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 2016  giugno 05 Domenica calendario

I MICROSCOPI DELLE STELLE

«Ci sono più cose in cielo e in terra, Orazio, di quante non ne sogni la tua filosofia». Così Amleto al suo dolce e colto amico nella tragedia di Shakespeare, a esprimere l’inquieta consapevolezza rinascimentale sulla limitatezza del nostro sapere. La scienza moderna non ha cancellato questa consapevolezza, anzi si radica in essa, e proprio grazie ad essa continua a cercare, a estendere e far evolvere la nostra comprensione del mondo.
Il percorso non si ferma. La rilevazione delle onde gravitazionali pochi mesi fa, per esempio, ci ha entusiasmato perché conferma una predizione della teoria di Einstein; ma ora che l’entusiasmo del momento si sta calmando, comincia a chiarirsi un messaggio contenuto nel segnale osservato, a cui all’inizio avevamo dato poco peso: l’onda è stata prodotta dallo scontro di due buchi neri di massa decine di volte il Sole. Se appena accesa l’antenna si è visto questo, significa che nell’universo ci devono essere molti grandi buchi neri di questa taglia, e questo non ce l’aspettavamo. Là fuori c’è ancora molto di cui non sospettiamo l’esistenza. L’universo ha sorprese in serbo per noi.
Il luogo privilegiato dove cercare le cose che ancora non sogna la nostra filosofia — o la nostra fisica — resta quello di sempre: il cielo. Perché? Perché il pianeta che abitiamo è un granello infinitesimo nella vastità del cosmo, ed è guardando fuori che vediamo altro. Per questo è stata l’osservazione del cielo a fare nascere l’astronomia alessandrina, prima grande scienza matematica dell’umanità; per questo, guardando il cielo con uno strumento nuovo, Galileo ha dato inizio alla scienza moderna; per questo in tempi recenti la cosmologia ha cambiato la nostra comprensione del posto che abbiamo nella natura, mostrandoci quanto sia infinitesimo il nostro pianeta nella vastità dell’universo. Per questo viene dal cielo, dalla scoperta della materia oscura, l’indicazione che il Modello Standard delle particelle elementari non basta... Poche cose ci hanno aiutato e continuano ad aiutarci a comprendere il mondo, quanto guardare il cielo.
Ma per guardare il cielo, serve un cielo limpido. E non ci sono posti al mondo con un cielo così limpido come l’Atacama.
Il Nord del Cile è il luogo della Terra che più somiglia a Marte. Un immenso deserto che si estende per migliaia di chilometri solo di pietra, sassi e una terra brulla e rossastra. Non un albero, non un cespuglio, neppure un filo d’erba per centinaia di chilometri. Una strana struttura orografica che confonde chi è abituato alle Alpi: ripida e scoscesa vicino all’oceano, si alza e si appiattisce verso gli immensi altipiani andini, che salgono fino a oltre 5 mila metri di altezza. Come se chi ha disegnato le Ande si fosse divertito a scambiare il ruolo di pianura e montagna, mettendo pianura in alto e montagne in basso. Per chi come me ama il deserto, forse non c’è posto altrettanto magico che queste altissime vaste pianure di sassi: la sensazione dello sterminato nulla. E sopra questo nulla un cielo da mozzare il fiato: luce accecante di giorno e, nelle notti senza luna, la più impressionante distesa di stelle che si possa immaginare: il cielo del deserto dell’Atacama.
Per l’assoluta limpidezza di questo cielo, convergono qui gli astronomi del mondo. L’altezza riduce lo spessore dell’atmosfera. L’aridità estrema riduce quasi a nulla l’umidità dell’aria. Guardare il cielo da qui è quasi come guardarlo da una capsula spaziale. I migliori strumenti che l’umanità ha oggi per scrutare il cielo sono qui. Il deserto dell’Atacama, il luogo più desolato e vuoto del mondo, è diventato l’occhio dell’umanità verso le stelle.
Diversi tra i telescopi più avanzati sono europei, gestiti dall’Eso, l’European Southern Observatory, ente scientifico che raccoglie diverse nazioni europee più il Brasile, e a cui l’Italia partecipa in maniera importante. L’Eso gestisce Alma, radiotelescopio formato da 66 grandi antenne mobili dislocate su un vasto pianoro a 5 mila metri di altezza. Osserva microonde (come quelle dei forni da cucina) provenienti dal cielo, prodotte da grandi nubi molecolari interstellari, da regioni intorno ai buchi neri, da sostanze organiche nello spazio e altri fenomeni. Su ciascuno di questi Alma sta offrendo una messe di informazioni. In collegamento con una rete di altri telescopi sparsi per il pianeta, Alma dovrebbe arrivare nel giro di qualche anno a darci immagini vere del grande buco nero, di massa un milione di volte il nostro Sole, che risiede nel centro della nostra galassia.
Ma gli strumenti più spettacolari nell’Atacama restano forse quelli ottici: i diretti discendenti del telescopio di Galileo. Sulla cima spianata di una montagna di 2.700 metri a picco sul Pacifico, il Cerro Paranal, giganteggiano quattro grandi tozze torri bianche immacolate. Ciascuna racchiude un grande telescopio con uno specchio principale di oltre otto metri di diametro. Sotto di solito l’oceano non si vede, perché è generalmente coperto da una scintillante distesa di nubi bianche. Ma le montagne salgono molto più alte delle nubi, là dove l’aria è secca e limpidissima. I quattro telescopi si chiamano Antu, Kueyen, Melipal e Yepun, che nella lingua mapuche , parlata in Cile prima dell’arrivo degli europei, significano Sole, Luna, Croce del Sud e Venere. Ciascuno di loro riesce a vedere stelle con una luce quattro miliardi di volte più debole delle stelle visibili a occhio nudo. Funzionando insieme, riescono a raggiungere la risoluzione angolare dell’ordine di un miliardesimo di secondo d’arco: potrebbero distinguere i due fari di un’auto sulla Luna. Una nuova tecnologia che i telescopi di Cerro Paranal stanno raffinando in questi giorni permette di eliminare quasi completamente anche il residuo effetto dell’atmosfera, e ottenere immagini più dettagliate di quelle spettacolari che solo qualche anno fa ha cominciato a fornire Hubble, il telescopio in orbita nello spazio.
La nuova tecnologia si chiama ottica adattiva, ed è basata su quattro potenti laser puntati verso il cielo. I laser proiettano un puntino sul cielo, che gli astronomi chiamano «stella artificiale». L’utilità della «stella artificiale» è che sappiamo esattamente dove si trova, e se la vediamo muoversi sappiamo che si tratta di movimento apparente causato dall’atmosfera. In questo modo sappiamo esattamente quale sia il movimento apparente generato in ogni istante dall’atmosfera e possiamo sottrarre questo movimento all’immagine delle stelle vere che il telescopio osserva. Parte della correzione è attuata in tempo reale distorcendo gli specchi riflettenti, che non sono rigidi. Grazie a questa tecnica si riesce a correggere le distorsioni di immagine provocate dall’atmosfera e ad avere immagini ancora più nitide di quelle che Hubble registra dallo spazio.
Ma il vero grande salto in avanti è nel prossimo futuro, e si chiama E-Elt: European Extremely Large Telescope. Da Cerro Paranal si vede un monte a poca distanza (qualche chilometro, ma nell’aria limpidissima dell’Atacama tutto sembra più vicino), il Cerro Armazones. Il picco del monte è stato spianato, la strada di accesso è costruita. Presto si inizieranno a erigere le strutture portanti del grande telescopio. Entro il decennio dovrà entrare in funzione il progetto più ambizioso dell’Eso: un telescopio ottico, dotato di ottica adattiva e con uno specchio principale di 40 metri di diametro. Come lo chiama l’Eso: «Il più grande occhio del mondo verso il cielo».
Vedremo cose che — rubando le parole di Rutger Hauer in Blade Runner — noi umani ora non possiamo ancora immaginare. Perché, ne siamo certi, ci sono più cose in cielo e in terra, di quante non ne sogni oggi la nostra filosofia.