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 2016  giugno 05 Domenica calendario

LA SCIAMANA GALATTICA

«Nel mio viaggio in Brasile ho fatto visita a una sciamana. Mi ha detto: “In nessun luogo ti sei mai sentita a casa”. Era la verità. “In nessun luogo ti sei mai sentita a casa perché non appartieni a questo pianeta. Il tuo Dna è galattico, vieni da stelle lontane. Sei venuta sulla Terra con uno scopo: insegnare agli umani a trascendere il dolore». Comincia così The Space in Between: Marina Abramovic and Brazil , il documentario di Marco Del Fiol che sarà presentato in anteprima italiana il 19 giugno al Biografilm Festival di Bologna.

Il film segue l’artista serba nella sua ricerca sulle connessioni tra arte e spiritualità. Un viaggio che ne risveglia in Abramovic un altro, interiore e personale, tra ricordi, dolore ed esperienze passate. Nel corso della sua vita, racconta a «la Lettura», si è spesso avvicinata ad altre culture. «Ho girato il mondo. Dagli aborigeni ai tibetani mi ha sempre affascinato l’idea di conoscere altre civiltà». Il viaggio in Brasile, osserva, è però legato anche a un periodo di personali turbamenti emotivi. «Da un lato sentivo il bisogno di trovare la pace, dall’altro quello di avvicinarmi a “poteri” che la cultura occidentale non riesce a capire o a spiegare. Come nel caso di Giovanni di Dio (Joao Teixeira de Faria, conosciuto come Joao de Deus o John of God, è un medium/guaritore che opera ad Abadiânia, piccola città a un centinaio di chilometri da Brasilia), attraverso cui si manifestano 120 spiriti. Ho assistito ad alcuni suoi interventi, ho visto persone malate alzarsi guarite. Sono stata testimone prima della loro disperazione poi della loro rinascita. Operazioni chirurgiche eseguite con il solo ausilio di pinze o coltelli, durante le quali i pazienti non provano dolore, ansia o sanguinamento, nonostante John of God non somministri tranquillanti, antidolorifici o antibiotici prima, durante o dopo l’intervento. E nessun caso di infezione si è mai verificato nel corso dei suoi 44 anni di attività. O di Narcisa Cândido da Conceição, Mãe Filhinha, a 109 anni così lucida e incredibilmente piena di vita, di gioia (è morta nel gennaio 2014 a 110): nel film non svela il segreto della sua longevità perché lo conosce solo Dio; o dell’anziana donna di colore che racconta come stiamo per entrare nella quinta dimensione».

I film sugli artisti spesso li mostrano in studio, mentre lavorano. «Io volevo mettermi alla prova, volevo vedermi, espormi. Non sono stata una turista in quelle culture: mi ci sono immersa e le ho vissute completamente». Anche a costo di fare esperienze terribili. «Come quando ho provato la ayahuasca, una droga allucinogena preparata per i riti di visione e di comunicazione con il divino. Non la prenderò mai più! Si dice che gli indiani dell’Amazzonia conoscano i poteri medicinali di alcune erbe perché l’ayahuasca ha trasmesso loro un sapere segreto. Ci sono molti scritti scientifici su questa droga. Ero curiosa, ne ho presa troppa. Perdendomi completamente». Cosa si aspettava di provare? «Chi l’ha assunta ha riferito una sensazione di “nascita”, ma non mi aspettavo di trovarmi così totalmente fuori controllo».

Per lei, spiega, questo film è importante «perché racchiude la visione di quello che sarà la mia arte, vedo il risultato del mio viaggio: gli altri. Sento il bisogno di indirizzare me stessa e il mio pubblico verso l’esperienza, che il solo modo per comprendere una performance è che sia esso stesso, il pubblico, a farla. Il mio è un metodo che posso applicare ovunque. E naturalmente il metodo è cominciato a Milano, in un parco, dove per la prima volta ho esplorato questo sistema. È appena finito un evento in Grecia di cui sono stata protagonista, che ha coinvolto 50 mila uomini e donne di ogni cultura, di differente etnia e gruppo sociale. Persino chi non è mai entrato in un museo è venuto per provare il mio metodo. In un certo senso è come se lavorassi per tutti».

Esiste una relazione tra arte e spiritualità? «In ogni espressione artistica c’è qualcosa di spirituale. Ma in questo viaggio quello che mi premeva era comprendere l’immaterialità dell’energia: non la si può dipingere su un muro, è invisibile. Per “sperimentare” questa energia occorre essere ricettivi, aprire se stessi, il proprio corpo. Imparare in quale modo farlo e provare a trasferire agli altri questa conoscenza. Non crediamo mai davvero alle nostre intuizioni, alla nostra capacità di auto-guarigione. Usiamo la medicina e le tecnologie pur avendo, dentro di noi, un potere enorme. Le persone che ho incontrato nel mio viaggio spirituale hanno una consapevolezza che manca a noi occidentali. Sono esse stesse una chiave per questa conoscenza. Tutto ciò che ho fatto là è stato studiare, come una piccola allieva».

Abramovic ha sempre sottoposto il corpo, nelle sue performance, a condizioni estreme (come testimoniano le cicatrici che la ricoprono), spesso dolorose. Quello che il pubblico porta via con sé è però un fortissimo potere emotivo. Che tipo di relazione c’è tra dolore fisico e dolore spirituale? «Sono due tipi diversi di dolore. Dopo quarant’anni di “lavoro” so che cos’è, e come gestire, superare, il dolore fisico. Il dolore spirituale, con cui è più difficile confrontarsi, nasce dalla mente. Ecco perché le mie performance spesso hanno più a che fare con l’emozione mentale che con quella fisica. Ci si può isolare nel posto più solitario al mondo — un deserto — e sentirsi all’inferno, un inferno creato dalla mente. Questo spiega perché le culture occidentali hanno bisogno di fare ricorso a tutta una serie di incredibili tecniche di meditazione per “svuotare” la mente, perché di questo parliamo: del bisogno di svuotare la mente».

Per molti il dolore è legato alla morte. E la morte è stata una costante dei suoi lavori negli ultimi anni, come Life and Death of Marina Abramovic e Seven Deaths . In fondo, anche in The Space in Between ognuno cerca di guarire se stesso, di sfuggire in un certo senso alla fine. Riflette: «Come dicono i mistici sufi “la vita è un sogno e la morte è il risveglio”. Ogni giorno che passa ci avvicina alla morte, è inevitabile, anche se c’è chi pensa di poter stare qui per sempre, facendo così uno spreco insulso della vita, senza capire quale dono prezioso ci sia stato dato. Bisogna avere ben chiaro che ognuno di noi ha uno scopo, e vivere ogni giorno come se fosse l’ultimo. Perché non sappiamo quando arriverà la fine. La morte è la conclusione del ciclo di vita di uomini, animali, piante: Dovremmo trattarla con gentilezza, esserle amici. Ignorandola o opponendoci a essa non possiamo vivere pienamente. Solo comprendendo che c’è una fine possiamo gioire di ogni singolo istante». È forse questo il motivo che l’ha spinta a mettere in scena la sua morte? «Si, è così. È qualcosa che appartiene alla mia cultura slava. Mia nonna aveva pronti i suoi “abiti da morta”, quelli con cui voleva essere seppellita, già da quando aveva quarant’anni. Poi la moda cambiava — negli anni Cinquanta andavano i pois, poi lo stile marinaro, dopo ancora il beige —, e lei si adeguava. Per essere sempre à la page ha cambiato gli “abiti da morta” così spesso che sembrava fosse pronta a morire da un momento all’altro! È un’impronta che mi si è stampata da qualche parte sin dall’infanzia, l’idea di essere sempre pronta a morire». Il ripetersi di un evento lo rende meno minaccioso? «Ricordo che The Life and Death of Marina Abramovic di Bob Wilson cominciava con tre bare — tre Marina —, io ero in quella al centro. E ogni notte ci rimanevo per quaranta minuti. Per tre anni abbiamo portato in scena lo spettacolo, e in quei quaranta minuti provavo a immaginare chi avrebbe potuto esserci in prima fila, chi avrebbe pianto e chi no, come insomma avrebbe potuto essere la mia morte. Riuscivo a visualizzarlo . Mi è stato di grande aiuto, penso che dovrebbero provare a farlo tutti!».

Che cosa rappresenta «lo spazio in mezzo» ( The Space in Between )? «È quello spazio dove davvero tutto avviene. È quando dalle comodità di casa vai all’aeroporto per prendere un aereo e non arrivi a destinazione, lo spazio nel mezzo è quello in cui sei aperto al destino, aperto alle cose che possono succedere, aperto all’avventura, ad assumere dei rischi, aperto a cose inaspettate. È lo spazio in cui vivi davvero pienamente perché non sei protetto e non applichi i soliti schemi a cui sei abituato. È uno spazio molto creativo. E penso che vivere nello spazio in mezzo sia per un artista il destino migliore».

Qual è l’esperienza vissuta durante il viaggio in Brasile che più le ha lasciato il segno, la prima che le viene in mente ripensando oggi al suo lavoro? «A parte quella con l’ayahuasca — orribile, la peggiore che abbia mai avuto: costretta all’immobilità per 17 ore senza controllo alcuno sul mio corpo! —, è stato meraviglioso, liberatorio rompere le uova tra le mani: un modo per svuotarsi di tutte le energie negative. Ho capito come lavorano gli sciamani. E naturalmente l’emozione più profonda è stata al termine del film, quando 260 mila persone hanno preso parte al metodo Abramovic. Ho avuto la soddisfazione di vedere che il mio metodo funziona davvero».