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 2016  giugno 10 Venerdì calendario

ALI SACRIFICATO SULL’ALTARE DELLA CLINTON MACHINE

Nell’ultimo canto dell’epica tessuta da e intorno a Muhammad Ali, a una settimana dalla morte, si intrecciano gli elementi del grande evento mediatico Usa: consumismo, maxi-schermi, multinazionali, sport e, soprattutto, politica, cioè consenso. Non si leverà materialmente l’afrore delle cosce di pollo fritte dalla catena da cui prende il nome l’arena di Louisville, Kentucky, dove si terranno i funerali del più grande pugile della Storia che qui era nato nel 1942; ma, idealmente, quella guaina di gioiosa voracità da centro commerciale contribuirà al rito sacrificale dell’eroe, portato in processione sul boulevard che porta il suo nome, dato in pasto ai telespettatori e spartito, pezzo a pezzo, tra chi ne saprà trarre vantaggio.
Non occorre essere sapienti di serie televisive sulla Casa Bianca, con tutte le microdinamiche del potere e le micidiali strategie elettorali che ne reggono le sorti, per intuire che nella scelta dell’ex presidente Bill Clinton di tenere l’elogio funebre per l’“amico di una vita” risiedono ragioni che sorpassano il dato sentimentale.
Fu il presidente Clinton, è vero, a restituire a Ali, nel retorico scenario delle Olimpiadi di Atlanta del 1996, la medaglia di campione del mondo conquistata a Roma nel 1960 e sdegnosamente rigettata dal campione in faccia all’impero dei bianchi che l’aveva punito per essersi rifiutato di partire per il Vietnam; ma si trattò di una cerimonia malinconica, con Ali tremante, preda del Parkinson, che accendeva la fiamma olimpica a gloria della Nazione contro i cui valori aveva sempre fieramente lottato.
Didascalicamente rivelatorio è che lo statement comparso sabato sul sito della fondazione Clinton a firma di Bill inizi con la parola “Hillary” (“Hillary e io siamo rattristati dalla morte di Muhammad Ali”), e prosegua con una descrizione del pugile come di una “combinazione di bellezza e grazia, velocità e forza imbattibili”, che “ha fatto scelte difficili vivendone le conseguenze”. Ora che Hillary e Bill si muovono più che mai come un corpo unico (non più solo “Billary” come un tempo, ma una “Clinton Machine” fatta di preparatissimi staff 2.0 e un forte consenso presso gli afroamericani), accaparrarsi il palcoscenico nell’estremo omaggio al più grande campione americano di sempre affonda non tanto nella strategia “etnica” di accattivarsi il voto dei neri, sul cui consenso Hillary già può contare, quanto in quella culturale.
La lotta contro Donald Trump sarà feroce e dovrà giocarsi nei destini anche iconici dell’America come impero del Bene, della Vittoria, della Multiculturalità, della Pace tra i popoli. La figura di Ali, opportunamente edulcorata dalla morte, diventa così l’ariete di sfondamento della coppia democratica, che dal 2008 vive il complesso di essere stata rapinata da Obama della guida dell’America. All’appello di Hillary alle madri dei ragazzi neri uccisi dalla polizia, fa dunque perfettamente seguito l’ostensione del santino di Ali, trasformato in un emblema del politicamente corretto, cosa che non è mai stato da vivo.
La sua figura esaltante, struggente, scorretta e spiritosa ha tessuto una mitologia popolare e radicale insieme, in cui il sostegno al partito delle Pantere Nere era tutt’uno con la sua inafferrabilità fisica, le invettive contro l’Impero e la segregazione razziale in Occidente.
A stridere con questa iconografia ipercorretta il fatto che, secondo le volontà del campione e della sua larga famiglia, a tenere il discorso funebre oltre a Clinton e all’attore Billy Crystal saranno il presidente turco Erdogan, non proprio un campione di democrazia, e il re Abdullah II di Giordania, a cui Ali era molto vicino per motivi religiosi e politici; mentre a portare la bara saranno l’ex campione dei pesi massimi Lennox Lewis e l’attore Will Smith, che è stato Alì nell’omonimo film di Michael Mann.
Ma in questo trionfo di retorica americana occorreva limare le asperità della creatura Muhammad Ali, nata Cassius Clay e passata attraverso la prigione, l’islamismo radicale, l’abiura del suo Paese, le botte prese nella vita e quelle date sul ring, ai bordi del quale – come riporta la sua biografia C’era una volta un re – non smetteva di istigare i bianchi all’odio di sé per bruciare nella gloria.
È la più acuta strategia che i Clinton potessero adottare. Se a tenere l’orazione funebre fosse stato Obama, si sarebbe ribadita un’appartenenza etnica, riottosa e anti-wasp, che nel tempo si è cercato di lavare via dalla figura di Ali e che in questo momento non fa gioco al futuro dell’America. Anzi, avrebbe finito per consegnare la cerimonia alla figura del riscatto dei neri americani che Obama ha incarnato e contro cui Trump ha esacerbato il risentimento dei bianchi.
Ci voleva un bianco, e non uno qualsiasi, ma il First Husband d’America, a tessere l’elogio del Mito, ringraziandolo per ciò che ha dato all’America che lui non ha mai smesso di criticare, sterilizzandone la figura e assimilandola per sempre alla leggenda della Nazione.