Lucio Caracciolo, Senza la guerra, 10 giugno 2016
L’EREDITÀ GEOPOLITICA DELLA GRANDE GUERRA– (vedi appunti) Un giorno di primavera del 1920 re Vittorio Emanuele III ricevette a palazzo un giovane ufficiale, reduce dall’essere stato insultato a una manifestazione di tramvieri e anche piuttosto seccato dalla propaganda dei vincitori, che dipingeva la Grande guerra, nella quale lui aveva combattuto, come «la guerra per finire tutte le guerre»
L’EREDITÀ GEOPOLITICA DELLA GRANDE GUERRA– (vedi appunti) Un giorno di primavera del 1920 re Vittorio Emanuele III ricevette a palazzo un giovane ufficiale, reduce dall’essere stato insultato a una manifestazione di tramvieri e anche piuttosto seccato dalla propaganda dei vincitori, che dipingeva la Grande guerra, nella quale lui aveva combattuto, come «la guerra per finire tutte le guerre». L’ufficiale comunicava al re la sua intenzione di smettere la divisa e di tornare alla vita civile. Il re rispose: «Chiacchiere. Dopo che quattro imperi si sono sfasciati, prima di una solida e duratura ricostruzione nasceranno certo altri conflitti». Vittorio Emanuele III aveva ragione. Il mestiere delle armi non aveva perso la sua funzione e non la perse nemmeno dopo la Seconda guerra mondiale. Forse, in prospettiva storica, dovremmo anzi considerare l’Europa e il mondo della guerra fredda, l’Europa e il mondo divisi in due, come una lunga sospensione di partite aperte dalla Prima guerra mondiale e tuttora inconcluse. Tutte sedate, quasi nessuna davvero risolta. Ciò vale in particolare per l’intreccio di conflitti che infransero il secolo di relativa pace europea fra il congresso di Vienna (1814-15) e i cannoni d’agosto del 1914. A inaugurare il secolo più sanguinoso della storia umana. Perché la pace di Versailles (1919) non fu che la continuazione della guerra con altri mezzi, fino al secondo, più terribile massacro del 1939-45. Contro l’opinione prevalente nei decenni della guerra fredda (1946-91) – l’ultimo riuscito tentativo di ordine pacifico in Europa, seppur basato sulla forzosa bisecazione del continente, vegliata da potenze esterne (Usa e Urss) – quel fuoco ha continuato a covare sotto l’illusoria glaciazione bipolare. Per riaccendersi, in forme bizzarre e cangianti, nel presente disordine della presunta globalizzazione, che molto deve al modo in cui l’apparente ordine del 1914 collassò come una supernova, disseminando la sua materia incandescente nel firmamento geopolitico. Dove tuttora circola. E infatti, il libro di maggior successo uscito in occasione del centenario della Prima guerra mondiale – scritto dall’australiano Christopher Clark – intitolato I sonnambuli, si conclude con questa frase: «Gli uomini del 1914 sono nostri contemporanei». In che senso e in che misura si può fare questa affermazione? La manipolazione dei «diritti storici» e il passato che non passa Se studiamo la storiografia contemporanea – in particolare quella europea – e soprattutto la pedagogia nazionale dei diversi paesi coinvolti, possiamo constatare come ancora oggi persistano narrative perfettamente opposte sulla Prima guerra mondiale. A conferma che le guerre non vengono più combattute solo sul campo di battaglia, ma anche, se non soprattutto, sul fronte della narrazione. I fatti contano meno della loro percezione, o meglio delle percezioni spesso divergenti che se ne hanno, a seconda della propria storia, della propria biografia, del paese a cui si appartiene. Una delle caratteristiche dell’Europa dopo la guerra fredda, alla fine di quella sorta di glaciazione geopolitica in cui tutto sembrava fermo e ancorato a confini inviolabili, è infatti il ritorno della narrazione dei «diritti storici» come strumento strategico. I conflitti combattuti in Europa dopo la fine della guerra fredda – pensiamo ad esempio alle guerre jugoslave che nello scorcio finale del Novecento hanno prodotto circa duecentomila morti o alla guerra ucraina in corso – si sono alimentati anche di opposte narrazioni storico-geopolitiche, nell’intento di affermare la propria visione della storia a fini strategici. Negli anni ’90 la Grande Serbia, la Grande Croazia o la Grande Albania venivano rivendicate in base a presunti diritti storici e/o etnici. Così oggi in Ucraina ci si batte per una più grande Russia o una più grande Ucraina, sempre riferendosi a entità o progetti geopolitici del passato. In entrambi i casi, siamo nel cuore di aree attraversate e segnate in profondità dalla Prima guerra mondiale. Spesso si attribuisce il gusto della manipolazione del passato solo ai paesi balcanici o dell’Est, dove più forti persistono gli echi di antichi nazionalismi. Non è così semplice. Ad esempio, quando all’inizio degli anni 2000 i francesi posero la questione dell’ingresso della Turchia nell’Unione Europea, il cancelliere austriaco, durante una riunione dei capi di Stato e di governo, si oppose osservando: «Per me è impossibile. Io ho avuto l’assedio di Vienna». Evidentemente si tratta di motivazioni che investono un lato emotivo, ma sono mosse da un intento strumentale. A ricordarci che l’uso presente del passato – di quel passato che non vuole passare – è una delle armi della retorica, della propaganda bellica. Talvolta anche dei curricula scolastici e universitari. A ben guardare, molte delle guerre e delle partite geopolitiche in corso possono configurarsi come guerre di successione per l’egemonia nei territori evacuati dai quattro imperi europei defunti nella Grande guerra. Se noi analizziamo infatti i conflitti e le dispute territoriali intorno a noi partendo dal nostro osservatorio italiano, notiamo come le tre principali crisi che ci preoccupano – e cioè quella dell’integrazione europea, quella dell’Est, ovvero russo-balcanica, che parte dalle guerre post-jugoslave e arriva oggi all’Ucraina, e quindi alla Russia, infine le guerre e le crisi del fronte Sud, tra Mediterraneo e Nord Africa, fino al Levante e al Golfo Persico – abbiano tutte a che fare con quello che Vittorio Emanuele III chiamava il «collasso dei grandi imperi». In particolare: la crisi europea verte sulla questione tedesca, aperta dal collasso del Secondo Reich, cioè dalla sconfitta della Germania guglielmina nella Prima guerra mondiale; le crisi russo-balcaniche sulla contemporanea scomparsa dell’impero austro-ungarico, di quello ottomano e di quello russo; infine, se apriamo la finestra sul Mediterraneo – dalla Libia alla Siria e ad alcuni tratti della penisola Arabica – scopriamo che i conflitti attuali sono guerre di successione post-ottomana. In particolare, la Turchia del «sultano» Erdoğan vibra di neo-ottomania. Opportunamente miscelata alle vene panturanica e panislamica, l’ideologia imperial-califfale autorizza il leader turco a battezzare casa sua scelti spazi incastonati fra Adriatico e Turkestan Orientale (Xinjiang). Dopo che Atatürk ebbe inventato lo Stato nazionale turco sulle macerie del «grande malato d’Europa» e sull’epopea di Gallipoli (1915), oggi l’islamista Erdoğan si ostenta guardiano della Sublime Porta anche nelle condoglianze agli armeni vittime delle deportazioni e dei massacri compiuti cent’anni fa dalle truppe del sultano ai danni di centinaia di migliaia di loro antenati: «Gli incidenti [sic] della Prima guerra mondiale sono nostro comune dolore». E le recenti puntate in Siria, più precisamente nell’ex distretto ottomano di Aleppo, sono vissute dalla leadership turca come ritorno in territori canonici, con i quali non si sono mai dispersi vincoli secolari, oggi da riattivare. Quanto alla Russia dello «zar» Putin, reduce dall’aver perso Kiev ma anche dalla riannessione della Crimea, il passato imperiale torna di moda. Dopo lo sprezzante oblio sovietico per l’epopea del 1914-18 – prolungata in una guerra civile internazionale frequentata dalle potenze occidentali in chiave antibolscevica – il 1° agosto 2013 il Cremlino ha celebrato per la prima volta l’anniversario dello scoppio della Prima guerra mondiale. E ha promosso finalmente l’erezione di un monumento ai «quindici milioni di combattenti per la difesa della patria». Quella Russia imperiale, guidata dal «saggio e grande» zar Nicola II, avrebbe certamente vinto, se i comunisti non avessero rovesciato l’imperatore. Se Putin rifiuta il rango di sconfitto nella guerra fredda e di «potenza regionale», cui Obama vorrebbe inchiodarlo, è perché si richiama all’impero dei Romanov, non al regime degli usurpatori bolscevichi, di cui gli ultranazionalisti al Cremlino e dintorni amano semmai marcare, senza simpatia, certe matrici ebraiche. Lo stesso Putin è oggetto di una nuova iconografia imperiale, inaugurata da un’associazione di cosacchi che gli ha recentemente dedicato un busto neocesariano, eretto nella località di Kasimovo. Quanto all’Austria-Ungheria, la sua leggenda è inscritta nella sua scomparsa. Nella trasfigurazione da baluardo della reazione veterocontinentale in progressivo modello di convivenza plurietnica. Tutta la Mitteleuropa oggi ne parla, Italia ex asburgica compresa. Non c’era bisogno di riscoprire Joseph Roth, con la sua Marcia di Radetzky, per resuscitare il mito della felix Austria, multiculturale, serena, pacifica. Quando trascina Kakania nel baratro della Grande guerra, Francesco Giuseppe regna su sessanta milioni di sudditi riuniti in due Stati, una decina di «nazioni storiche» e una ventina di gruppi etnici minori. Ciò che poi permetterà al drammaturgo Ödön von Horváth di qualificarsi così: «Sono nato a Fiume, cresciuto a Belgrado, Budapest, Pressburg [Bratislava], Vienna e Monaco, e ho un passaporto ungherese, ma non ho patria». Curioso come la memoria di quel grandioso collage di popoli e culture venga spesso agitata non per riunire l’impero, ma per tentare di ritagliare qualche coriandolo già asburgico da Stati nazionali in deficit di legittimazione. Quali il nostro. Infine, la Germania. A due secoli dalla dissoluzione formale di ciò che restava del Sacro Romano Impero di Nazione Germanica, uno dal crollo del Secondo Impero guglielmino e a settant’anni dalla liquidazione del Terzo, lo storico irlandese Brendan Simms ha sviluppato la sua reinterpretazione della storia europea dalla caduta di Costantinopoli al presente come lotta per l’egemonia nello spazio tedesco e disputa per l’eredità dell’impero carolingio. Centrandola sulla tesi dell’«immediatezza del passato». Siamo qui nella terra del «passato che non passa» per eccellenza, come conferma l’ondata di germanofobia che sta attraversando l’Europa, specie la meridionale. Nel 2010 la crisi dell’euro, moneta inventata da francesi e italiani per impedire alla Germania riunificata di dominare il continente, neanche fossimo tornati al 1913 – l’incubo di Mitterrand e non solo – è stata interpretata a Berlino alla luce del 1923, l’anno dell’iperinflazione avviata con lo scoppio della guerra e incentivata dal Trattato di Versailles, quando i prezzi raddoppiavano ogni quattro giorni. La paura dell’euro di carta straccia – che a noi mediterranei, asserite vittime della deflazione da austerità teutonica, appare paradossale – è figlia di quella memoria tramandata di bisnonno in bisnipote, se è vero che ancora oggi i tedeschi temono l’inflazione più del cancro. E la rinuncia al marco, concessione alle germanofobie europee, è descritta da alcuni intellettuali tedeschi come «seconda Versailles»: pedaggio ingiustamente pagato per sanare la riunificazione del 1990, percepita da alcuni vicini europei come prodromo del «Quarto Reich». Tale era e in parte resta la visione dei teorici del «carattere nazionale tedesco», ossia della vocazione aggressiva di un popolo postulato uguale a se stesso da Arminio ad Angela Merkel. Nient’altro che un’eterna colpa collettiva. Di cui la Grande guerra è testimonianza in quanto aggressione austro-tedesca alla pace europea. Della germanofobia scatenata dalla riunificazione tedesca del 1990, imprevista da quasi tutti, è interessante testimonianza un documento recentemente pubblicato dal governo britannico nel contesto di una raccolta di dispacci diplomatici relativi alla crisi della Repubblica Democratica Tedesca (Germania Est) e alla sua adesione alla Germania Federale. Si tratta di una conversazione che ebbe luogo al Palazzo dell’Eliseo, a Parigi, il 20 gennaio 1990. Erano a pranzo il presidente francese, François Mitterrand, e il primo ministro britannico, Margaret Thatcher. La conversazione verteva su come impedire che la Germania si riunificasse. Il 9 novembre 1989 era caduto il Muro di Berlino. Il cancelliere Kohl, sorprendendo tutti e non informando gli alleati – né gli europei né gli americani – già alla fine del mese di novembre aveva proposto un piano piuttosto rapido di riunificazione. Questo aveva gettato nel panico le cancellerie europee, in particolare la nostra – era presidente del Consiglio Giulio Andreotti – la francese, la britannica, l’olandese e altre ancora. Su questo sfondo, si capisce meglio il senso di quella conversazione franco-britannica, all’insegna della pura germanofobia, quasi fossimo ai tempi della Prima o della Seconda guerra mondiale. Mitterrand, raccontando di un incontro avuto con il cancelliere tedesco Kohl e con il suo ministro degli Esteri Genscher, disse testualmente alla signora Thatcher: «Sono stato molto duro con il cancelliere Kohl. Gli ho detto che certamente la Germania poteva riunificarsi, e poteva anche andare oltre le conquiste di Hitler, ma attenzione alle conseguenze, perché in questo caso l’Unione Sovietica avrebbe mandato un messo a Londra per proporre un trattato di riassicurazione e il Regno Unito avrebbe accettato. L’inviato sarebbe poi andato a Parigi, che avrebbe accettato e così saremmo tutti tornati al 1913». Queste parole vennero accolte con serenità e comprensione dalla signora Thatcher. Francia e Gran Bretagna facevano parte, allora come oggi, dell’Alleanza Atlantica. Eppure discutevano di un’alleanza con l’Unione Sovietica contro un socio atlantico: tale era il grado di terrore che aveva suscitato la prospettiva dell’unificazione tedesca. (Una qualche misura di questo terrore ha continuato a percolare nelle élite europee per lungo tempo. E se ne vede qualche avvisaglia anche recente. All’allora presidente francese Nicolas Sarkozy per esempio un paio d’anni fa scappò la frase «les Allemands sont toujours les mêmes». Quasi esistesse un carattere nazionale tedesco, immutabilmente pericoloso.) Due mesi dopo quella chiacchierata a tavola con Mitterrand, la signora Thatcher ha un’idea brillante, a proposito di uso geopolitico della storia. Per capire qual è il pericolo dell’unificazione tedesca, che ormai è scontata, convoca una riunione segreta a Chequers nella sua residenza di campagna, con i principali storici anglosassoni che si occupano di Germania contemporanea, tra cui Gordon Craig, Hugh Trevor-Roper, Timothy Garton Ash, Norman Stone. Thatcher chiede a quei grandi esperti della Germania contemporanea di rispondere ad alcune domande: «Who are the Germans?», «Have the Germans changed?» e così via. Chiede cioè di individuare quale sia il carattere immutabile del popolo tedesco e dei suoi leader, e quali le eventuali ambizioni imperiali della Germania. Le risposte sono intriganti e rivelano un certo grado di germanofobia anche in quel consesso di augusti studiosi. Alla domanda «Who are the Germans?» la risposta è che vi sono alcuni caratteri permanenti del popolo tedesco. Per esempio, citando dal protocollo sommario che riassume i termini del dibattito: «La loro insensibilità ai sentimenti altrui», molto evidente nella questione del confine polacco, «la loro ossessione per se stessi», una «forte inclinazione all’autocommiserazione», e «un bisogno di essere amati». Altri attributi, meno piacevoli, riguardano il fatto che i tedeschi sono segnati dall’Angst (ovvero una paura profonda), ma anche da «aggressività, assertività, bullismo, egotismo, complesso di inferiorità, sentimentalismo». Questa paura della Germania è tornata di attualità durante le recenti crisi europee, in particolare quella dell’euro. A disegnare quasi una filosofia dell’essenzialismo monetario, per cui ci sarebbero un modo greco, uno italiano e uno tedesco di trattare la moneta. Si può trovare una radice di questa maniera di vedere in Schumpeter e in altri autori classici. Ma il modo piuttosto brusco e brado con cui questa polemica sulla cultura monetaria è esplosa negli ultimi anni è significativa di quanto le percezioni reciproche siano fondate sul presunto carattere nazionale dei popoli. In fondo, un razzismo light. Un autore britannico, Hans Kundnani, ha scritto in uno studio recente dedicato a The Paradox of German power che la questione tedesca ritorna oggi quasi nei termini d’inizio Novecento, solo in veste geoeconomica invece che geopolitica. Con ciò rifacendosi alla tesi di un grande storico germanico, Ludwig Dehio, intorno alla «semi-egemonia tedesca»: la Germania è troppo grande per accettare di essere integrata in uno spazio europeo, o anche solo di essere considerata una fra pari in Europa, ma allo stesso tempo è troppo piccola per poter essere davvero egemone nel nostro continente. Questione che un tempo si poneva in termini brutalmente militari, oggi piuttosto economico-monetari. E che spiega perché ieri come oggi sia arduo costruire un equilibrio europeo. Conclusione Cento anni fa l’Europa, o meglio le sue potenze in competizione, era il centro del mondo. Oggi ne è una parte relativamente minore, compressa fra le due principali potenze: l’America tuttora leader, eppure in declino, e la Cina in ascesa, ma lontana dal potere esercitare una forma di egemonia regionale o addirittura planetaria. Il baricentro geoeconomico del mondo si è spostato negli ultimi vent’anni verso l’Asia, quello geopolitico e geostrategico resta collocato negli Stati Uniti e nella loro rete di alleanze. Del sogno di un’Europa unita, global player, potenza «gentile» capace di diffondere con il suo soft power un approccio pacifico, tollerante e liberale alle relazioni internazionali, non resta granché. La crisi dei migranti ha anzi inferto il colpo forse definitivo ai progetti dei padri fondatori dell’Europa comunitaria. Ognuno sembra riscoprire la propria unicità. Soprattutto l’unicità della propria storia. In questa deriva neonazionalista e neoprotezionista, dai toni apertamente xenofobi, che investe soprattutto l’Europa centro-orientale, scopriamo che le ferite aperte dalla Prima guerra mondiale non sono mai state davvero suturate. Il collasso simultaneo di quattro imperi non ha prodotto un nuovo impero europeo, ma una frammentazione geopolitica che ci invita a riconsiderare il peso della lunga durata nella storia contemporanea. La Prima guerra mondiale continua a irradiarsi nell’Europa di oggi. Chi fingesse di non vederlo, lo farebbe a proprio rischio e pericolo.