Manlio Graziano, La Lettura 5/6/2016, 5 giugno 2016
BRITANNIA INFELIX
Lo scapigliato ex sindaco di Londra Boris Johnson ha sollevato tempo fa un vespaio di polemiche affermando che, in passato, «Napoleone, Hitler e altri» avevano già tentato di unificare l’Europa, con risultati tragici per il continente. Johnson non è un aspirante storico, ma un aspirante inquilino del 10 di Downing Street, e le sue ricostruzioni ne soffrono visibilmente. Ma il loro difetto maggiore, in questo caso, non è tanto il criticato e abborracciato paragone dell’Unione Europea con la Francia napoleonica e la Germania hitleriana, quanto l’anacronismo: il Regno Unito di oggi non è più quello che è intervenuto tre volte (almeno) sul continente per, Johnson dixit , «salvare l’Europa da se stessa».
L’anacronismo è il mostro in agguato dietro a ogni utilizzo della storia a fini immediatamente e strumentalmente politici. Quel mostro cresce oggi a un ritmo proporzionale alla rapidità delle trasformazioni storiche: poco più di una decina di anni fa, nel Regno Unito, si discuteva se aderire all’euro; oggi si discute se uscire dall’Unione Europea. Allora, l’adozione della moneta unica era salutata come l’apice di un processo destinato a fare dell’Ue, e quindi di tutti i suoi membri, la superpotenza del futuro, in grado di rivaleggiare con gli Stati Uniti e di surclassarli. Oggi, ben poco resta di quello slancio, e quasi nulla della forza di attrazione di allora.
Nel 1990 — quasi un’era geologica fa — le dimissioni di Margaret Thatcher furono da alcuni interpretate come la capitolazione britannica di fronte all’ormai ineluttabile marcia trionfale dell’Europa. Ma si dibatteva anche, allora, sul ruolo che, in quella marcia, avrebbe avuto il Regno Unito ormai orfano della Lady di ferro. Da una parte, c’era chi sosteneva che la terza gamba britannica, aggiungendosi alla gamba politico-militare della Francia e a quella economica della Germania, sarebbe stata il fattore decisivo nella trasformazione dell’Europa in superpotenza globale. Altri, invece, affermavano che quella resa era l’ennesima prova dell’estraneità britannica rispetto al continente. Tesi, questa, persistente e diffusa: nel capitolo dedicato all’Europa del suo libro sulla «vendetta della geografia», per esempio, Robert D. Kaplan non cita neppure una volta il Regno Unito; i confini delle sue «cinque Europe» (mediterranea, carolingia, bizantino-ottomana, prussiana e asburgica) si arrestano sulle sponde della Manica, come le armate di Napoleone e di Hitler, appunto.
L’esaurirsi della spinta propulsiva del progetto europeo ha oggi ridato fiato all’isolazionismo britannico. Ma, quale che sia l’esito del referendum del 23 giugno, quanto è plausibile la tesi dell’estraneità del Regno Unito nei confronti del continente?
Lo studioso francese Philippe Moreau Defarges ricorda che il Giappone e l’Inghilterra condividono la sorte di essere due isole affacciate da una parte su una massa continentale e, dall’altra, sull’immensità oceanica; ma i loro punti in comune finiscono qui, perché, afferma l’autore, «l’Inghilterra monarchica non è nata isola, lo è diventata alla fine della guerra dei Cent’anni». La storia dell’Inghilterra, però, è rimasta strettamente connessa a quella dell’Europa anche dopo il divorzio dalla Francia; si potrebbe anzi dire che è diventata la prima vera superpotenza mondiale proprio giocando sulla dialettica di appartenenza/estraneità al continente: trarne i massimi benefici, facendosene coinvolgere solo per impedirvi l’emergere di una potenza rivale.
Secondo il filosofo della politica francese Thomas Van der Hallen, è proprio a questa dialettica che si deve imputare l’attuale isolamento del Regno Unito. Lo studioso fa riferimento ai lavori di Jacques Godechot e Robert Palmer per ricordare che esiste una sesta dimensione europea oltre alle cinque disegnate da Kaplan: quella rivolta verso il «gran largo», gli spazi oceanici, che alla fine del Medioevo includeva, oltre all’Inghilterra, anche l’Olanda, le potenze iberiche e la Francia occidentale (dove troverà espressione nel bordolese Montesquieu, nel normanno Tocqueville, e nei girondini durante la Rivoluzione, sconfitti dai giacobini «carolingi» e dal «mediterraneo» Napoleone). Ma imponendo la propria supremazia marittima esclusiva tra la fine della guerra dei Sette anni (1763) e la fine delle guerre napoleoniche (1815), conclude Van der Hallen, l’Inghilterra ha minato le basi continentali dello spazio oceanico e si è esclusa dall’Europa.
L’ideologia dominante di quel passaggio storico — la splendid isolation — fu messa in crisi dall’unificazione tedesca del 1871. L’isolamento, infatti, era splendidamente garantito dalla balance of power in Europa, cioè dall’equilibrio costruito al Congresso di Vienna del 1815 per impedire che una potenza si sentisse sufficientemente forte da tentare di imporsi sul resto del continente; un sistema mandato in frantumi dalla nascita del Secondo Reich. L’ entente cordiale firmata con l’arcinemico francese nel 1904 segna il ritorno del Regno Unito da questa parte della Manica, ed è il preludio ai due interventi armati sul continente, nel 1914 e nel 1939.
La splendid isolation e l’ entente cordiale , benché politiche opposte, sono entrambe frutto della forza imperiale. Quando Churchill portò per l’ultima volta l’esercito di sua maestà a «salvare l’Europa da se stessa», Londra governava ancora, direttamente o indirettamente, un quarto della popolazione mondiale, distribuita su più di 37 milioni di chilometri quadrati. Benché declinante e drammaticamente indebitato, il Paese pensava e agiva ancora in un orizzonte imperiale. Nel 1963, quando Londra avanzò la sua candidatura al Mercato comune, la situazione era completamente cambiata. L’impero si era dissolto, gli inglesi e i francesi erano stati umiliati a Suez. L’isolamento aveva cessato di essere splendido, e aveva altresì cessato di essere un’opzione.
Tre anni prima di sollecitare l’ingresso nella Cee, il Regno Unito aveva creato la «sua» area di libero scambio, l’Efta, insieme alle neutrali Austria, Svezia e Svizzera, al Portogallo, e altri tre Paesi riottosi nei confronti dell’Europa franco-tedesca, Danimarca, Islanda e Norvegia. Ma quel tentativo dimostrò di avere il fiato corto, economicamente e politicamente, e a Londra non restò che incamminarsi verso la Canossa di Bruxelles, disponendosi anche a subire, lungo tutto quel decennio, l’irriverente veto di de Gaulle.
Boris Johnson — e qui sta il suo anacronismo — vorrebbe oggi azzerare tutto, proponendo di rendere di nuovo grande la Gran Bretagna, come se l’elettorato britannico (o quello americano o francese, o austriaco) potesse semplicemente abolire quel che è successo negli ultimi settant’anni e ricominciare tutto daccapo. Beninteso, neppure l’ex sindaco di Londra osa sognare la riconquista dell’India e la ricostituzione dell’impero. Quale, allora, il destino geopolitico della Brexit?
Scisso dal suo nesso continentale e privo di dimensione oceanica e imperiale, il Regno Unito rischia di ritrovarsi in una terra di nessuno geopolitica, vestendo sempre più i panni di quell’«attore geostrategico in pensione, sdraiato sui suoi splendidi allori» dipinto con perfido realismo da Zbigniew Brzezinski alla fine del secolo scorso. Ammesso che non perda pezzi per strada, potrebbe tutt’al più sperare di ricostruire un’Efta dei riottosi, con gli altri Paesi che hanno rifiutato l’Ue, come l’Islanda, la Norvegia e la Svizzera, o che hanno rifiutato l’euro, come la Svezia e la Danimarca, con un’Opa su altri confusi anch’essi circa il proprio destino geopolitico, come la Polonia, la Repubblica Ceca o l’Ungheria. Ma quell’esperimento di «sesta Europa» britannica è già stato tentato, nel 1960. Ed è durato tre anni.