della Milano bene, sancarlini, sanbabilini. Bambini fortunati, con un grande futuro davanti: avvocati, industriali, giornalisti. Il mondo è nostro, i nostri padri lo hanno consegnato a noi, e noi non dobbiamo far altro che usarlo. La strada è stata tracciata: basta seguirla. Kinderheim di Cervia, inizio luglio, mamma e papà sono ancora in città a lavorare. Il coro di voci alle mie spalle aumenta: “Pazzo, incosciente, imbecille”. Io non sento niente, tranne la mia voce che dice: “Tu sei diverso. Tu il mondo non lo prendi in consegna, lo crei”. Eccomi qui a guardare dritto di fronte a me – che sia questo orizzonte indefinito il futuro? Da quassù è tutta un’altra cosa, una vertigine infinita –, eccomi alzare le braccia al cielo e tuffarmi di testa.

Tutto gratis e la ragazza del momento

Mi chiamo Fabrizio Corona, ho quarantadue anni, e questa è la storia di come sono finito in galera. Dall’inizio. E l’inizio è qui, a nove anni, in questa piscina vuota.

“Sai chi sono io?”, chiedo. Egon von Fürstenberg, Naomi Campbell, Gianni Versace. “Sai chi sono io?”, ripeto. Antonio Cabrini, Enrico Ruggeri, Cindy Crawford. Le mani infilate in guanti di almeno cinque misure più della mia. Ci troviamo alla festa evento più importante di Milano, per il compleanno di Moda, a Palazzo Reale, diretta su Rai Uno, collegamento tv con le quattro capitali della moda: Parigi, New York, Los Angeles, Tokyo.

È la festa di mio padre, voluta e organizzata da lui, un momento che sancisce la nascita ufficiale del decennio della moda. Nessuno mai dimenticherà quella serata. “Sai chi sono io?”, domando di nuovo in mezzo alla folla, stavolta a Loredana Berté, Elio Fiorucci, Oliviero Toscani. “Il figlio di Vittorio Corona”. E dunque: quali privilegi comporta questo? Perché c’è un ragazzino che lo sbandiera con orgoglio? Che cosa significa essere il figlio di Vittorio Corona nel 1986? Innanzitutto, significa tutto gratis; significa aprire la porta di casa e ritrovarsi davanti la ragazza del momento, quella su ogni copertina, Anna Falchi; significa che un giorno papà ti può dire: “Lunedì andiamo a Los Angeles”.

Il carisma della persona più importante

Vittorio Corona, mio padre, è un uomo alto e robusto. Schiena dritta e spalle larghe, grazie al nuoto praticato fin da bambino. Capelli e occhi scuri, mascella squadrata. Il tipico maschio alfa, capigliatura folta, faccia vissuta. Disinvolto, affabile, scaltro, sa affascinare e intriga uomini e donne. Chiunque, più alto o più basso, dalla sfolgorante bellezza o trasandato, noto o sconosciuto, chiunque ne riconosce il carisma. C’è una foto di lui che firma un autografo a Sylvester Stallone. La luce dei riflettori è puntata su Vittorio Corona, anche se di fianco c’è Stallone (già famoso per Rocky III e Rambo 2). Non si tratta solo di carisma, è anche una questione di empatia.

Vittorio mostra un interesse particolare per il prossimo. Chiunque percepisce che Vittorio Corona ti rivolge un’attenzione speciale, sì, proprio a te. Lui riceve tutti, ascolta richieste e necessità di ognuno. Solo che in una stanza piena di gente, magari durante un evento pubblico, ci sono tantissimi te da riconoscere… come si può pretendere che li ricordi tutti? Di questo la gente si lamenta: “Non mi ha salutato”, dice. Da qui la sua fama di genio ma lunatico, di fuoriclasse ma spietato. La verità è che ha poca memoria per i visi, tutto qui. Poi, certo, sa essere anche molto duro. Quando si arrabbia non alza la voce, gli basta guardare dritto in faccia l’interlocutore; quando si arrabbia parla in siciliano, e le persone ammutoliscono. Il 10 aprile 1986 saliamo sul volo Roma-Los Angeles, scalo a New York. Prima classe. Siamo io, mio fratello Francesco e papà. Francesco dice di aver lasciato una lettera per Cristina, la fidanzata, dovesse mai cadere l’aereo: “Ti amerò per sempre”, le ha scritto. E io? Io non ho lasciato nessuna lettera. Non sono fidanzato, alle donne non ci penso. E se quest’aereo dovesse mai cadere – mi accoccolo sul sedile, occhi socchiusi, cercando di prendere sonno –, pazienza. La persona più importante è qui di fianco a me, mio padre.

Il predestinato è mio fratello, ma non ho paura

Ho dodici anni, ma ne dimostro meno. Magrolino e timido, è difficile dire cosa ci sia nella mia testa. È più facile dire quello che non c’è. Non ci sono timore, smarrimento, complessi di inferiorità. Accetto che il predestinato in famiglia sia Francesco, il mio fratello maggiore. Lui, che gioca a calcio come centrocampista, farà il modello e conquisterà il mondo. È lui l’erede diretto di Vittorio, così pare (…). La cosa non mi spaventa – mi sistemo ancora meglio su questo sedile di prima classe, la testa sulla spalla di papà – niente mi spaventa. Il mio ideale da imitare è Vittorio Corona, voglio diventare come lui. E non ho bisogno dell’aiuto di nessuno. (…)