Francesco Longo, 11 - Rivista Undici 6-7/2016, 15 giugno 2016
WIMBLEDON– [I COLORI]
Purezza e innocenza. Destino capriccioso e incontrollabili fatalità. Tutti i valori di Wimbledon sono presenti nei colori che strutturano il grande rito. Il bianco dei tennisti allude sempre al candore, alla verginità, alla pulizia. È bianco tutto ciò che rimanda alla trascendenza, come la luce divina e gli angeli (nell’edizione del 2007 Maria Sharapova giocava con due ali di trine sulla schiena). Sono bianchi gli abiti dei battesimi e i vestiti immacolati delle spose, bianchi sono i vecchi diventati saggi, le barbe dei druidi e le chiome dei maghi in contatto con gli spiriti. Per tradizione e regolamento devono indossare divise candide i tennisti di Wimbledon, il torneo di un Club che si autorappresenta con due colori, il verde e il viola – colore della penitenza, dell’Avvento e della Quaresima.
Al torneo di Wimbledon tutto prova a restare immutato. Il Centre Court, che ospita le finali, è stato edificato nel 1922. Wimbledon resta l’ultimo dei quattro Slam a non aver abbandonato l’erba. Le palline bianche hanno resistito più che altrove: le comete gialle si sono imposte qui soltanto nel 1986. Per i vestiti resta ancora l’obbligo della divisa bianca, l’innocenza perduta, o forse il lusso e la ricchezza che si nascondono nella sobrietà. Il regolamento spiega che «il bianco non comprende il bianco sporco, né il crema». È ammessa solo una striscia di colore sul collo o maniche ma spessa al massimo un centimetro. Non si fanno sconti a nessuno. Nel 2013 il re Roger Federer dovette sostituire le scarpe dopo la prima partita perché la suola arancione violava il dress code. Ancora nel 2015 una spallina nera del reggiseno della canadese Eugenie Bouchard generò scandalo e la tennista rischiò l’accusa di eresia. Wimbledon combatte una grande battaglia contro il tempo, forse proprio perché il tempo comporta la trasformazione dei colori, ancestrali sigilli delle identità nelle bandiere, nei vessilli e negli stemmi di tutto il mondo. Gli scontri leggendari che avvengono tra le linee di fondo campo non sono altro che la parabola che va dal verde al giallo. L’erba brillante del prato tirato a lucido della prima giornata di gara si logora giorno dopo giorno. Il prato del Centre Court, dove è vietato allenarsi, ingiallisce, si stinge, alla fine tutto si compie sopra un prato spelacchiato e pallido, dove la lucentezza del manto estivo è stata corrosa da suole che hanno tirato via il colore e dal sole che ha bruciato i fili d’erba. Alla fine, quando l’oro del trofeo concentra su di sé tutta la luce di luglio, il terreno è di un giallo slavato – giallo come la malattia e l’autunno – e la liturgia è terminata.
Nella scarna tavolozza dei colori di Wimbledon è però il verde il suo emblema più immediatamente identificativo. Sarà che nel verde, scriveva Johann Wolfgang Goethe, «il nostro occhio trova un autentico appagamento». Il verde è il concentrato del torneo non solo per la sua ricorrenza cromatica, a volte quasi una ridondanza, ma per la sua azzeccata dimensione simbolica. Il verde è sempre stato un colore chimicamente instabile sia nella pittura che nella tintura. Proprio per questa sua natura volatile è il primo colore a sciuparsi rispetto agli altri, si altera e va via prima di tutti. Per Michel Pastoureau, storico dei colori, il verde «rappresenta tutto ciò che si muove, cambia, varia». Nulla si addice dunque di più del verde a restituire l’essenza stessa del tennis: «Il verde è il colore del caso. Del gioco, del destino della sorte, della fortuna». Come il tennis, infatti, il verde è storicamente il luogo della suscettibilità e della propensione al variare. Esattamente come il carattere dei giocatori, l’andamento delle partite e delle carriere tennistiche, il verde è ambivalente, oscilla tra speranza e crudeltà, tra la rappresentazione della bontà e quella dei diavoli, nella tradizione è stato associato a tutto ciò che è «capriccioso come la giovinezza, la fortuna, il destino». Per quanto riguarda gli sport all’aperto su prato «la sua funzione è duplice, a un tempo pragmatica e simbolica: da una parte attutire le cadute, addolcire i colpi; dall’altra rammentare che la sorte di una partita viene decisa su una superficie verde – e ritroviamo qui una delle più antiche dimensioni simboliche del verde come colore del destino. Che si tratti di prati su cui si svolgono ordalie e tornei medievali, di tavoli da gioco o di tappeti verdi (...) il significato non cambia: su una superficie verde si fa una scelta, si definisce un destino, la fortuna decide da che parte stare».
Tuttavia, per capire Wimbledon dai suoi colori basterebbe forse parlare del grande assente: il rosso. La terra del parigino Roland Garros è il colore più appariscente di tutti e desideroso di essere visto, stonerebbe troppo con la sprezzatura British. Il rosso si porta dietro una scia di violenze e peccati, inevitabilmente marchiati come scarlatti, che sull’erba non devono essere neanche evocati. Di quei campioni di Wimbledon che non riescono a vincere il Roland Garros si dice abbiano “allergia al rosso”. Per i riformatori protestanti il rosso è immorale, la grande prostituta di Babilonia, evocata nell’Apocalisse, e vestita di rosso. Il colore della rivoluzione è inammissibile nel tempio della tradizione.
Se i colori garantiscono 1’architettura morale e lo spirito imponderabile del gioco, è chiaro che il vero nemico del torneo sia la pioggia, il maltempo. Quando le nuvole spingono il grigio in tutte le direzioni, ogni certezza vacilla. L’incertezza cromatica delle nubi né bianche né nere, è quanto di più subdolo possa introdursi nel torneo. In una commedia di Aristofane, le Nuvole sono divinità potenti elle rendono capaci di «incantare e raggirare», promettono cioè vittoria grazie all’inganno: «otterrai ciò che brami», assicurano. La pioggia e l’oscurità infatti influenzano la luce e i riflessi al punto da stordire tutti e interrompere i match. È sconveniente proseguire quando i colori si mescolano, quando il cielo cessa di essere blu e il sole smette di essere giallo, e in particolare quando il crepuscolo confonde le ombre (si potrebbe scrivere una storia di Wimbledon raccontando solo le ombre, che come in tutti i teatri vorticano sempre per ricordare la presenza di lati oscuri, minacce, trame segrete, e per avvertire che nei duelli si combatte sempre anche contro il proprio doppio).
«Il colore si presta all’impiego anche per determinati scopi sensibili, morali, estetici», diceva Goethe. Non sapeva che nella “colonia vittoriana” di Wimbledon, pur di épater les bourgeois gli affronti sarebbero passati anche da sfide cromatiche. Ma alla fine, anche i più ribelli, come il variopinto Andre Agassi, sventolano bandiera bianca, segno di pace, di rinuncia e di resa: sono lontanissimi i tempi in cui, come ricordava nella biografia Open, Agassi pensava: «Non mi piacciono le regole e tantomeno quelle arbitrarie. Perché mi devo vestire di bianco? Non voglio vestirmi di bianco. Perché a questa gente dovrebbe importare cosa mi metto?». Tutti cedono al white dress rule pur di essere ammessi al bianco dell’eternità e del paradiso.
Ogni anno Wimbledon promette rigenerazione. Invita a togliersi di dosso non solo la terra rossa di Francia e degli altri tornei, ma suggerisce ai tennisti, costringendoli a indossare le loro vesti incontaminate, di gettare alle spalle gli errori di un’intera stagione o addirittura i fallimenti di una vita: «Riconosco la mia colpa, il mio peccato mi sta sempre dinnanzi» – dice il Salmo 51 – «lavami e sarò più bianco della neve».