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 2016  giugno 15 Mercoledì calendario

IL FUTURO A SETTANT’ANNI– [Fabio Capello] Fabio Capello si accomoda e spegne il cellulare. «Ci mettiamo poco vero? Comunque sia io lo spengo»

IL FUTURO A SETTANT’ANNI– [Fabio Capello] Fabio Capello si accomoda e spegne il cellulare. «Ci mettiamo poco vero? Comunque sia io lo spengo». Poco diventerà una chiacchierata di 43 minuti e 37 secondi. Sul calcio, su come è cambiato, sul senso del tempo che come si capisce è una variabile fondamentale nella sua vita, poi sulla televisione, sui campioni, sugli allenatori, sui palloni. Quindi sul calcio, che poi è il motivo per cui quella variabile fondamentale che è il tempo può avere deroghe. Perché Capello adora parlare di calcio. Lo fa con un piacere che supera il fatto che sia la sua vita. Giocatore, allenatore, commentatore tecnico per la tv, opinionista. Che cos’è oggi? In realtà è tutto, perché si sente tutto. E lo capisci proprio da quel piacere che dimostra al di là di quanto la durezza lasci pensare prima di incontrarlo. Studia, si documenta, si confronta. Che cosa c’è oggi? Chi c’è? Un nuovo calciatore o una nuova idea tattica. La scoperta continua e probabilmente del futuro, dell’idea che ci sia ancora qualcosa da vedere, persino da imparare. Perché a 70 anni non parla mai di passato. Non conosce la nostalgia, o quantomeno non la manifèsta: «Ho ricordi, non rimpianti. Ho fatto molte cose, ma penso sempre a quella che sto facendo adesso. Anzi possibilmente a quella che farò domani». Si sente più allenatore o commentatore televisivo? «Allenatore. Sempre allenatore. È la mia vita. La tv è un piacere e un impegno. L’ho sempre fatta, anzi sono stato tra i primi. Ricordo la prima telecronaca, Juventus-Derby County. Ero la seconda voce di Ettore Andenna. Erano tempi particolari, tutto molto diverso rispetto a oggi. Dovevamo inventarci di tutto: non avevamo neanche le formazioni, spesso. Per riconoscere i calciatori usavamo le figurine. È stato un momento pionieristico. Adesso si sa tutto prima: hai informazioni, conoscenze, puoi approfondire. Il piacere di raccontare e di godersi il calcio è lo stesso». Che piacere prova a guardare il calcio di oggi? «Dipende da dove sei quando lo guardi. Allo stadio l’atmosfera ti aiuta a capire meglio anche che cosa una squadra o un calciatore provoca nella testa e nella pancia dei tifosi. In tv, o in uno studio, c’è un approccio diverso». Italia o estero? «Estero. E guardi non è soltanto una questione di meno polemiche, meno stress, meno parole. C’è quello, ma non credo sia determinante. Almeno non lo è per me. All’estero oggi si trova un calcio migliore: più tecnico, più veloce, più fisico, più innovativo. Poi lo conosco: stando qui a Fox ho seguito tutti i campionati, tutti i calciatori. E vedo un’evoluzione più chiara e più definita rispetto a quanto accade in Italia». Il gap tra il calcio italiano e quello internazionale dipende soltanto dal fatturato? «Il fatturato aiuta sul mercato. È importante, ma non è tutto. E non è l’unico fattore che fa la differenza. Io credo che la vera differenza sia nella velocità di capire i cambiamenti: quelli tecnici e quelli economici. È una mentalità diversa: la consapevolezza che bisogna dare di più, bisogna fare di più. Ecco, se vogliamo colmare la distanza che ci separa dai campionati più importanti dobbiamo dare anche noi di più, dobbiamo anche noi fare di più». È cambiato il calcio negli ultimi dieci anni? «Molto. I difensori cercano di giocare di più. È aumentato il possesso palla: prima si accettava che gli avversari giocassero il pallone, adesso tutti i grandi club cercano di dominare il gioco attraverso il possesso. Poi ciascuno lo fa a modo suo, perché c’è possesso e possesso. Ma la tendenza è univoca. E poi sono cambiati i palloni, forse è la cosa che ha modificato di più il gioco: si segna di più, si fanno giocate più spettacolari». Ha mai nostalgia del passato? «Mai. Io ho sempre guardato avanti. E lo faccio anche oggi. Il passato è passato». Ha 70 anni. Ricorda con più piacere il Capello calciatore o quello allenatore? «Guardi, nessuno dei due e tutti e due. Come le ho detto, guardo sempre avanti. Ho passato tutte le stagioni della vita e spero di passarne ancora. Quelle che ho vissuto sono state belle, piene, affascinanti». Chi è l’allenatore dal quale ha imparato di più? «G.B. Fabbri. Era un uomo che viveva nel futuro. Mi allenò nella Spal e mi fece capire il più semplice, e contemporaneamente il più difficile, tra gli insegnamenti: che per vincere le partite bisogna mettere in condizione i compagni, specie gli attaccanti, di arrivare davanti alla porta in una posizione buona per fare gol. Sembra elementare, invece da allenatore le dico che è complicato. Poi non posso non ricordare Helenio Herrera: era in grado di tirare fuori tutto quello che poteva dare un calciatore, anzi più di quanto quel calciatore pensava di poter dare. Anche lui era avanti. Alla fine degli anni Sessanta usava già metodi di allenamento e di valutazione dei singoli per i quali oggi vengono scomodati computer, applicazioni e professionisti di ogni genere. È stato davvero un grande». Berlusconi recentemente ha ricordato con affetto i giorni in cui la scelse per allenare il Milan. Lei che ricordo ha? «Un periodo bellissimo. Ho vissuto momenti incredibili, a cominciare dal giorno della chiamata. Mi comunicò la sua decisione, ero sorpreso ed entusiasta. Chi è il giocatore più forte con cui ha giocato? «Gianni Rivera, non ho dubbi. Riusciva a fare semplicemente le cose che gli altri non riuscivano neanche a vedere. E con tutti e due i piedi. Un fenomeno di tecnica e intelligenza calcistica». La definiscono un duro. È vero? «Noi facciamo un lavoro meraviglioso, e ci divertiamo a farlo. Lavoriamo tre ore al giorno, percepiamo stipendi significativi e godiamo di una grande popolarità. Siamo dei privilegiati. Se a fronte di questo io chiedo impegno e serietà, sono un sergente di ferro? Sono un duro? È un lavoro bellissimo e io non accetto che si facciano capricci. Penso sempre alla fatica di quelli che, in condizioni ben diverse dalle nostre, rispettano i loro impegni e i loro doveri. Io sono fatto così». Quali sono i giocatori migliori che ha allenato? «Ci penso un secondo. Certamente Van Basten, Gullit, Raúl, Baresi e Maldini. E poi Gigi Buffon, un vero campione. Ah, stavo dimenticando Totti. E non si può dimenticare Totti». Favorevole o contrario all’uso dei big data nel calcio? «Favorevole, con intelligenza. Nel senso che ci sono dati utili e dati superflui: bisogna capire quali servono e a chi, perché non c’è una regola che va bene per tutti. Negli anni abbiamo capito chiaramente che ce ne sono alcuni, per esempio, che sono soltanto curiosità. Uno è appunto il possesso palla, di cui abbiamo già parlato». Senza classifiche, mi dice un aggettivo per ciascuno di questi allenatori? «Guardiola: innovativo. Ancelotti: grande. Mourinho: stratega. Simeone: determinato. Klopp: tedesco. Wenger: francese». Caso Ranieri. Lei lo ha seguito da vicino. Che cosa è stato? «È stato qualcosa di incredibile. Mi ha fatto venire la pelle d’oca, e non sono un tipo facilmente impressionabile. Mi sono emozionato quando ho visto gli applausi dei tifosi dello United nei confronti del Leicester: i tifosi avversari hanno apprezzato e mostrato che il Leicester ha meritato di vincere questo campionato. Ranieri ha dimostrato che la cultura del lavoro paga, che avere un’idea paga, che portarla avanti paga. L’hanno definito un miracolo, e forse lo è. Ma nel calcio i miracoli sono sempre frutto di qualcos’altro». Allenatori italiani. Chi l’ha colpita di più? «Allegri, per la rimonta. Come avevo previsto la partenza di tre giocatori leader ha pesato, eppure Allegri è riuscito a integrare in fretta i nuovi nel tessuto della Juve. È stato aiutato dai senatori, ma è stato bravissimo. Un altro nella sua situazione a un certo punto avrebbe smesso di crederci, lui è stato eccezionale a tenere duro. Poi Sarri: oggettivamente ha fatto un grande campionato, in un ambiente che non è assolutamente facile. E Spalletti per come è tornato nella Roma in una situazione complessa». Il caso Spalletti-Totti come lo giudica? «Non lo giudico. Non si può sempre stare da una parte o dall’altra. Sto dalla parte di tutti e due. Totti pensa di dare ancora molto e quindi ritiene di meritare ancora un contratto per quello che ha dato alla società, quindi va ascoltata con rispetto questa sua richiesta. Sto anche dalla parte di Spalletti, perché deve mettere in campo la miglior formazione possibile. Sto con tutti e due con rispetto per Totti, per quello che ha fatto per me e per la Roma». Che giudizio ha di Totti? «Francesco è una persona buona e onesta. Come giocatore, tecnicamente, è super, vede il gioco, anzi lo prevede, in modo incredibile». Come erano i suoi rapporti con lui? «Buoni. Io volevo che lui giocasse un po’ più avanti, da centravanti. E credo sia ormai chiaro a tutti che era quella la sua posizione giusta. Mi chiedevano perché sostituissi talvolta Montella e lasciassi sempre in campo Francesco. Vincenzo era fantastico nel risolvere le partite dall’area di rigore, ma Francesco con una punizione o una giocata di fantasia, in qualsiasi parte del campo, poteva, e può, cambiare il risultato. E l’ha dimostrato anche quest’anno». I giovani. A inizio anno ha detto che si aspettava grandi cose da Bernardeschi, Romagnoli e Dybala. Ora che dice? «Dybala è stato quello che mi ha colpito di più. Perché probabilmente aveva il compito più complesso individualmente: entrare in una squadra perfetta ed entrarci sostituendo un calciatore che aveva contribuito a renderla perfetta. Temevo che pensasse troppo alle giocate, all’idea di dimostrare di essere da Juve. Invece ha capito che il massimo avrebbe potuto darlo giocando con gli altri, per gli altri. Ora è pronto a fare il salto tra i grandissimi. Bernardeschi è partito bene, poi s’è un po’ perso. Romagnoli, invece, aveva il compito più difficile dal punto di vista collettivo. Entrava in una squadra precaria e che ha dimostrato di essere precaria. Sta dimostrando qualità, ma non è ancora giudicabile davvero». E per gli stranieri? Chi l’ha colpita di più? «Kane e Alli del Tottenham. Sono due calciatori giovani che giocano come veterani. Velocità, forza, intelligenza, concretezza. Non c’è mai una giocata fine a se stessa. Negli ultimi tre anni, comunque, il calciatore più interessante in assoluto è stato Neymar». Perché? «Perché è un fuoriclasse che è stato in grado di cambiare il suo stile di gioco. Ha capito che in una squadra come il Barcellona, in una squadra con Messi, devi cercarti il tuo spazio. L’ha trovato. Lo criticavo, non mi piaceva il suo modo di essere, di tuffarsi appena lo toccavano. Oggi è un calciatore vero: usa la classe al servizio di sé e della squadra. Non spreca un dribbling. E segna di più. Non è un caso». Ma tra Neymar, Messi e Suárez di chi è stato il Barcellona quest’anno? «È stata la stagione di Suárez. Nella Liga ha fatto 40 gol, ha fatto più assist di tutti. Ha dato carattere e determinazione, si è scatenato e ha segnato diverse reti importanti in fila, quando il Barcellona non stava giocando benissimo». Ha detto: Lewandowski non è un soltanto un calciatore... «Un giocatore tecnicamente completo, uno di quei centravanti che tutti gli allenatori vorrebbero avere in squadra. Lui sa muoversi negli spazi, ha una tecnica di primissimo livello, è bravissimo di testa e poi ha l’intuito del gol. Ma la sua forza è sul movimento senza palla. Lui sa capire dove va la palla prima dell’avversario ed è anche un giocatore altruista, non vede solo la porta, fa qualche cosa di più, quello che non tutti i giocatori fanno. Io ho allenato Van Basten. Lewandowski mi ricorda Van Basten perché come lui aveva questa qualità di capire se poteva segnare o passare la palla al compagno meglio piazzato. E qualche cosa di diverso rispetto a un goleador. È di più. È il più grande acquisto che ha fatto il Bayern Monaco». Che cosa troverà Ancelotti a Monaco? «Carlo ha potuto studiare tranquillamente il Bayern Monaco e cercherà di portare innovazioni perché ovunque è andato ha sempre cercato di portare novità di gioco. Probabilmente metterà un po’ più di fretta nella verticalizzazione perché lui è della scuola di Liedholm. La Bundesliga gli darà tempo di attuare queste modifiche perché da allenatore intelligente e da persona che studia molto bene quello che ha in casa riuscirà a creare quell’ambiente fantastico che è riuscito a costruire in tutte le squadre dove è andato. E i giocatori lo seguiranno. Credo che nella Bundesliga ci sarà qualcosa di nuovo, di più svelto con Carlo». Meglio allenare un club o una Nazionale? «Ci sono pro e contro in entrambi i casi. Io non credo che un allenatore debba precludersi l’una o l’altra possibilità. Dipende sempre dal progetto che viene proposto». E c’è un progetto che oggi affascina Fabio Capello? «Guardi: io sono felice qui. Sono felice a Fox Sports. Ho riscoperto il piacere di fare la tv e di parlare di calcio liberamente. Qui posso essere aggiornato su tutto, vedo l’evoluzione del calcio più che se fossi su un campo». Ha avuto proposte? «Sì, ne ho avute diverse, ma nessuna che al momento mi abbia convinto fino in fondo. Se ci sarà la prenderò. Sono un allenatore, gliel’ho detto all’inizio». Ha rimpianti? «Neanche uno». C’è una città che ricorda con più affetto? «Quelle in cui ho vissuto». E c’è una città in cui andrebbe? «Quelle in cui ho vissuto».