Danilo Taino, Sette 10/6/2016, 10 giugno 2016
NEL DUELLO TRA RAMPOLLI DELL’ÉLITE BRITANNICA, LA CHIAVE PER CAPIRE LE DUE FACCE DELL’IMPERO
DECADUTO –
Due figli dell’élite. Entrambi a Eton, poi entrambi a Oxford e lì entrambi membri del Bullingdon Club, dove il riposo dalle “fatiche” universitarie trascorreva tra maschi facoltosi, aristocratici e cene con distruzione del locale al momento del dessert. Due amici. Uno, David Cameron, oggi 49 anni, «disperatamente imbarazzato» del passato da Buller. L’altro, Boris Johnson, due anni in più, indifferente all’essere stato un grande animatore di quel circolo sregolato del privilegio. Può essere questo atteggiamento divergente nei confronti di un’istituzione non ufficiale ma profondamente inglese ad avere messo i due vecchi amici sulle sponde opposte della Brexit?
Non è l’unica ragione. Ma racconta molto. Non solo del primo ministro del Regno Unito, che vuole restare nella Ue, e dell’ex sindaco di Londra, che vuole uscirne: racconta soprattutto su quali basi voteranno, al referendum del 23 giugno, gli inglesi (anche se magari non il resto dei britannici). In queste settimane, parlano soprattutto di economia, di accordi commerciali, di immigrati. Argomenti pesanti. Nella scelta, però, entra anche l’identità del Paese, il sentirsi europeo o meno di chi andrà a votare. Se prevarrà la considerazione tangibile, probabilmente il Regno rimarrà nella Ue, Cameron il pentito del Bullingdon avrà la meglio. Se prevarrà l’intangibile, potrebbe vincere il Leave, trionfo di Johnson e dell’eccentricità inglese.
Per essere chiari: nessuno nelle Isole britanniche dice di essere europeo come lo possono dire un francese, un tedesco, un italiano. Geograficamente, la Gran Bretagna è in Europa. Ma storicamente, culturalmente, nelle leggi, nelle tradizioni, nell’idea e nella fonte della democrazia è qualcosa di separato dal Continente. Una differenza che è registrata nelle eccezioni alle regole di Bruxelles che negli anni Londra ha negoziato, ultimo l’accordo tra Cameron e i leader continentali per affermare che Londra non persegue, a differenza degli altri membri, l’obiettivo della “Unione sempre più stretta”. Allo stato attuale, il Regno Unito si può considerare un separato a Bruxelles. Il 23 giugno deciderà se avviare il divorzio; o se rimanere ma senza fare passi per integrarsi di più. Per un verso, dunque, è già fuori dalla traiettoria che gli altri dell’Unione per ora dicono di volere mantenere. Per un altro, deve prendere una decisione politica che avrà grandi conseguenze su entrambe le sponde della Manica, probabilmente di più nel Continente.
La campagna referendaria è stata esagerata. I sostenitori del Remain hanno forzato soprattutto sulle conseguenze economiche della Brexit, secondo loro pesantissime. E sono stati accusati dagli avversari di giocare sulla paura del cambiamento. I partigiani del Leave hanno dipinto il progetto europeista a tinte fosche, arrivando a citare (Johnson) i sogni imperiali di Napoleone e di Hitler. Qualcosa che si avvicina di più alla realtà è che, nel caso di uscita dalla Ue, il Regno Unito pagherebbe un prezzo piuttosto alto nel breve periodo – divorziare costa – ma non è detto che non possa trovare un equilibrio di mercato diverso nel giro di qualche anno: il continente europeo non è esattamente un modello quando si considerano crescita economica e innovazione. Se i britannici voteranno facendo i conti, comunque, probabilmente resteranno.
Un po’ nascosto dietro ai grafici e alle previsioni economiche, si è però sviluppato anche un dibattito sull’anima. Tra gli storici britannici. Che è indicativo non tanto del chi ha ragione e chi torto quanto dei sentimenti e delle sensazioni, spesso non detti, che passano nella testa e nell’inconscio degli abitanti del Regno. Un gruppo chiamato Historians for Britain ha scritto una lettera pubblica nella quale sottolinea la peculiarità della storia britannica dal Medioevo. In un articolo intitolato “Nebbia sulla Manica, storici isolati”, un altro gruppo ha risposto che questa unicità è un’illusione. Da lì si è sviluppata la discussione.
Gli storici per la Brexit sostengono che le caratteristiche del sistema politico britannico, modello di democrazia, sono fondate in una storia di secoli che non ha paragoni nel Continente e sono cristallizzate nel parlamento di Westminster; che il temperamento politico nell’Isola è stato molto meno estremo che negli altri grandi Paesi europei, immune da fascismo, comunismo, nazionalismo radicale; in più, aggiungono che l’Isola, (soprattutto l’Inghilterra) ha da almeno cinque secoli un rapporto di sostanziale separazione dalle vicende europee, viste come influenti ma non domestiche. Gli storici pro-Ue ribattono che non tutto è così unico e bello in Gran Bretagna, che la sua storia è intrecciata profondamente a quella del Continente e che, inoltre, abbandonare l’Europa in questo momento, mentre la Ue attraversa la fase più difficile della sua esistenza, è una viltà se non un tradimento. I politici, più semplicemente, hanno teso a dividersi sul come avrebbero votato Winston Churchill e Margaret Thatcher, ma più o meno è lo stesso dibattito.
La conversazione tra gli storici sembra andare più di altre al cuore del problema. Un problema che emerge continuamente e che non è mai stato risolto, cioè il ruolo e il senso della presenza britannica nella Ue e nelle sue istituzioni. Da questo punto di vista, il referendum sarà un momento di chiarezza, ormai dovuto, per i cittadini del Regno. Ma anche per il resto dell’Europa. E qui si apre il capitolo sul futuro della Ue dopo il 23 giugno.
Un’Europa a due velocità. Se si affermerà la Brexit è evidente che l’Europa non sarà più la stessa. Ma questo potrebbe essere un bene, dal momento che oggi Bruxelles non piace a nessuno. Sarebbe un’occasione di cambiamento. Le paure, sono però comprensibili. Si stabilirà che la Ue, finora sempre in espansione, può anche restringersi. In secondo luogo, il Paese più liberale nella costruzione del mercato unico se ne andrebbe e ciò darebbe più peso alle posizioni meno aperte nel commercio e nelle regole interne sostenute da alcuni Paesi, Francia in testa; la Germania si sentirebbe più isolata, e questo preoccupa Angela Merkel. Il pezzo pregiato del futuro mercato unico finanziario verrebbe a mancare, con l’uscita di Londra e della City. Soprattutto, però, le conseguenze politiche sarebbero ampie e profonde. Altri Paesi sarebbero tentati di mettere a referendum la permanenza nella Ue, già oggi se ne vedono i segni: forse discuteremmo di Dexit in Danimarca, di Nexit in Olanda, chissà persino di Frexit se in Francia guadagnasse posizioni Marine Le Pen. È quel processo che l’ex presidente della Commissione europea José Manuel Barroso ha chiamato “détricoter”, tirare il filo della maglia e disfarla completamente.
In questo senso i rischi della Brexit sono maggiori nel Continente che sull’Isola. E in questo senso molti europei la considererebbero una pugnalata alle spalle. Ma sarebbe molto diversa e molto migliore la situazione della Ue se il 23 giugno il Regno Unito decidesse di restare? Forse i governi guadagnerebbero un po’ di tempo, ma rimarrebbe la necessità di riformare e trasformare una macchina che non funziona più. Meno impellente, ma questo non è detto sia un bene. L’idea delle velocità di integrazione variabili circola da anni ma non è mai stata formalizzata e oggi potrebbe essere tardi per farlo: nell’Eurozona, la parte più integrata della Ue, si possono fare altri passi verso un’unione fiscale e politica? C’è da dubitarne: l’Olanda e la Finlandia non li vogliono, sotto la pressione di forti movimenti e partiti antieuropei; la Francia è improbabile che acconsenta, davanti alla minaccia Le Pen; la stessa Germania non si fida a spingere per la messa in comune di altro denaro e di altro potere.
Momento di democrazia. Brexit o non Brexit, problemi che resteranno: nel Continente, Londra potrà essere un modello per uscire dalla Ue oppure, se rimarrà, per ritagliarsi delle eccezioni e fare passi indietro nell’integrazione. È con questa situazione che Merkel, Hollande, Renzi e gli altri leader dovranno confrontarsi nei prossimi mesi. Sapendo che l’unica cosa che si può fare subito sono compromessi sulle politiche, in particolare sicurezza e immigrati. Ma sapendo anche che il ridisegno dell’Unione europea, che sembra avviata verso una riduzione dell’ambizione, si impone. Le crisi multiple e i sistemi politici tradizionali che vacillano, quando non crollano, ne sono la ragione: il referendum nel Regno Unito lo rende urgente.
Quanto alla Gran Bretagna, sarà difficile leggere nel profondo i risultati, il 23 sera. Se vincesse il Remain, potrebbe avere avuto la meglio la convinzione che la Cool Britannia è davvero diventata europea, alla fine; oppure essersi affermata la paura dell’isolamento. Se vincesse il Leave, ci sarebbe da capire se ha parlato una Little England chiusa nella sua provincia; oppure se è passata l’idea che è l’Europa a chiudersi e in un mondo globalizzato è meglio pensare all’India e al Canada piuttosto che alla Germania e all’Italia. Di certo sarà un gran momento di democrazia. Non solo per i due di Oxford.