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 2016  giugno 10 Venerdì calendario

LA GRAN BRETAGNA RESTERÀ IN EUROPA SOLO SE GLI INGLESI DECIDERANNO DI NON ANDARE DOVE LI PORTA IL CUORE

Una delle virtù del sistema britannico è quella di semplificare le scelte degli elettori. Al referendum sulla Brexit la domanda a cui i cittadini saranno chiamati a rispondere è chiara e banale: “Il Regno Unito deve rimanere membro della Unione Europea o lasciare l’Unione Europea?”
C’è un abisso con gli arzigogolati e incomprensibili quesiti che l’Italia ha conosciuto ogniqualvolta è andata alle urne per abrogare una legge. Ma dietro alla elementare formalità della scheda si nasconde una scelta che il 23 giugno può cambiare la storia politica e sociale del Regno Unito e dell’Europa perché l’eventuale addio di Londra al Vecchio Continente rischia di galvanizzare la galassia internazionale del populismo, di gettare nuova benzina sul fuoco degli egoismi nazionalisti già alimentati, a onore del vero, dai ripetuti fallimenti del progetto comunitario, dalla mancanza di una visione solidale, da una burocrazia istituzionale invadente.
La Brexit ha diviso trasversalmente il Paese e fare previsioni sull’esito della consultazione è difficile. Sulla carta lo schieramento europeista è davanti: la metà dei conservatori, i due terzi dei laburisti, i liberaldemocratici, i verdi, gli indipendentisti scozzesi, gallesi e nordirlandesi coagulano, in astratto, un pacchetto di voti che appare irraggiungibile e maggioritario. Contro ci sono lo Ukip di Nigel Farage, una parte dei tory con in testa l’ex sindaco di Londra Boris Johnson e un manipolo di ministri, affiancati da qualche voce isolata del centrosinistra.
Ma un conto è la fotografia in bianco e nero che fissa i numeri delle ultime elezioni politiche generali e che trasferendoli nella contesa referendaria la rende quasi scontata. E un altro conto è la fotografia a colori, più viva, che rappresenta gli umori, le paure, le delusioni, i volti della società britannica e che complica o ribalta ogni discorso.

La paura dello straniero. I temi attorno ai quali si decide il sì o il no all’Europa sono sostanzialmente due: l’economia e l’immigrazione. L’elettorato, specie nelle grandi aree metropolitane e a Londra in primo luogo, percepisce il pericolo del salto nel buio, cioè il passaggio da una situazione di rafforzamento del quadro macroeconomico interno (pur nell’austerità), avvenuto dal 2010 a oggi dentro i confini dell’Unione Europea, a una situazione di sostanziale imprevedibilità del domani fuori dal contesto europeo, specie per un milione e duecentomila piccole e medie imprese che vivono grazie all’import-export con l’Unione. Ma all’opposto pesa, particolarmente nel Nord inglese e nelle zone dove il lavoro scarseggia, dove il welfare appare troppo generoso e squilibrato, il risentimento contro coloro che sono considerati gli “usurpatori”, gli immigrati.
Dal settembre 2014 al settembre 2015, ultimi dati dell’Ufficio Nazionale Statistico, sono entrati 530 mila cittadini di nazionalità straniera, 257 mila dal blocco dell’Unione Europea (Italia al terzo posto, con oltre 50 mila, dopo Romania e Bulgaria) e 273 mila da altri Paesi. Complessivamente nel Regno Unito risiedono 3,3 milioni di europei (uno su tre vive a Londra), di cui 2,1 milioni occupati, e 5,4 milioni di non europei. I flussi crescono e con essi le preoccupazioni sulla loro sostenibilità. Una indagine svolta da YouGov ha certificato che per 75 britannici su 100 i livelli migratori sono stati e sono troppo alti e che 61 su 100 ritengono che debbano essere drasticamente tagliati. Non c’è dubbio che l’euroscetticismo tragga linfa da tali numeri e da tali sentimenti. L’interrogativo è: saranno sufficienti a spingere verso la Brexit?
I sondaggi, un anno fa quando c’era in ballo il rinnovo del Parlamento, furono clamorosamente smentiti. I rilevatori sostengono che le falle statistiche sono state ricucite e che le percentuali reali non si discosteranno di molto dalle previsioni, ovvero con il sì all’Europa ben sopra il 50 per cento, fra il 53 e il 56 a secondo degli istituti e a secondo delle metodologie. In ogni caso è bene sposare la cautela. Il margine degli indecisi si è ridotto, però restano due incognite enormi: quanti si esprimeranno? E i giovani parteciperanno o diserteranno?
Più che le ricerche divulgate dai quotidiani e dai tabloid, quasi tutti schierati a favore della Brexit, e in qualche modo “pilotati” con lo scopo o di impaurire o di motivare le rispettive aree di lettura, hanno valore i report che circolano nella City e che ogni grande banca e ogni grande fondo custodisce nei cassetti. Il risultato, secondo questi report, è che la Brexit perde ma a patto che ci sia una discreta affluenza (non sarà comunque elevata), che i ventenni e i trentenni non dimentichino di pronunciarsi (i giovani in prevalenza non vogliono Londra fuori dall’Europa), che in Scozia l’esercito secessionista, decisamente pro Europa e fresco di vittoria alle consultazioni per l’assemblea nazionale di Edimburgo risponda agli appelli della leader Nicola Sturgeon, infine che i laburisti si sveglino dal torpore per affondare il colpo.

Il destino di un premier. L’elettorato storicamente di centrosinistra è una delle chiavi per capire lo scenario possibile. La cosiddetta “working class” o ciò che ne è rimasto è disorientata. Il gruppo dirigente, con l’eccezione del neosindaco londinese, il musulmano Sadiq Khan, è per ora rimasto ai margini del dibattito. E la conseguenza è ciò che un’indagine interna, a Londra, Brighton, Ipswich e Liverpool, ha suggerito: metà dei simpatizzanti non sa quale sia la posizione laburista sull’Europa, se stare o abbandonare, e addirittura fra le donne prevale l’idea che il partito sia contro l’Europa.
Jeremy Corbyn, il leader del Labour, non è un europeista convinto ma fra due mali, sceglie il meno peggio, ossia il no allo strappo. Solo che lo ripete a bassa voce. È il grande assente. E lo è per calcolo politico: vuole che in un caso o nell’altro, la Brexit o la continuità, le rispettive conseguenze ricadano su Downing Street. Il suo impegno timido e distaccato spiega l’atteggiamento di una parte dell’elettorato laburista che, non a Londra ma nel centro-nord, rischia di lasciarsi suggestionare dal populismo euroscettico e dall’idea di vedere Downing Street in crisi.
David Cameron ha puntato buona parte della sua credibilità su questo appuntamento. Prima ha spinto Londra quasi sul punto della rottura. Poi ha mediato e accettato il compromesso. Forse, in cuor suo, il primo ministro è un euroscettico. Ma una volta siglata l’intesa con l’Europa sul welfare, sui limiti all’immigrazione, sulla difesa della City e dei poteri esclusivi lasciati a Westminster si è caricato sulle spalle il peso della campagna referendaria. Se perde è finito. Non subito, ma la questione della sua permanenza a Downing Street e alla guida del partito conservatore, in caso di vittoria della Brexit, si aprirà con fragore. Sarebbe un leader dimezzato, ridimensionato, smentito dalle urne, dunque destinato al pensionamento anticipato.
David Cameron è stato ambiguo e ondivago, ha cavalcato nei mesi scorsi l’onda antieuropeista salvo poi, in dirittura d’arrivo, frenare e compiere l’inversione di rotta. Ha giocato d’azzardo ma occorre prendere atto che con questo appuntamento del 23 giugno ha deciso di mettere sul piatto la leadership. Lo strappo di Londra significherebbe per lui la catastrofe politica. A suo modo è coraggioso: sfida metà del partito e cerca il via libera per proseguire il cammino.
Il primo ministro britannico ha impostato la campagna referendaria sul “fattore paura”: la paura di perdere lavoro se si esce dall’Europa (meno capitali, meno business, meno investimenti), la paura dell’isolamento internazionale, la paura del terrorismo se non c’è coordinamento con i partner della Ue, la paura che le grandi istituzioni finanziarie smobilitino dalla City a favore di New York, Hong Kong, Francoforte. In soccorso è arrivata la Banca d’Inghilterra e a ruota le grandi multinazionali. Si sono esposti anche i leader della Cina e dell’India, entrambi a favore di una Londra integrata nell’Europa. Soprattutto Obama, che ha minacciato: attenzione, se ci sarà la Brexit noi tratteremo con l’Europa e voi resterete in coda. David Cameron ha messo in campo le armi e le alleanze di cui poteva disporre.

Rischio calcolato. I britannici non amano sentirsi suggerire che cosa fare e come votare. L’intervento del presidente americano non è stato accolto entusiasticamente. Ma Obama ha toccato un punto sensibile: chi nel Regno Unito immagina accordi commerciali di favore con gli Usa, all’indomani del referendum, commette un errore grossolano. Tradotto in parole semplici significa: con la Brexit vi avviate verso un clamoroso salto nel buio.
E alla fine, proprio la paura del salto nel buio, sarà l’elemento determinante. I britannici sono isolani, sono di base prevalentemente euroscettici o euroindifferenti, sono convinti della loro diversità, della loro peculiarità storica e geopolitica. Ma poi scelgono con la ragione e non col cuore. Scelgono il male minore. Questa volta, con un forse sempre di mezzo, i sondaggi non prenderanno una cantonata. E Cameron supererà indenne la bufera.