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 2016  giugno 10 Venerdì calendario

NELLA FABBRICA 326, OLTRE LO “SPECCHIO” DELLA DITTATURA

Prima impressione di Pyongyang: una città dai viali larghi, palazzi di edilizia popolare un po’ malridotti ma con i terrazzi, marciapiedi spaziosi e solcati da piste ciclabili, un bel lungofiume alberato, traffico scarso e disciplinato. Sparsi qua e là archi di trionfo, obelischi, quadri enormi del fondatore della dinastia Kim Il Sung e del primo successore, il figlio Kim Jong-il, entrambi morti ma sempre presenti sul cuore dei loro inconsolabili concittadini: sorridono sotto forma di spilletta smaltata dalle giacche grigie o nere di tutti gli uomini e tutte le donne. Con il passare delle ore questa capitale da tre milioni di abitanti della Repubblica Democratica Popolare di Corea ti allontana dal resto del mondo, dà un assurdo senso di claustrofobia. Mancano i rumori, nessuno si affaccia ai balconi, si incrociano file di nordcoreani in marcia e sembra che nessuno parli con nessuno.
La sensazione di ansia, per un giornalista straniero, è accresciuta dalla presenza continua di un funzionario accompagnatore-controllore. Il compito principale è di indirizzare verso “fabbriche modello”, “fattorie modello”, “scuole modello”, “quartieri modello”.
Stazione della metropolitana Bu Hung (Prosperosa), una delle meraviglie di Pyongyang, scavata 100 metri sotto il livello del suolo per servire anche da rifugio nucleare. Conto il tempo di discesa della scala mobile: 2 minuti e 15 secondi, che sembrano anche più lunghi perché come nelle strade nessun nordcoreano ha voglia di parlare e il silenzio dice molto sul regime di paura. Lo stile della stazione-bunker è da socialismo sovietico, grandioso. Soffitto altissimo a volta, colonne con capitelli a torcia, lampadari policromi. I treni sono frequenti. Si vorrebbe salire, magari per fare un giro complessivo della rete metropolitana, due linee a X. Ma il gentile funzionario governativo dice che non si può. Perché, è vietato? «No, non si può». Passano diversi minuti e molti vecchi convogli, sto per andarmene quando la mia ombra dice: «Ora saliamo». Mi giro e vedo un treno con quattro vagoni nuovi fiammanti, bianchi con striscia rossa. Era quello che aspettavamo allora, un convoglio all’altezza della grande leadership del Rispettato Maresciallo Kim Jong-un (questo è il modo comune di nominare il terzo discendente della dinastia). La propaganda non voleva che prendessimo un vagone residuato della defunta Germania orientale. Quello che abbiamo preso è l’unico treno nuovo, prodotto in Nord Corea l’anno scorso per festeggiare il 70° anniversario della fondazione del Partito dei Lavoratori. «E quest’anno gli operai della fabbrica hanno giurato di costruirne altri 40, per celebrare il 7° Congresso del Partito, il primo da 36 anni», annuncia il funzionario.

Stakanovismo. Pyongyang è la vetrina del regime. I dirigenti sono molto fieri della Fabbrica di cavi elettrici 326. Non ci sono 326 fabbriche di cavi elettrici in Nord Corea ma solo questa: il numero celebra la visita del 26 marzo (del 1968) di Kim Il Sung (l’Eterno Presidente). A prima vista i macchinari sono rimasti gli stessi di allora. Vecchi pannelli di controllo ingialliti, gli operai che lanciano il carbone a palate in una fornace per raggiungere la temperatura necessaria ai processi chimici di produzione. La qualità dei cavi non dev’essere eccelsa: i balconi di Pyongyang sono punteggiati da pannelli solari montati dagli inquilini per uscire dal buio durante i frequenti blackout. Gli operai della 326 sono circa 1.300 e non si affannano troppo per spingere la produzione, appaiono rassegnati. Tutti quelli con cui abbiamo potuto scambiare qualche parola sono ex soldati sopra i 40 anni. Ryang Sung Chen è caporeparto, sta dritto quasi sull’attenti vicino alla fornace. Dura lavorare con questa roba superata? «No, i macchinari hanno solo 10 anni». Ma spalate carbone.
«Non è carbone, è carbonella». Com’è l’orario? «8 ore al giorno, 6 giorni a settimana». Ferie? «Ogni sei mesi 15 giorni». E che cosa fa? «Faccio sport e vado al mare». Dopo l’ultima risposta un sorriso che sicuramente è di soddisfazione per quello che gli dev’essere sembrato un interrogatorio (alla presenza del solito controllore-accompagnatore-traduttore dal coreano), ma che potrebbe essere preso anche per una presa in giro. La Corea del Nord ha condotto prima del Congresso del Partito dei Lavoratori una campagna di impegno produttivo: «70 giorni di Battaglia per il Progresso». Tutti i lavoratori hanno dedicato il massimo sforzo.
Ho chiesto a uno piccolo e secco, Wong Yong Ho, 45 anni, quattro sotto le armi («che è stato un grande onore»): «Nei 70 giorni ho raggiunto l’obiettivo di 6 mesi», ha risposto. E come ha fatto, ha lavorato senza mai fermarsi? «No, le stesse ore, solo mettendoci più forza».
Alla Fabbrica 326 è annesso un dopolavoro che sembra un health center occidentale di ottimo livello. Palazzina moderna su tre piani con spazi molto ampi, pavimenti lucidi. Comprende diversi bar, ristoranti, sala ping pong con tavoli da giocatori professionisti, piscina, sauna, barbiere, coiffeur, sale per biliardo e per la musica, palestra. Abbiamo provato a chiedere se tutto questo è davvero per le maestranze e non per ospiti privilegiati (le persone che sguazzavano in piscina non avevano l’aspetto di operai stanchi dal turno alla catena di montaggio e nemmeno la signora che si faceva pettinare i capelli lunghi). Ci hanno portato via un po’ bruscamente quando volevamo fare domande ai bagnanti. Ora vediamo la biblioteca con banchi per la lettura. Qui le tute blu sono vere, immerse in volumi non di evasione, ma di miglioramento della loro capacità lavorativa. Trattati di chimica ed elettronica nelle mani consumate di un lavoratore dal volto scarno e scuro che ha recitato: «Studio per contribuire ad accrescere la produzione come vuole il Rispettato Maresciallo Kim Jong-un e prima di lui l’Eterno Presidente Kim Il Sung». Una compagna si stava godendo uno dei molti volumi dell’opera omnia di Kim Il Sung: «Spiega i vantaggi del socialismo in politica ed economia, mi piace moltissimo». Una luce di speranza: un’operaia esile e carina con la tuta blu stirata ha un romanzo: «Mondo affascinante, di uno scrittore nordcoreano». Mi direbbe la trama? «Racconta il dolore del popolo per la morte di Kim Jong-il nel 2011 e poi la gioia grande per l’inizio della nuova era di Kim Jong-un». E ci sono storie d’amore in tutto questo affresco? Mi guarda stralunata e incredula: «Proprio no».

Ricordi ed emozioni. Ma la storia che mi ha colpito di più è di segno straordinariamente opposto: sono andato nella Strada Futuro, il quartiere di case per scienziati e professori «regalate» quest’anno da Kim ai più meritevoli. Grattacieli di vetro e acciaio lungo il fiume Taedong, vialoni con il prato curatissimo.
Prima tappa al 25° piano di un palazzo marrone a forma di cetriolo, vetri affumicati. Un appartamento sorprendente: tre camere da letto, altrettanti bagni, studio, salotto, soggiorno, sala da pranzo, terrazza veranda, cucina. Ci abitano in tre, dice la signora Om Hui Ok. «Non so come vivete voi, io non ho niente di cui lamentarmi, lo Stato pensa a tutto, ci dà questa casa, cibo, istruzione, stipendi che forse per voi sono bassi, ma noi non abbiamo niente di cui preoccuparci, non abbiamo niente da invidiare al mondo».
Tutto tirato a specchio, in ordine perfetto, d’altra parte bisognava impressionare i giornalisti stranieri. L’unica cosa fastidiosa è l’odore di sigaretta di cattiva qualità. Viene dalla cucina: seduti al tavolo bianco un funzionario nordcoreano (del gruppo che ci accompagna/controlla) e un giornalista russo che sembra uscito da un film della Guerra Fredda, con i mozziconi accesi e due birre in mano. Il segno del potere arrogante, l’abitudine al sopruso che non riesce a nascondersi nemmeno davanti a ospiti ai quali si vorrebbe presentare il meglio del regime.
Scendiamo al secondo piano, sfuggendo per pochi minuti all’accompagnamento forzato e sarà una bella sorpresa. La porta è aperta da una signora anziana con i capelli nerissimi di tintura e un sorriso da nonna dolce. Si chiama Pak In Son, classe 1937. Invita subito a venire in cucina: ha preparato cose buone per fare merenda, cetrioli con la soia, cavoli, una bibita. Una grande casa anche questa, per far vedere al mondo la generosità del regime con i lavoratori più fedeli. Per di più il signor Pak, professore di tecnologia, è stato combattente nella guerra 1950-1953, la giubba militare scolorita è appesa a una parete. Dopo aver visto tutti gli arredi che le ha permesso di avere la generosità di Kim, chincaglieria variopinta e cucina, frigorifero, televisore made in China, le ho chiesto che cosa ricorda della guerra.
Si è fatta più pallida. Ha detto che prima doveva sedersi, come se il ricordo le avesse tolto il fiato. Ed era proprio così, ha cominciato a parlare tra sospiri, parole che sembravano gemiti. «Avevo otto anni nel 1945 alla fine dell’occupazione giapponese e stavamo morendo di fame. Andavamo alla stazione di Pyongyang a frugare tra gli scarti lasciati dai soldati giapponesi, mi facevano schifo, ma mia madre mi ha imposto di mangiarli, perché altrimenti sarei morta. Poi avevo 12 anni nel 1950». Si ferma, le manca il respiro e questo non è preparato, servirebbe un’attrice da Oscar. E la signora ha le mani consumate di una donna che ha lavorato non nell’arte recitativa. «Non trovo le parole. Non so dirvi com’erano quei suoni di guerra, quelle bombe che distruggevano le case, uccidevano. Il rumore di noi in fuga. Mio fratello è stato ucciso e altri parenti sono scomparsi, non li ho più visti...».
Ecco, questa cosa non era preparata dalla propaganda. Le parole della signora Pak In Son, che vive nella Strada Futuro, mi hanno fatto pensare improvvisamente a quale potrebbe essere il futuro dei nordcoreani se si svegliassero dal sonnambulismo.

(1-continua)