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 2016  giugno 09 Giovedì calendario

L’ABITO (NON) FA IL MONACO

Fa notizia che nel Regno Unito una receptionist di Pricewaterhouse Coopers, Nicola Thorp, venga mandata a casa perché si rifiuta di portare i tacchi alti. Fa notizia che la stessa azienda, però in Australia, rimuova il dress code dalla policy aziendale e permetta ai dipendenti di decidere come vestirsi, anche se con una premessa simile a un avvertimento: «Chiediamo di pensare a ciò che fanno ogni giorno in azienda, ai rapporti che avranno e di vestirsi in un modo che li rappresenti. Crediamo nel buon senso e nel giudizio dei nostri dipendenti». Fa notizia in Italia che, dopo l’ordine di servizio del direttore di Rai Parlamento, Gianni Scipione Rossi, che ha messo nero su bianco abiti, camicie, accessori e colori per i conduttori dei Tg, la neo direttrice di RaiTre Daria Bignardi convochi costumiste e truccatrici per dettare il nuovo dress code femminile. Niente più abiti fascianti o tubini, soprattutto neri, troppo sexy. Niente orecchini vistosi e tacco 12, trucco leggero. Per gli uomini completo classico (gessato e non) con camicia e cravatta di buon gusto. La policy aziendale sul dress code, che sia obbligatoria o solo consigliata, fa notizia. Perché, insomma, sembrava proprio che la realtà «disruptive» in cui viviamo avesse additato il business dress code come fuori moda. E invece pare serva ancora, e parecchio, non solo a distinguere i ranghi aziendali ma a rafforzare il senso di appartenenza dei propri dipendenti.
«Il trend in Italia sta virando in sintonia con i cambiamenti che interessano tutto il mondo del lavoro: smart working, benefit familiari, open-space cambiano e cambia anche il dress code» ci spiega Giordano Fatali, fondatore di HRC Academy e HRC Executive Search, un network per i professionisti delle Risorse Umane che conta oltre 300 aziende. «Dentro un panorama così frastagliato, in azienda più che di regole si può e forse si deve parlare di accorgimenti. Non esiste un preciso dress code. Esiste piuttosto, e anche fortemente radicata, un’attitudine al rispetto dell’importanza del lavoro. Se curo me stesso in tutti i miei aspetti, abiti, comunicazione o atteggiamento, dimostro quanto sia motivato e quanto desideri far bene. Il dress code si libera dell’idea rigida della divisa per ancorarsi a concetti come eleganza e rispetto».
Sarà. Di fatto la questione appassiona e spinge a battagliare. La receptionist di cui sopra ha raccolto in tempo record grazie ai social 140 mila firme da spedire in Parlamento, il network tv britannico Itv ha lanciato un sondaggio schiacciante e la società interinale che aveva in carico la receptionist ha cambiato policy: per le sue iscritte saranno sempre permesse le scarpe basse. I media poi usano per trattare l’argomento toni da agenda di emergenza. Il New Tork Times titola «Il dress code in ufficio è morto», ovvero: le donne possono vestirsi come vogliono. E mette a confronto casi preistorici in cui le linee guida fecero scandalo, come accadde nel 2010 per la svizzera Ubs, con un booklet di 44 pagine in cui si sindacava sulla sfumatura della biancheria intima, e provocazioni di oggi: Mark Zuckerberg, per dirne una, dice di indossare ogni giorno la stessa t-shirt grigia, così può concentrare le energie su altre decisioni. Fortune, di contro, afferma: «Ecco perché il NYT ha torto su come le donne devono vestirsi sul luogo di lavoro» e chiede ai colleghi se abbiano mai visitato un ufficio reale: donne avvocato, consulenti aziendali, professioniste della finanza o executive non si vestono affatto come pare a loro. Anzi.
«Anche se si è forse leggermente meno formali e meno griffati o esibiti, l’abito fa ancora il monaco, almeno per il messaggio che vuole mandare. Aiuta a creare l’immagine e a stabilire il confine» specifica Flavia Mirabelli, responsabile risorse umane in Bombardier e prima in Alitalia. «I capi irrinunciabili per un top manager uomo, con cui le aziende sono più esigenti, rimangono camicia azzurra, bianca o a righine, scarpe nere stringate, vestito blu/grigio lana, frescolana o cotone, calzini lunghi neri o blu, cravatta, anche particolare, ma senza esagerare. Per una donna manager: tailleur gonna o pantaloni, nero, blu o grigio, tacchi anche alti, ma comodi, camicia di seta, foulard. La borsa è uno statement». Alle donne si concede di più e si commenta di più. In Italia si nota la creatività del look, la qualità del capo. «All’estero si dice “giacca e cravatta” e poi va bene anche se non sono in ordine o abbinati con gusto» continua Mirabelli. «Nei colloqui di assunzione la cura della persona, l’attenzione alla pulizia, all’ordine dell’abbigliamento contano parecchio. Se l’intervistatore ricorda il vestito più che l’intervistato non è un bene. È meno in voga il “casual Friday”, anche se l’estate è un periodo terribile, in cui se ne vedono delle belle».
I top manager dunque sembrano dar ragione a Daria Bignardi, nonostante la Silicon Valley e le social company giudichino chi porta giacca e cravatta semplicemente «overdressed». E nonostante lo scorso fine settimana il Museo del Fashion Institute of Technology di New York abbia aperto una mostra dal titolo «Uniformity», dove grazie a una collezione di abiti da lavoro, scolastici, militari e sportivi, si sancisce l’anacronismo della nozione di «divisa», gli stylist si schierano a favore dell’uniforme professionale: nella guida al femminile di Harper’s Bazaar su che cosa indossare al lavoro per il 2016 non c’è nemmeno una scollatura. Gli abiti sono ampi, così come i pantaloni. Numerose le dolcevita e i golfini. Poco trucco. Orecchini inesistenti o invisibili. Capello corto o liscio. Ed è di qualche giorno fa anche l’inserto speciale «Carriere» del Time, che prevede le mosse giuste per il percorso professionale: tra queste, il dress code è inevitabile: «Vestitevi per il ruolo che vorreste avere, non per quello che già ricoprite» consiglia la guru americana della consulenza di immagine corporate Sylvie Di Giusto. Perché aderire al dress code è ancora un ottimo modo per fare carriera. E qualcuno dei manager intervistati ci rivela off records che cosa un’azienda globale oggi non potrebbe mai accettare, con conseguenti provvedimenti. Prendete nota: tutto quello che si fa notare come stravagante non va. Tutto ciò che crea un commento ironico (o peggio) o è troppo esibito non può andare. Uomini e donne piuttosto anche ai limiti del neorealismo, ma in ordine. Essere puliti, non aggressivi nemmeno negli odori. No leggings, no tute, no biancheria a vista, no calzini corti, no profumi asfissianti, no capelli sporchi, no camicie gialline, verdine, beige. No cravatte urlate.
Sono passati quasi trent’anni, dunque, ma i tempi del film Una donna in carriera di Mike Nichols, in cui Melanie Griffith acquistava punti in ufficio a suon di tailleurini giusti non sono affatto terminati. E potrebbe addirittura tornare utile un testo che ormai si trova solo nei remainder’s o su ebay: A guide to casual businesswear, un manuale datato 1992 e inviato a 25 mila HR Director in cui veniva spiegato per filo e per segno il concetto di business casual, edito dal brand di casual jeans più famoso del mondo, Levi’s.
«Le aziende globali si aspettano un outfit formale dai dipendenti» chiarisce Joanna Bown, executive coach internazionale con base a Milano. «Google, Facebook o un’azienda alimentare o vinicola possono permettere un abbigliamento casual o di tendenza. Due le regole d’oro: pensare alla cultura dell’azienda, non al proprio ruolo. E fondamentale, per le donne: evitare gonne corte, capelli troppo lunghi, rossetto rosso. Restare femminili senza mai essere sexy».