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 2016  giugno 09 Giovedì calendario

GIOVANI, ARRABBIATI, FRANCESI

Non sono tempi felici per quasi nessuno in Europa, o perlomeno fra i Paesi della zona euro (fra le poche eccezioni l’Irlanda, tornata a crescere sopra il 5 per cento). Se consideriamo i quattro Paesi maggiori, solo la Germania se la passa relativamente bene, a dispetto di qualche guaio con l’immigrazione e con la Turchia. Della crisi di Spagna e Italia si sa, perché dura da quasi un decennio, ovvero da quando la grande recessione e le tempeste sui mercati finanziari hanno impietosamente messi a nudo tutti i limiti di due economie fragili, troppo dipendenti dal mercato immobiliare (soprattutto la Spagna) e dal debito pubblico (soprattutto l’Italia). Un po’ meno nota è la crisi della Francia, di cui ultimamente si sono dovute occupare anche le cronache.
Anche lasciando perdere vicende non recentissime, come gli scandali politici, l’incauto intervento militare in Libia, l’ascesa delle forze anti-immigrati e antieuro, gli attacchi terroristici del 2015 (assalto alla sede di Charlie Hébdo, strage del Bataclan), colpisce la sequenza di infortuni, se così possiamo chiamarli, che negli ultimi mesi hanno colpito la Francia, e in particolare la capitale Parigi. Fra essi gli scioperi in settori e gangli essenziali della vita economica, come i bus, la metropolitana, gli aerei, i taxi, e persino le centrali nucleari.
Ma, soprattutto, le dure manifestazioni contro la cosiddetta «Loi travail» (legge lavoro), una legge tecnicamente piuttosto diversa dal Jobs act italiano ma comunque ispirata alla medesima filosofia: liberalizzare il mercato del lavoro, aumentando i gradi di libertà delle imprese e riducendo alcuni diritti e tutele dei lavoratori. Colpisce, nel confronto con l’Italia, il fatto che i due governi Valls e Renzi, entrambi di sinistra (ancorché assai blanda, più rosa che rossa), siano impegnati nello stesso genere di politiche, ma incontrino resistenze tanto diverse.
In Italia il Jobs act è passato praticamente senza colpo ferire, mentre in Francia la «Loi travail» ha suscitato e sta suscitando una reazione molto vigorosa da parte della popolazione e delle forze sindacali.
In Italia il sindacato non ha scalfito in alcun modo l’impianto della legge, né si è mobilitato in modo efficace per obiettivi generali, limitandosi a (tentare di) difendere i posti di lavoro pericolanti nelle grandi realtà produttive in crisi. L’onnipresenza di Maurizio Landini, segretario della Fiom (il sindacato dei metalmeccanici legato alla Cgil), in tutte le reti televisive, gli è valsa una breve stagione di celebrità, ma non pare aver spostato di un millimetro i rapporti di forza con il governo e con le imprese.
In Francia è perfettamente possibile che i sindacati perdano la partita (come i sindacati inglesi ai tempi della Thatcher), ma non si può dire che non stiano vendendo cara la pelle: le manifestazioni di piazza si susseguono e la Cgt (il maggiore sindacato francese, per certi aspetti simile alla nostra Cgil) si batte per un taglio dell’orario settimanale da 35 a 32 ore.
Perché i governi francese e italiano sono incamminati su binari simili? E perché la reazione delle rispettive opinioni pubbliche è così diversa?
La risposta alla prima domanda non è difficile: anche se lo Stato francese è incomparabilmente meglio organizzato dello Stato italiano, le due economie hanno malattie simili. In entrambi i Paesi i conti pubblici sono in grave disordine (in Italia sul versante del debito, in Francia su quello del deficit); in entrambi i Paesi l’interposizione pubblica, ossia la somma di tasse e spese, ha raggiunto livelli patologici; in entrambi i Paesi l’economia è in stagnazione. È quindi comprensibile che i rispettivi governi, non avendo alcuna volontà (o possibilità politica) di aggredire la spesa pubblica, puntino molte delle loro carte sulle riforme a costo zero, come il Jobs act e la Loi travail o, in Italia, la riforma della pubblica amministrazione (attuata senza una incisiva spending review).
Più difficile spiegare perché in Francia il governo incontri qualche resistenza, e in Italia no. Una possibile ragione è l’arretratezza culturale del sindacato italiano, che ha dilapidato un capitale di autorevolezza e prestigio conquistato negli anni ’70. Un’altra è, all’opposto, l’arretratezza dell’opinione pubblica francese.
Il fatto che la Francia sia un Paese ricco, con riserve di risparmio e di patrimonio ingenti, con una qualità di vita altissima, con una «cultura dei diritti» molto radicata, forse risalente addirittura alla rivoluzione del 1789 e alle sue promesse, impedisce ai francesi di prendere atto della realtà, e cioè del fatto che il modello francese non è più sostenibile se la Francia, come l’Italia, continua a non crescere, o a crescere a un ritmo inferiore a quello di espansione del suo debito pubblico.
A questa falsa credenza contribuisce, per ora, l’indulgenza dei mercati finanziari, che continuano ad assimilare la Francia ai Paesi forti, come Germania e Olanda, e non ai Paesi deboli, come Spagna e Italia. Un privilegio probabilmente legato anche alle dimensioni dell’economia francese, percepita come «troppo grande per fallire», ma che non è detto sia destinato a durare in eterno.