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 2016  giugno 15 Mercoledì calendario

BREXIT, ECCO I COSTI OCCULTI DELL’ADDIO DI LONDRA ALL’EUROPA


“Questa è la nostra ultima occasione di sottrarci alla macchina anti-democratica di Bruxelles... è ora di approfittarne”. Per il Sun, tabloid di Rupert Murdoch poco intellettuale ma molto letto, votare leave, cioè l’uscita, al referendum di giovedì prossimo è una questione di principio. Brexit, l’addio all’Unione europea dopo 43 anni di tormentata appartenenza, è uno scatto di orgoglio, una proclamazione di indipendenza. “Brexit riguarda la supremazia del Parlamento e nient’altro”, scrive un’altra voce euroscettica ascoltata, il columnist del Daily Telegraph, Ambrose Evans-Pitchard. Per molti altri, però, la Brexit è una questione di soldi. La campagna del leave ha puntato molto sui risparmi per i contribuenti inglesi e le potenzialità economiche che si aprirebbero. Considerare tutti i costi, anche quelli nascosti, però, è difficile. Vediamo perché.

I CONTRIBUTI ALL’UE. La Gran Bretagna è un contribuente netto dell’Unione, cioè versa più contributi di quanti trasferimenti riceve come sussidi e co-finanziamenti, nonostante lo “sconto britannico” ottenuto nel 1985. Ogni anno gli inglesi pagano a Bruxelles 11,342 miliardi di euro e ricevono trasferimenti per 6,985 miliardi. Uscendo dall’Unione, quindi, gli inglesi risparmierebbero 4,457 miliardi. Ma ci sono i costi nascosti. Primo: il contribuente inglese medio risparmierebbe, ma chi beneficia oggi perderebbe all’improvviso il flusso di denaro che riceve. Un esempio: il governo della Scozia ha appena ricevuto 70 milioni per l’economia circolare (riciclo dei prodotti e allungamento della loro vita) e 60 milioni per progetti per l’occupazione dei giovani. Gli scozzesi dovrebbero sperare che il Parlamento di Londra assegni loro trasferimenti dal bilancio pubblico di pari entità.
Anche i sostenitori del leave contano di negoziare, dopo l’uscita, accordi commerciali con l’Ue nell’ambito della Efta (European Free Trade Area), per non perdere l’accesso al mercato unico europeo che assorbe il 47 per cento dell’export inglese. Stare nell’Efta ma non nell’Ue, come la Norvegia, ha però un costo: i Paesi membri contribuiscono ai costi operativi (cioè delle varie politiche o programmi) e amministrativi dell’attività dell’Ue nella quale sono coinvolti. I negoziati tra Londra e Bruxelles dopo l’uscita dovranno stabilire anche queste somme.

IL COMMERCIO. Non tutti gli osservatori sono catastrofici.
Nella sua insolita visita a Londra, il presidente americano Barack Obama si è schierato contro la Brexit e ha chiarito che la Gran Bretagna sarà un partner commerciale secondario rispetto all’Ue. I tifosi dell’addio lo considerano un bluff, scommettono sul fatto che libera dai vincoli europei ma comunque inserita nella cornice del Wto, l’organizzazione mondiale del commercio, Londra possa trovare nuove opportunità. Secondo i calcoli dell’economista della London School of Economics, Swati Dhingra, la Gran Bretagna ha finora beneficiato della liberalizzazione del commercio proprio più degli altri Paesi europei: grazie agli accordi commerciali con partner extra-Ue, i prezzi (aggiustati per la qualità) sono scesi del 36 per cento per i consumatori inglesi contro il 14 per cento sperimentato dal consumatore europeo medio. Quando un Paese entra nell’Unione, finora ha visto crescere del 20 per cento gli investimenti diretti dall’estero. Se l’uscita comportasse un effetto analogo ma di segno opposto, il calo di investimenti stranieri costerebbe 453 sterline a famiglia, sempre secondo i conti di Swati Dhingra.

INSTABILITÀ E SVALUTAZIONE. Anche gli analisti più prudenti prevedono una fase di incertezza dopo la Brexit. “Non ci sono ragioni per cui precipitino le Borse o perché si pensi che finisca il mondo”, ha detto ieri l’ex premier Romano Prodi, più preoccupato perché un’Europa con le porte girevoli e senza Londra sarà ancora più controllata dalla Germania.
La Gran Bretagna ha però un deficit commerciale del 7 per cento, importa molto più di quanto esporta. Dopo l’uscita dall’Ue, con un immediato calo di investimenti dall’estero, sarebbe inevitabile una svalutazione. “Una riduzione del valore della sterlina del 12-15 per cento come stimato dal Tesoro britannico è un buon termine di paragone”, ha commentato Lorenzo Codogno, già capo economista del ministero del Tesoro italiano, non incline al catastrofismo. Codogno sottolinea che le stime del Tesoro britannico, quelle “ufficiali” nel dibattito su Brexit, sono “a politiche invariate” mentre è lecito aspettarsi che governo britannico e Banca centrale inglese qualcosa faranno. Ma la svalutazione della sterlina avrebbe conseguenze globali, in un contesto monetario già complicato: “È questo il canale attraverso cui Brexit potrebbe cambiare da un thriller economico a una commedia dell’orrore”.