Vittorio Zucconi, il venerdì 10/6/2016, 10 giugno 2016
LA TRUBU
Era la notte del 12 luglio 1982. In unaTokyo ancora in letargo, Roberto, Giorgio e io, strizzati nella mia Honda City (però Turbo) squarciavamo la quiete della capitale pigiando il clacson e agitando un tricolore. Negli occhi e nel cuore scorrevano le immagini e l’adrenalina dell’Urlo di Tardelli, il labiale di Sandro «Non ci prendono più» Pertini, l’angoscia del rigore sbagliato, la felicità dell’irrealizzabile realizzato, l’ebbrezza dei padroni del mondo per una notte. Poi sirene e arresto.
La polizia municipale di Tokyo ci inseguì e ci bloccò contestandoci una mezza dozzina di violazioni e di reati, dal disturbo della quiete pubblica ai semafori rossi bruciati a velocità criminali. «Ecco, scusi, agente, insomma, sa» intervenne Roberto, che il giapponese parlava bene «stiamo festeggiando l’Italia campione del mondo». «Ah-so» s’impetti l’agente della polizia municipale di Tokyo «in questo caso capisco, congratulazioni, brava Italia». Ripartimmo strombazzando nella notte da quei tre scemi che eravamo.
Nell’imbarazzo di quella esaltazione rivisitata 34 anni dopo alla vigilia di un Europeo 2016 mogio mogio, nella solitudine di quella corsa per le grandi avenue deserte di una città giapponese che aveva allora la stessa cognizione del calcio che un italiano ha del cricket, si era consumato il rito supremo della tribù alle quale appartengo da quando avevo sei anni. La Tribù dei Tifosi. Vi ero entrato in un giorno brumoso di novembre del 1952 quando un amico di famiglia, mosso a compassione per un bambino immigrato dalla lontana Modena a Milano mi accompagnò allo stadio di San Siro per un Milan Atalanta facendomi giurare che da quel momento in poi sarei stato un tifoso rossonero.
Senza rendermene conto, e senza neppure vedere la partita, io, piccolo fin da piccolo in mezzo alla gambe degli adulti in piedi nel parterre che allora circondava il prato (nel ’52 era ancora un prato vero) ero stato irrimediabilmente e inconsapevolmente iniziato e aggregato alla Tribù. La sola comunità alla quale saremo condannati a vita, senza speranza di indulti, amnistie o ripensamenti. Le prove del dna hanno strappato innocenti al braccio della morte. Divorzi hanno salvato coniugi infelici. Asili politici possono mettere sventurati migranti al riparo da persecuzioni e guerre. Ma dal «tifo» non c’è scampo.
Anche oggi, quando l’identificazione del seguace con i propri guerrieri in mutande è labile come la distanza che separa i continenti, come la babilionia delle lingue e la falsità di attori che baciano magliette zuppe di sudore pronti a buttarle il giorno successivo per baciarne un’altra a ingaggio più gustoso, la dinamica delle tribù del calcio, come la definisce Desmond Morris nel suo delizioso e raccapricciante librone sulla storia del tifo, resiste alle picconate della commercializzazione. È sopravvissuta a procuratori maneggioni, a dirigenti inetti o imbroglioni, alla pay tv, alla barbarie violenta, a sceicchi che occupano Manchester e cinesi che s’insediano a Milano, così come resiste, spesso oltre ogni evidenza e ogni logica, il rapporto che spinge padri e madri a difendere i propri figli anche in Corte d’Assise. Quello che i non appartenenti alla tribù non capiscono, scrisse Nick Horby nel suo Febbre a 90’ è che nei successi e nei rovesci della nostra squadra noi non celebriamo loro, ma noi stessi. È il fatto che alle partite noi non assistiamo, ma partecipiamo attivamente, anche se stravaccati sul divano di casa, anche in auto, ascoltando la radio. I giocatori sono semplicemente i nostri rappresentanti, anche se per un giorno, per pochi minuti. Loro siamo noi.
I non ammessi alla tribù credono che noi iniziati «guardiamo la partita» e non capiscono che la partecipazione è fisica, tangibile. Una finale perduta ai rigori lascia spossati come una maratona e, all’opposto, l’orgasmo, come lo chiama anche Morris, di una vittoria produce, passata l’euforia, la sindrome depressiva dell’e adesso?. Il vero fanatico, da cui la parola «fan», cura la vestizione come un titolare del Barcellona o della Juve prima di scendete in campo. Custodisce come paramenti sacri gli indumenti della vittoria passata, i pedalini e la biancheria, non necessariamente lavati, camicia, jeans, sciarpetta da annodare come fu per l’ultimo trionfo. Segue la stessa dieta prepartita, come fanno i giocatori, siede sempre allo stesso posto davanti alla tv, se quel posto e quella posizione fruttarono il trionfo, non importa se scomodi. Io vivo nella assulta certezza che spostando il peso del corpo sulla chiappa destra, l’azione migliorerà e la probabilità di segnare aumenteranno. E ne ho ampie prove documentali. Il credente accavalla le gambe cercando di ricordare se fu la sinistra sopra la destra o viceversa che convinse l’arbitro a concedere il rigore o a negarlo alla tribù rivale. Uno spot commerciale diffuso in queste settimane sulle reti in Usa da una casa automobilistica mostra quattro amici che salgono in auto per andare allo stadio e litigano su chi debba sedersi dove, tra gli appelli disperati di uno di loro che si rassegna a cambiarlo sospirando: «E allora perderemo».
Come ogni tribù, anche quella dei tifosi ha naturalmente bisogno dei propri sciamani che celebrino il rito seguendo un rigido messale e dunque una semantica legnosamente invariabile. Sono i telecronisti e gli inutili esperti che al loro fianco snocciolano spiegazioni inani per illustrare quello che comunque abbiamo già visto, come i chierichetti che scampanellano all’elevazione. Anche il linguista più colto e raffinato dei fan si attende che lo sciamano telecronista rispetti il catechismo dei luoghi comuni, le sciabolate e il baricentro, la rasoiata e l’ammucchiata, il furigioco millimetrico e l’attacco allo spazio, la squadra che si alza o si abbassa come le maree, l’ingenuità e la sassata, in attesa del risultato che si sblocca e, nella confessione della natura mistica del tifo, del miracolo del portiere. Anche se non risulta che nella storia del football un portiere sia mai stato proclamato santo.
Invano si è tentato di umanizzare il linguaggio, di renderlo più sofisticato, meno stereotipato. Il grande Gioann Brera provò telecronache per reti private lombarde e la originalità creativa del suo italiano urtò i telespettatori orfani di Quasi Goal Carosio e del Rete! Rete! Rete! di Nando Martellini. Bruno Pizzul usava per le sue telecronache formule sempre uguali come giaculatorie chiuse in un vocabolario limitatissimo e soltanto chi di noi lo conosce lontano dal microfono sa quanto colto, spiritoso, articolato sia. Ma la sera del 28 maggio 2002, nello stadio di Daejeon in Corea, Bruno dimenticò di dare inizio a Italia – Corea del Sud lanciando il suo classico «Partiti!!!». Spettatori italiani sconvolti chiamarono la Rai, gonfi di oscuri presagi per quel sacrilegio. E infatti l’Italia perse una delle più tragiche e oscene partite della sua storia. Visto?
Neppure le tragedie vere che periodicamente insanguinano il rito, dalle catastrofi di massa come all’Heysel agli omicidi individuali, dai roghi dei vecchi stadi britannici agli scontri fra ultras e polizia, allentano realmente la presa del tribalismo sui guerrieri immaginari. Licenziati come «mele marce», come «frange di estremisti», come «tragedie che non vorremmo mai vedere» in quelle sacrestie che passano per programmi televisivi di approfondimento, sono invece parte integrante del culto, neanche fossero tributi di sangue che la tribù paga al proprio Dio per continuare a credere oltre l’assurdo.
O come i Maya che nelle città dello Yucatan invece di retrocedere la squadra perdente al pallone, provvedevano a sacrificarla agli dei. In fondo sono loro, «le mele marce», i «non sportivi», i «cattivi» appollaiati nelle curve coloro che custodiscono per chi si crede più razionale il fuoco inestingubile dei rancori per le angherie subite, tramandando di padre in figlio il martirologio del Gol di Throne, del Fallo da Rigore su Ronaldo, del Goal Fantasma di Muntari, le Sudditanze, gli Aretini, le infamie arbitrali che un giorno saranno riscattate, magari grazie a quelle macchine astute e occhiute alle quali sarà affidatala giustizia contro gli altri. Sperando che non si applichi a noi.
È la certezza della sconfitta, tuttavia, non della vittoria, quella che cementa la tribù, una sconfitta che arriverà prima o poi per tutti, anche per chi sembra imbattibile, come scoprirono i tifosi del Brasile polverizzati dalla Germania nel 2014 e quanto più le sconfitte sono frequenti, tanto più diventano la fede e il collante che legano i clan nel loro inferno. Si formano e si cristallizano i miti che legano generazioni, come il 4 a 3 di Città del Messico contro i tedeschi, o la finale dell’Europeo 2000, perduto in pochi secondi residui contro una Francia che la Nazionale italiana aveva dominato. Ma il tifoso vive, muore e rinasce a ogni fischio d’avvio e ogni «triplice fischio» finale, in un ciclo che avvicina il sogno dell’etemità e della reincarnazione e induce persone che si credono razionali a squarciare la notte di Tokyo. O a rovinarsi il braccio lanciando vergognosi saluti dell’ombrello alla tribù dei tedeschi a Dortmund, dopo l’inverosimile goal di Grosso nella semifinale del 2002. Per fortuna, gli smartphone non c’erano ancora e la mia vergogna di selvaggio tifoso non divenne virale. La tribù deve proteggere i propri cavalli pazzi.
Vittorio Zucconi