Aurelio Picca, Linus 6/2016, 9 giugno 2016
VALENTINO STA RIDENDO DA GATTO
[Valentino Zeichen]
Ero ragazzo e lui, Valentino, leggeva i suoi versi d’Avanguardia, da anti-Avanguardia, con quella voce appuntita sulle lettere e sillabe. Quella voce, non da lettore integerrimo, ma molto Valentinois: costrutta, cioè, di adolescenza, attoralità, ironia e un lieve disprezzo. Si era presso l’Università La Sapienza di Roma. I poeti Luzi, Erba, Caproni, eccetera, facevano banchetto in giacche fresco di lana mentre il fiumano ne indossava una di velluto a righe color marron glacé. Gli conferiva l’aspetto del campagnolo e di un particolare nordico sceso in città. Sempre io ragazzo, il Valentino lo si vedeva tra la polvere delle strade in estate con i sandali ai piedi, un paio di pantaloni bluastri da spazzino trattenuti non da una cinta di cuoio bensì da uno spago e una camicia bianca mal stirata. Portava anche una busta di plastica in mano, forse dentro non c’era nulla.
In seguito diventammo amici. Ci siamo sempre sfidati a duello. Ovviamente andai a trovarlo nella sua baracca. Leggevamo Ciro di Pers. La baracca che ho sempre creduto fosse come la casetta della Madonna che dall’Est giunge a Loreto, nelle Marche. La baracca di Valentino Zeichen è un luogo dell’anima. È una porzione di Patria che si è portato a Roma da Fiume. Essa è l’urlo di una battaglia non combattuta. È la malinconia e il rimpianto di un’infanzia remota eppure ardente in petto, così tanto da prenderla a calci per non venirne arso vivo.
Da ultimo ci siamo sfidati sugli spermatozoi. In pubblico, alla presentazione del mio Se la fortuna è nostra (romanzo famigliare e patriarcale), mi disse perché non mi ero ancora “riprodotto”. Allora, fresco di analisi biologiche, tirai fuori dalla tasca i dati sui miei spermatozoi “combattivi” e “veloci”. E da quel giorno, per sancire un’amicizia sempre più avvinghiata, incominciai a provocarlo dicendogli: “Guarda, fa’ attenzione! Puoi essere mio padre”.
Un sabato di un mese fa non avevo gas per raggiungere un amico che festeggiava il suo compleanno. C’era anche Valentino. L’amico mi disse: “Se non vieni non sarai perdonato”. Così montai in auto e a centottanta all’ora mi feci la Pontina con Valentino al telefono che rideva e cronometrava il tempo. Non avevamo fatto nessuna scommessa. Ma stavamo scommettendo. La sera è stata superba, non di mangiare e bere, ma per le poesie recitate e per l’abbraccio che ci siamo regalati. L’indomani, invece, vengo a sapere che Zeichen, il Comandante, è stato colto da ictus. Un colpo che gli etruschi addebitavano al nostro staccarci dal Cielo.
Valentino è al San Camillo. Valentino ha la parte destra paralizzata. Valentino non parla. Accanto a Valentino si forma una risacca di amici, confidenti, curiosi che vorrebbero invitarlo a pranzo proprio adesso che il cibo e l’acqua e il vino gli sono proibiti. Ma Valentino non muore. Resiste. Non muore. Al momento è accanto al Sacrario delle Fosse Ardeatine. Un luogo dell’anima che ricorda la sua vita di istriano esule. Combatte, però. Non è stato fucilato. E il suo contatto con il Cielo (per dirla con il più nobile dei popoli italici) ha ripreso a funzionare. Intanto gli è stato conferito il vitalizio della legge “Bacchelli”. Allora Viva lo Stato Ladro! Abbasso lo Stato Ladro! Sono sicuro che detta così il Valentinois sta ridendo da gatto.