Polito, Sette 10/6/2016, 10 giugno 2016
QUELLE SQUADRE RICCHE, MA SENZ’ANIMA
Non avrei mai immaginato, quando a sei anni cominciai a tifare Inter, che un giorno la mia “beneamata” sarebbe stata posseduta dai cinesi. E come avrei potuto? La Cina allora era un Paese di contadini poveri guidato da un gruppo di fanatici che protestarono quando Krusciov ritirò i missili nucleari da Cuba: avrebbero preferito la guerra atomica con gli Stati Uniti. All’Inter erano già arrivati Moratti e Helenio Herrera, e proprio in quella stagione, con lo scudetto, sarebbe cominciata la fantastica cavalcata della squadra più forte e più elegante d’Europa.
E invece, mezzo secolo dopo, eccoci qui. Intendiamoci: tutto è meglio di Thohir, anche l’azienda cinese di due ex artigiani di Nanchino bravi a riparare condizionatori d’aria e capaci di costruire in pochi anni un impero mondiale degli elettrodomestici. So bene che il calcio moderno richiede grandi disponibilità economiche, che ormai i soldi ce li hanno i cinesi più degli americani e sempre più degli arabi, che con il calo del prezzo del petrolio non possono più strafare come prima. Capisco anche che la globalizzazione è questo, che se vuoi competere devi essere una multinazionale, che i mercati emergenti per il merchandising e per lo sfruttamento del marchio sono in Asia, dove pare che si aggirino centinaia di milioni di tifosi di Inter e Milan. Però ho un dubbio.
Il dubbio è il seguente. È vero che squadre come il Manchester City e il Paris Saint Germain sono rinate con padroni stranieri e danarosi, il fondo sovrano del Qatar per i “Parisiens” e un principe degli Emirati per i “Mancunians”. Però è anche vero che per quanti soldi ci abbiano buttato dentro, acquistando collezioni di campioni, giocolieri e fuoriclasse, sul piano internazionale sono rimaste delle promesse, delle incompiute, nessuna delle due è mai arrivata a una finale europea. Nella storia, insomma, non sono ancora entrate.
Guardate invece l’albo d’oro della Champions degli ultimi anni, lì dove si annida l’eccellenza del calcio europeo, quelli che se non vincono la Coppa con le orecchie comunque arrivano sempre tra le prime quattro, le squadre insomma che dominano in campo internazionale. E ci troverete società come il Real Madrid, il Barcellona, il Bayern, che seguono modelli proprietari molto diversi. Intanto gli azionisti principali sono di solito nazionali, come nel caso del Bayern, il cui nuovo stadio porta il nome della compagnia tedesca di assicurazioni Allianz. E poi sono radicati sul territorio, soprattutto attraverso il sistema dell’azionariato popolare, che trova la sua massima espressione nel Barcellona e nel Real Madrid. Di più: queste tre squadre si identificano anche simbolicamente con le loro “patrie”, il Bayern con la Baviera, il Real con la Spagna, e il Barcellona con la Catalogna, al punto che fino a pochi anni fa il Barça rifiutava di sporcare con il logo di uno sponsor commerciale una maglia i cui colori, il blu e il granata, sono considerati come un simbolo della nazione catalana. Analogo discorso si può fare per il Siviglia, tre volte di seguito campione di Europa League, e per l’Atletico Madrid, due finali Champions in tre anni.
Internazionali dunque bisogna essere; globalizzati anche; votati al successo commerciale pure. Ma si vede che c’è qualcosa nel calcio che richiede anche una dimensione “local”, un’appartenenza “patriottica”, un radicamento culturale, per dare un’anima a una squadra di calcio e portarla lassù, fino in cima.
P.s. A proposito, come canteremo “amala” in cinese? Su Twitter ho scoperto che si dice “Ai ta”, con la “a” lunga. Non sarà la stessa cosa.