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 2016  giugno 09 Giovedì calendario

ARTICOLI SU HILLARY DAI GIORNALI DI GIOVEDI’ 9 GIUGNO – GIUSEPPE SARCINA, CORRIERE DELLA SERA – Le strategie di Hillary Clinton e di Donald Trump, di fatto, sono pronte

ARTICOLI SU HILLARY DAI GIORNALI DI GIOVEDI’ 9 GIUGNO – GIUSEPPE SARCINA, CORRIERE DELLA SERA – Le strategie di Hillary Clinton e di Donald Trump, di fatto, sono pronte. La «presumptive nominee», la nominata in pectore dei democratici, ha già cominciato a rappresentare il miliardario newyorkese come un pretendente «pericoloso», non solo perché «razzista» o «xenofobo», ma soprattutto perché «incompetente» e «velleitario». La prova generale si è vista il 2 giugno, in un comizio a San Diego sulla politica estera. L’ex Segretario di Stato ha sviluppato le implicazioni contenute nelle proposte di Trump, prefigurando uno scenario di isolamento per gli Stati Uniti e di instabilità planetaria. Hillary adotterà lo stesso metodo continuando la serie con l’economia, la sicurezza interna, le politiche energetiche e ambientali, l’educazione, la salute. L’obiettivo è attirare una parte dei moderati repubblicani, sempre più a disagio con le sortite del loro portabandiera. L’ultima quella sui giudici di origine messicana, incapaci di «giudicare con obiettività». Lo staff di Trump, guidato dal consigliere Paul Manafort , si sta concentrando da settimane sull’evoluzione presidenziale del candidato conservatore. Ma finora, oggettivamente, non si è vista traccia di questo lavoro. Il tycoon preferisce puntare sugli attacchi personali, sul «carattere inaffidabile di Hillary». Ora sta raccogliendo fatti antichi e recenti sulla famiglia dell’avversaria, dalla stagista Lewinsky alle mail riservate dell’ex Segretario di Stato, fino ai finanziamenti della Fondazione Clinton. Con questo materiale Trump confezionerà il discorso molto aggressivo, già fissato per la settimana prossima. Dovrebbe essere il primo di una lunga sequenza, da qui a novembre. C’è, però, ancora un’incognita importante, in un Paese che è uscito dalle primarie con un assetto tripolare: il populismo di Trump, il centro sinistra di Clinton e l’area radicale di Sanders. Che cosa farà il senatore del Vermont? Ieri notte, parlando a Santa Monica, in California, ha rilanciato la sua campagna, tra le ovazioni. Il leader settantaquattrenne ha detto che «non si può consegnare il governo del Paese a Trump»: la folla ha risposto con un boato e con i fischi. Poi il senatore ha riferito di «aver avuto una cordiale telefonata» con «Secretary Clinton», ma dalla platea è arrivato un prolungato «buuu». Sanders, tuttavia, ha fallito l’ultimo assalto, perdendo in maniera netta in California: 43,2% contro il 55,8% della rivale. I sondaggisti e tutti noi ci aspettavamo un testa a testa o addirittura un’affermazione dell’outsider. Previsioni, analisi sbagliate. Ma la vittoria di Hillary non ha risolto il suo problema politico ora più urgente: come recuperare l’elettorato anti-establishment di sinistra che ha innervato, con grande entusiasmo, la stagione di Bernie? Come evitare che Trump possa infiltrarsi nel «movimento», pescando tra quel 25% di elettori che dice di non essere disponibile a votare Hillary? C’è solo un modo per farlo: trovare un’intesa con lo sconfitto. E questo, al momento, è il passaggio più complicato. Su una cosa, però, i due concordano. Occorre un mediatore, un garante: serve l’uomo che siede alla Casa Bianca. Barack Obama si è già fatto vivo sia con l’una che con l’altro. Ma è significativo che sia stato proprio il senatore del Vermont a sollecitare un colloquio approfondito con il presidente. I due si vedono oggi a Washington. Che cosa chiede Sanders? Per il momento ha ottenuto un risultato minimo: piazzare 5 suoi collaboratori tra i 15 componenti del comitato ristretto che lavorerà alla piattaforma programmatica, da approvare nella Convention di Filadelfia, il 25 luglio prossimo. Evidentemente non basta. Il leader movimentista vuole che siano recepite alcune delle sue proposte, appoggiate da 10 milioni di persone: sanità e università gratuite per tutti, più tasse per i «millionaires e billionaires», stretta sui finanziamenti alla politica. Idee radicali, secondo i parametri ideologici degli Stati Uniti. Tocca a Obama suggerire un compromesso non facile. Giuseppe Sarcina *** SERENA DANNA, CORRIERE DELLA SERA – Sorride Moira Weigel pensando all’ hashtag esploso ieri su Twitter: #GirlIGuessImWithHer (Sto più o meno con lei) che gioca con lo slogan ufficiale di Hillary Clinton. Ricercatrice all’università di Yale in gender, media e cultura e autrice del celebrato Labor of Love: The Invention of Dating , a 31 anni Weigel si riconosce in quelle giovani donne che appoggiano con un po’ di amarezza — e solo in funzione anti-Trump — la candidata democratica alla presidenza degli Stati Uniti. Nonostante ce l’abbia messa tutta, Clinton non riesce a presentarsi come icona femminista. Perché? «Credo che molte giovani donne siano deluse o poco interessate al femminismo “rappresentativo”: l’idea per cui un numero sufficiente di donne, prendendo il potere, riuscirà a cambiare le condizioni di vita di tutte. Non mi pare sia successo. La filosofa Nina Power lo spiega bene nel libro One Dimensional Woman a proposito di Condoleeza Rice: una donna afroamericana Segretario di Stato sembrava un risultato straordinario. Eppure ha utilizzato il suo potere soprattutto per bombardare donne e bambini in nome del femminismo». Questa contraddizione vale anche per Clinton? «Molte femministe di sinistra risponderebbero dicendo che l’aver consentito ad alcune donne bianche dell’alta borghesia di prendere il potere ha permesso alle istituzioni patriarcali di disinnescare il movimento femminista. Tuttavia credo che la mancanza di entusiasmo nei confronti di Hillary sia legata più a fattori economici e generazionali che a questioni di genere». Ovvero? «Negli Stati Uniti stiamo assistendo alle prime elezioni in cui si parla apertamente di classi. Il mito della middle class americana è finito, e le giovani generazioni che vivono nell’ansia del precariato provano rabbia verso l’establishment, di cui Hillary Clinton è la personificazione. È difficile non pensare alle politiche Clinton degli anni Novanta sull’incarcerazione di massa o alla riforma del welfare del 1996 che, seppellendo il New Deal , ha avuto ripercussioni terribili sulle madri single e povere». Non crede che sia ingiusto associare Hillary Clinton alle politiche del marito Bill? «Hillary ha fatto campagna per il marito sulla riforma del Welfare, e ha cercato di costruire intorno a essa la sua reputazione. È troppo “contaminata”. Se al posto suo ci fosse Elizabeth Warren, lo scenario sarebbe diverso. Sono sicura che avremmo visto reazioni entusiastiche anche tra le giovani supporter di Sanders». Warren vicepresidente l’aiuterebbe a guadagnare consenso? «Sì ma non credo che Warren accetterebbe. Ha costruito una coalizione forte a Capitol Hill. Può fare di più al Senato». Alcune femministe della generazione baby boomer ritengono che i giovani scambino l’esperienza politica per potere tout-court. «C’è mancanza di tatto e molto paternalismo nella maniera in cui alcune, penso a Gloria Steinem e Madeleine Albright, si rivolgono alle più giovani. Dopo di che, l’argomentazione dell’esperienza politica di Hillary mi persuade abbastanza. Infatti voterò per lei». Parliamo di politiche. Come giudica quelle di Hillary? «La trovo sincera quando si batte contro i repubblicani che hanno dichiarato guerra ai diritti riproduttivi delle donne e sono sicura che si impegnerà per il congedo parentale obbligatorio che è l’unico modo per favorire l’eguaglianza sul posto di lavoro. Invece sono preoccupata per l’approccio militarista che ha avuto in politica estera. È come se dovesse dimostrare di essere “dura” agli occhi dei maschi. La solita trappola per le donne in politica: sei sempre troppo debole o troppo forte». *** DISCORSO DI HILLARY, CORRIERE DELLA SERA – Hillary Rodham Clinton È meraviglioso essere di nuovo a Brooklyn, in questo splendido edificio. Stasera può essere difficile vederlo, ma in questo momento siamo tutti qui sotto un soffitto di vetro. Non preoccupatevi. Non lo stiamo distruggendo. Grazie a voi, abbiamo raggiunto una pietr a miliare. Per la prima volta nella storia della nostra nazione una donna sarà il candidato alle presidenziali di un grande partito. Stasera la vittoria non riguarda solo una persona. Appartiene a generazioni di donne e uomini che hanno lottato e si sono sacrificati e hanno reso possibile questo momento. Nel nostro Paese, tutto è iniziato proprio qui a New York, in un luogo chiamato Seneca Falls, dove nel 1848 un gruppo di donne e uomini, piccolo ma determinato, si è riunito con l’idea che le donne meritino uguali diritti, e ha fatto una dichiarazione che è stata la prima del genere nella storia dell’umanità. Dobbiamo molto a chi ci ha preceduto, e questa notte appartiene a tutti voi. Voglio congratularmi con il senatore Sanders per la sua straordinaria campagna... So che non è piacevole dedicarsi con tutto il cuore a una causa o a un candidato in cui si crede e restare delusi. Conosco bene quel sentimento. Ma, guardiamo avanti, ricordiamoci cosa so no gli Stati Uniti. Noi tutti vogliamo un’economia con più opportunità e meno ineguaglianze, dove Wall Street non sia più la strada principale...«Rendere l’America di nuovo grande», come dice Trump, significa in realtà riportarla indietro. Tornare a un tempo in cui opportunità e dignità erano riservate ad alcuni, non a tutti... Siamo più forti con lavori ben pagati e buone scuole in ogni area del Paese, e un impegno reale verso tutte le famiglie e tutte le regioni della nostra nazione. Siamo più forti quando lavoriamo con i nostri alleati e siamo più forti quando ci rispettiamo, ci ascoltiamo e agiamo con uno scopo comune. Siamo forti quando ogni famiglia e ogni comunità sa di non essere sola. Perché siamo tutti partecipi. Ci vuole un villaggio per crescere un bambino. E per costruire un futuro più forte per tutti. L’ho imparato molto tempo fa dalla persona che ha più influen zato la mia vita, mia madre. È stata una roccia, dal giorno in cui sono nata fino a quando ci ha lasciato. Ha superato un’infanzia segnata dall’abbandono e da maltrattamenti e in qualche modo è riuscita a non amareggiarsi o farsi abbattere. Mia madre credeva che il senso della vita fosse quello di essere utile agli altri. Mi ha insegnato a non indietreggiare davanti ai bulli, e questo si è rivelato un ottimo consiglio. Sabato scorso sarebbe stato il suo novantasettesimo compleanno. Era nata il 4 giugno 1919, e alcuni di voi conosceranno il significato di quella data. Il giorno in cui mia madre nasceva a Chicago, il Congresso approvava il 19° emendamento della Costituzione. Quell’emendamento dava il diritto di voto alle donne. Vorrei che mia madre fosse qui stasera. Vorrei che potesse vedere che madre meravigliosa è diventata Chelsea e che potesse conoscere la nostra bella nipotina Charlotte e, naturalmente, vorrei che potesse vedere sua figlia diventare il candidato alla presidenza del Partito democratico. Ebbene sì. Ci sono ancora barriere da abbattere per le donne e per gli uomini e per tutti noi. Ma non lasciate che qualcuno vi dica che in America non possono accadere grandi cose. Le barriere possono cadere. La giustizia e l’uguaglianza possono vincere. La nostra storia si muove in questa direzione, grazie a generazioni di americani che rifiutano di rinunciare o indietreggiare. Ora state scrivendo un nuovo capitolo di quella storia. Il senso di questa campagna è fare in modo che non ci siano soffitti, limiti per nessuno di noi... La fine delle primarie è solo l’inizio del lavoro che siamo chiamati a fare. Ma se staremo insieme, saliremo insieme. Perché insieme siamo più forti. Usciamo e portiamo questi messaggi all’America. Grazie. Dio vi benedica e benedica l’America! (Traduzione di Maria Sepa) *** PAOLO MASTROLILLI, LA STAMPA – Hillary Clinton ha vinto la nomination democratica, finalmente in maniera convincente, e ora il presidente Obama entra in campo per unificare il Partito democratico e passarle la coalizione che lo ha portato due volte alla Casa Bianca. Oggi incontrerà Sanders, su richiesta del senatore del Vermont, ma già martedì sera ha pubblicato un comunicato in cui il suo messaggio è chiaro: bella campagna, bravo Bernie a mobilitare tanti elettori, però Hillary ha vinto ed è il momento di lavorare insieme, per impedire che il prossimo presidente si chiami Trump. La nomination della Clinton era diventata sicura già martedì mattina, sommando i delegati conquistati nelle primarie e i superdelegati che avevano deciso di appoggiarla, ma i risultati arrivati poi nella notte hanno consolidato e legittimato il suo successo. Hillary ha vinto in California, lo Stato più popolato del paese, con 13 punti e mezzo e mezzo milione di voti in più rispetto a Bernie. Ha stravinto nel New Jersey di 26 punti, e ha conquistato New Mexico e South Dakota. Sanders però non ha concesso la nomination, dicendo ai suoi sostenitori che «la lotta continuerà» fino alla Convention di Filadelfia. Una prospettiva che minaccia di spaccare il partito, indebolendolo nella sfida contro Trump. Obama è intervenuto martedì sera, chiamando entrambi i candidati per congratularsi: «Hanno dato energia ai democratici, portato una nuova generazione di americani nel processo politico, e attirato l’attenzione su importanti idee finalizzate a garantire che la nostra economia e la nostra politica funzionino per tutti, non solo per i ricchi e potenti». Poi ha chiarito di essersi congratulato con Clinton perché «si è assicurata i delegati necessari ad ottenere la nomination democratica. La sua campagna storica ha ispirato milioni di persone, ed è un’estensione della battaglia condotta tutta la vita a favore delle famiglie della classe media». Sanders invece lo ha ringraziato per aver «energizzato milioni di americani», e ha accettato di incontrarlo oggi «per continuare la conversazione su come costruire sul lavoro straordinario che ha fatto». Il messaggio è chiaro: Bernie ha condotto una grande campagna e attirato molti elettori, ma ora ha perso e deve aiutare Hillary a vincere a novembre. Obama è disposto a incontrarlo per offrirgli la possibilità di chiudere la sua impresa a testa alta, a patto che non spacchi il partito. Alcuni analisti sostengono che la netta vittoria in California ha rafforzato Clinton, al punto di diminuire la sua dipendenza dagli elettori di Sanders. Quindi farà concessioni per averlo dalla sua parte, ma senza esagerare. Tanto i suoi sostenitori sono tutti liberal, che non voteranno mai Trump, anche se Donald sta cercando di attirarli dicendo che Sanders è stato boicottato dal sistema e dall’establishment. In realtà questo ragionamento vale fino ad un certo punto. Bernie ha dominato soprattutto fra i giovani, e in parte fra le donne, portandosi via un pezzo importante della coalizione che aveva fatto vincere Obama. Ora il presidente può aiutare Hillary a recuperarla, ma diversi elettori dicono che se Sanders non sarà il candidato, non andranno alle urne. Davanti alla possibilità di una sfida molto ravvicinata a novembre, i democratici non possono permettersi di perdere neppure un voto, e per riuscirci avranno bisogno del sostegno convinto di Bernie per Hillary. *** MASSIMO RUSSO, LA STAMPA – Google vota Hillary Clinton. E non attraverso l’appoggio finanziario, ma con un impegno diretto nella campagna della candidata democratica alle elezioni presidenziali americane 2016. A sostenerlo è il patron di Wikileaks Julian Assange, da quattro anni rifugiato nell’ambasciata dell’Ecuador a Londra, per sfuggire a un mandato di cattura svedese. L’attivista australiano per la trasparenza, 45 anni, intervenendo l’altro ieri a distanza in un convegno tenutosi a Mosca al quale ha partecipato anche il presidente russo Vladimir Putin, ha dichiarato che l’azienda californiana «è impegnata direttamente per Hillary». E ha aggiunto: il presidente di Alphabet (la holding di Google ndr) Eric Schmidt «ha costruito una società per condurre la parte digitale della campagna della candidata». Che la Silicon Valley sia in grande maggioranza schierata in favore dei democratici, e in particolare di Hillary, non è una novità. Ma l’addebito, pur provenendo dal leader di un’organizzazione impegnata in una vera e propria battaglia dell’informazione contro l’amministrazione americana, ha un significato particolare. Non si parla infatti di sostegno economico, ma di un intervento strutturale nella gara per la Casa Bianca. Come ha dimostrato Barack Obama, attraverso il digitale e internet si possono raccogliere e analizzare enormi quantità di dati, con l’obiettivo di profilare gli elettori dividendoli in nicchie, da convincere poi con messaggi personalizzati ed eventi costruiti ad hoc città per città. Ciò consente di risparmiare fondi - il denaro è il carburante fondamentale della corsa - e di raccogliere ulteriori finanziamenti porta a porta. Di questo si occupa una startup finanziata proprio da Schmidt, di nome Groundwork. A guidarla è Michael Slaby, tecnologo che ha già preso parte alle campagne di Obama del 2008 e del 2012 ed è stato responsabile della strategia per TomorrowVentures, il fondo di investimento di Schmidt. Secondo una ricostruzione del sito Quartz, Groundwork già l’anno scorso è stata uno dei fornitori più importanti della campagna Clinton, con fatture per 177 mila euro nel solo secondo trimestre. Stando alle stime di Elan Kriegel, uno stratega elettorale, nel 2012 l’utilizzo del digitale nella campagna di Obama è stato decisivo, con un peso per due dei quattro punti percentuali di margine che gli hanno consentito di riconquistare la Casa Bianca. Se Google sostiene Clinton con la tecnologia, Facebook nei giorni scorsi è stata accusata di aver manipolato con un intervento umano i propri algoritmi per depotenziare la visibilità di tematiche care ai conservatori nelle bacheche dei propri utenti. In discussione la modalità con la quale è realizzata la classifica degli argomenti di tendenza, che dovrebbe restituire in modo oggettivo i temi più cari ai lettori. Facebook ha dovuto riaffermare la propria neutralità, sostenendo di «non aver mai utilizzato né di aver intenzione di usare i propri prodotti per influenzare il voto dei cittadini». Un caso simile si era verificato mesi addietro con Twitter, a cui era stata addebitata la censura della campagna con la quale Bernie Sanders, l’allora rivale di Clinton per la nomination, voleva dimostrare le contraddizioni della rivale. Se nel ventesimo secolo l’appoggio a un candidato da parte di un grande giornale faceva discutere, nel ventunesimo lo stesso accade per i giganti del digitale. Soprattutto se l’impegno, del tutto legittimo, non avviene con una presa di posizione trasparente, ma rimane tra le pieghe di algoritmi e piattaforme tecnologiche. Motori e social network, per l’importanza che ormai rivestono, farebbero bene ad abituarsi in fretta ad avere col pubblico lo stesso confronto su fiducia, etica e correttezza che da sempre contraddistingue, nel bene e nel male, la vita di editori e giornali. @massimo_russo *** FRANCESCO SEMPRINI, LA STAMPA – «Hillary è la candidata più anti-establishment di questa corsa presidenziale, è come le protagoniste dei miei libri, donne forti che alla fine della storia mettono in pratica un’utopia». A dirlo è Erica Jong, intellettuale, scrittrice e femminista, sostenitrice irriducibile della Clinton. Con California e New Jersey non ci sono più dubbi su chi comandi in casa democratica... «Non poteva essere altrimenti, Hillary lo aveva detto che voleva ogni voto possibile. Questa è una consacrazione che la rende intoccabile, un riscatto storico dopo che in 25 anni di carriera politica è stata infangata dagli uomini». Con questo voto però qualcosa è cambiato nei confronti delle donne in politica, non trova? «Direi piuttosto che cambierà». Per lei quindi la vittoria è sicura? «Certo, anche perché i repubblicani daranno la nomination a un bugiardo patologico, ignorante, un uomo di niente, un bullo, un dittatore di bassa lega». Che però rappresenta una bella fetta di elettorato americano... «Le primarie negli Usa sono cosa diversa dalle elezioni generali, votano persone arrabbiate che non hanno una grande visione del mondo e pensano al loro orticello. L’elettorato dell’8 novembre è fatto da gruppi di elettori diversi. Queste differenze non possono essere colte in Italia o nel resto d’Europa». Quindi anche Bernie Sanders è un bluff? «Sanders ha preso voti soprattutto dai caucus che non si esprimono come gruppo in sé al voto finale. Chi vota Sanders significa poi che vuole innalzare le tasse ai livelli dei Paesi scandinavi, ma gli americani, come gli italiani, sono allergici alle tasse». Cosa succede però se Sanders non appoggia Hillary? «Sono sicuro che lo farà, il punto è capire quando. Sono molto arrabbiata con lui perché otto anni fa, di questi tempi, Hillary aveva già dato il suo appoggio a Barack Obama. Tutta quella gente ai comizi lo ha fatto andare fuori di testa». È innegabile che però esiste un sentimento anti-establishment... «Hillary Clinton è la più anti-establishment di tutti, è una donna, e non c’è mai stata una donna presidente, chi più di lei scardina gli ordini precostituiti della politica americana?» Si dice che abbia esperienza ma nessun successo significativo... «Mentono, ha ottenuto la copertura medica per i bambini e ha lavorato per una vita a sostegno dei diritti civili». Non pensa che un terzo mandato Clinton sia troppo? «Cosa dobbiamo dire dei Bush allora? E poi lei è stata First Lady, da presidente sarà tutta un’altra cosa». Non c’è nulla che dovrebbe cambiare? «Innanzi tutto la voce, ha bisogno di uno specialista che le insegni a controllare il timbro e l’impostazione. Un mio caro amico regista dice che se Hillary evitasse di urlare ai comizi sarebbe molto meglio. Deve rimodulare la sua voce conservandone la femminilità. Poi deve attaccare in maniera diretta i suoi detrattori, partendo da Trump, ad esempio sui suoi problemi legali con Deutsche Bank. È tempo di agire, subito». Chi tra i protagonisti dei suoi racconti ricorda più Hillary? «Isadora di “Fear of Flying”, Paura di volare, e Vanessa di “Fear of Dying”, Paura di morire, donne forti che mettono in pratica un’utopia alla fine della storia». Se dovesse scrivere una biografia su Hillary, come la titolerebbe? «“Never give up”, non mollare mai, come quando tentano di metterti al tappeto e tu rimani in piedi. Proprio come Hillary». *** ARTURO ZAMPAGLIONE, LA REPUBBLICA – «Abbiamo raggiunto una pietra miliare: è la prima volta nella storia americana che una donna sarà candidata alla Casa Bianca». Festeggiata a Brooklyn tra bandiere, canti e applausi di migliaia di suoi sostenitori, e senza neanche aspettare i risultati delle primarie in California, dove ha avuto una inaspettata affermazione su Bernie Sanders, Hillary Clinton ha ricollegato il traguardo della nomination democratica alle suffragette e alle battaglie per i diritti politici delle donne. «E’ una vittoria non solo per me ma per varie generazioni di americani», ha detto, riferendosi anche alla rottura di quel metaforico “soffitto di vetro” che ostacola le ambizioni e le carriere di tante donne. «Va dedicata a ogni bambina che ha grandi sogni e che d’ora in poi saprà che tutto è possibile, persino diventare presidente degli Stati Uniti». Ma proprio per questo ulteriore obiettivo, da ieri la Clinton ha cambiato marcia: porgendo un ramoscello di olivo ai sostenitori di Sanders e delineando le linee d’attacco che seguirà nei confronti di Donald Trump. Non c’è dubbio che la secca sconfitta nelle primarie di martedì in California, oltre che nel New Jersey e in altri stati, abbia messo alle corde Bernie Sanders. Oggi incontrerà alla Casa Bianca Barack Obama, che gli ha già telefonato per ringraziarlo e che gli chiederà di abbandonare la sfida anti-Hillary. Intanto nella squadra di Hillary parte la caccia a un vice che possa unire il partito: fra le ipotesi, quella di Elizabeth Warren, senatrice del Massachusetts, vicina a Sanders. Anche nel campo repubblicano c’è molto disorientamento: non tanto per la vittoria della Clinton quanto per l’inaffidabilità del tycoon newyorkese e per il suo “razzismo da manuale”, come l’ha bollato il presidente della camera Paul Ryan, pur invitando ieri il partito a far quadrato attorno al candidato. Al centro delle polemiche, gli attacchi di Trump al giudice federale che indaga sulla truffa alla Trump university: secondo il miliardario, non può essere imparziale perché è di origini messicane. Dichiarazioni, queste, che hanno provocato un sussulto dei media e la reazione indispettita di molti repubblicani che temono di perdere il voto degli ispanici. Il tycoon è corso ai ripari. Prima ha detto in un comunicato di non essersi spiegato bene. Poi ha promesso ai repubblicani che non saranno delusi, ha annunciato per lunedì rivelazioni bomba sulla Clinton e invitato gli elettori di Sanders a unirsi alla sua battaglia contro Hillary. *** MARIO PLATERO, IL SOLE 24 ORE – Hillary Clinton ha fatto storia. Con la vittoria in California è stata la prima donna a rivendicare subito dopo la nomination di un partito americano per conquistare la Casa Bianca. Già questa è una rivoluzione, con ramificazioni profonde per la mobilitazione del voto femminile. Ma la vera sfida è un’altra, riuscirà Hillary a fare storia fino in fondo, conquistando anche la Casa Bianca? Fino a una settimana fa c’era un’opinione diffusa che Donald Trump fosse troppo forte per lei. Da oggi le carte sul tavolo si sono ribaltate: la Clinton, salvo problemi di email o di altri scandali, appare improvvisamente più solida e più forte del Donald. Soprattutto dopo le note dichiarazioni razziste di Trump contro un giudice texano di origine messicana. Ma dietro lo scontro fra i due, che ci porterà sorprese, scandali, eccitazione ci sono cambiamenti molto più profondi che riguardano la nazione americana in crisi. Abbiamo visto in queste primarie incredibili delle componenti rivoluzionarie che non si vedevano dai tempi dello scontro fra Ronald Reagan e Jimmy Carter, quando ci fu lo scontro tra il paradigma statalista di radici roosveltiane e quello che puntava tutto sul libero mercato. Trump è a suo modo un rivoluzionario. Non si era mai visto che un candidato prestato alla politica potesse vincere contemporaneamente contro 16 concorrenti, inclusi quattro governatori e alcuni senatori. Di più, che potesse sconfiggere in pochi mesi l’establishment del partito repubblicano e un presidente della Camera del calibro di Paul Ryan. La rivoluzione Trump porta con sè una retorica che prevede l’insulto, che aggredisce la correttezza politica e che punta sulla non ideologia: dietro il ciuffo biondo/rossastro del Donald non c’è un pensiero politico, c’è soltanto un personaggio mediatico, c’è solo una celebrità televisiva, che improvvisa posizioni per poi disconoscerle subito dopo. Trump ha portato un cambiamento radicale nella politica americana: ha dato sfogo all’idea, comprensibile nell’era dei social network, che un personaggio virtuale possa salvare il Paese. Ha fatto da catalizzatore per una ribellione contro l’establishment e la globalizzazione, covata dalla classe media, dal lavoratore bianco diseredati dal sogno americano. C’è da chiedersi se i 100 milioni di indipendenti centristi che voteranno l’8 novembre e determineranno l’esito elettorale saranno pronti a varcare il ponte trumpiano verso la negazione dei valori storici di questo Paese: rispetto del prossimo, trasparenza, generosità, accoglienza di immigrati. La risposta è no. C’è poi la rivoluzione Sanders. Il suo messaggio contro l’establishment e la globalizzazione non è diverso da quello di Trump, ma il suo pubblico è fatto da giovani idealisti che dopo essersi indebitati per 250mila dollari per una laurea si trovano senza lavoro. È fatto dai militanti della sinistra del partito democratico che ritrovano una voce dopo essersi sentiti emarginati, dai derelitti degli slum, dalla stessa classe media che, non potendo seguire Trump nei suoi commenti retrogradi in termini di diritti civili, si affida a lui. La rivoluzione Sanders, di nuovo anti establishment, ha fatto sognare, ha mobilitato un voto che prima restava a casa. Ed è sulle ali di questo successo che Bernie non si rassegna alla sconfitta. Oggi ne parlerà con Obama alla Casa Bianca. Ed è anche possibile che decida di spaccare il partito. Ma la conclusione più normale è che stia solo negoziando un prezzo per portare in dote la sua base elettorale: sarà vice presidente? Difficile. Avrà un ministero importante? Probabile. Sul piano politico interno la rivoluzione comune a Sanders e Trump è aver messo in crisi un sistema di finanziamento elettorale collaudato e consolidato. Sul piano economico entrambi hanno creato una forte resistenza popolare all’idea del libero commercio e dei mercati unici. Anche la Clinton non potrà resistere a questo movimento: almeno per qualche tempo Tpp e Ttip sembrano destinati agli archivi. Da oggi, passando per le convention e fino all’8 novembre, Hillary dovrà controllare Sanders e sconfiggere Trump se vorrà chiudere il suo percorso storico diventando la prima donna a guidare il Paese. Può farcela. La sua vittoria schiacciante in California e in altri stati, decisiva per affermare la sua credibilità politica in seno al partito democratico e davanti alla nazione, supera le riserve di molti sulla sua simpatia o capacità di comunicare. Dopo mesi di relativa passività la sua campagna ha schierato in rapida successione il discorso anti Trump di Barack Obama alla Rutgers University; ha scelto il marito Bill Clinton per scalzare Trump dal cuore degli uomini bianchi delusi, mascherando questo ruolo con un incarico di zar economico. Infine, a ridosso del voto in California, ha pronunciato l’efficacissimo discorso sulla sicurezza nazionale per attaccare Trump con una violenza fino ad allora sconosciuta. I sondaggi ci dicono che la corsa fra Hillary e il Donald è molto stretta, 44% per lei, 42%. Ma per strada, nelle case, sentendo le reazioni delle persone, quella distanza oggi appare più grande. La rivoluzione di una donna alla Casa Bianca sembrerà anche la meno efficace, ma in questo 2016 potrà riportare all’ordine la rivoluzione socialista di Sanders e sconfiggere la rivoluzione qualunquista di Trump. Mario Platero *** MARIO PLATERO E MARCO VALSANIA, IL SOLE 24 ORE –  Finita la battaglia delle primarie, ora fra Clinton e Trump comincia la guerra dei programmi. Programmi che non potrebbero essere più diversi su commercio, banche, tasse, educazione, sanità, immigrazione. Hillary Clinton tradizionalmente favorevole alle aperture commerciali, ha ceduto alla stretta dei protezionismi paralleli, a destra di Trump e a sinistra di Sanders, la spina nel fianco, il compagno di partito che non molla. Per passare all’offensiva, la Clinton ha già tenuto conto dei durissimi attacchi di Trump contro i trattati di libero scambio, responsabili, dice il repubblicano, del declino economico del Paese e delle perdite strutturali di posti di lavoro. Trump ha promesso di rinegoziare tutti i trattati, quelli economici e commerciali oltre a quelli politici, da nuove posizioni di forza e ha minacciato tariffe fortissime contro le importazioni cinesi o altre importazioni che approfittano dell ”ingenuità americana”. A sinistra ha rincorso Bernie: ha preso le distanze dalla Trans-Pacific Partnership. Una svolta: da segretario di Stato Hillary aveva infatti sostenuto il Tpp. Dobbiamo aspettarci lo stesso destino per il Ttip, la partnership per creare un’area transatlantica di libero scambio. Differenze più marcate sono invece rimaste tra Clinton e Sanders e ancor più tra Clinton e Trump sul terreno delle riforme fiscali e sociali. Sanders auspica ingenti investimenti pubblici, dalle infrastrutture alla spesa all’abolizione dell’Obamacare, per garantire a tutti l’assistenza sanitaria e il college gratuito, pagati con aumenti delle imposte sull’1% più ricco. Clinton ha invece un programma pragmatico e di sostanziale continuità con Obama: sostegno ai ceti medi e meno abbienti con crediti d’imposta e sgravi mirati; relativa maggior imposizione sui redditi più alti; difesa di Obamacare nella sanità. Sia Hillary che Sanders invocano un aumento del salario minimo, attaccato invece da Trump. Trump si contrappone decisamente alla Clinton in termini di programma, proponendo l’abolizione di Obamacare e la sua sostituzione con riforme sanitarie ispirate al mercato. Sulle tasse è pronto a puntare su una semplificazione delle aliquote, che garantisca sgravi a tutti e in particolare al business. È meno stridente di altri repubblicani conservatori su questioni sociali quali il diritto d’aborto. Ma è contrario, come il partito, a incrementi del salario minimo, pericolosi per la creazione di posti . Divergenze significative emergono infine sulla regolamentazione di finanza e banche: Hillary Clinton sostiene la legge Dodd-Frank varata nel dopo-crisi 2007-2009, mentre Sanders chiede nuovi giri di vite con un ritorno di fatto al vecchio Glass Steagall Act, che provochi una spaccatura in più tronconi dei grandi istituti e la separazione delle attività bancarie tradizionali e commerciali dall’investment banking. Trump invece è contrario alla Dodd Frank che, sotto la presidenza democratica, avrebbe creato gravi eccessi nella regolamentazione, che soffocano l’economia. E per l’immigrazione? La differenza è semplicissima: Trump vuole costruire un muro, Clinton, pur nel rispetto della legge, vuole i cancelli aperti. *** ANNA GUAITA, IL MESSAGGERO – Hillary Clinton ha avuto meno di 24 ore di tempo per godersi la felicità di essere la prima donna statunitense che abbia conquistato la possibilità di diventare presidente. Già la mattina dopo la vittoria nell’ultimo Supertuesday ha dovuto tuffarsi negli impegni della campagna nazionale: raccolta di fondi, comizi negli Stati in bilico, interviste, riunioni per la scelta di un vice. Ma sentendo le prime interviste tv dopo che si è portata a casa gli ultimi due pesi massimi, il New Jersey e la California, si poteva notare una coreografia diversa rispetto a quella dei mesi scorsi. Questa è l’Hillary che si batte per la Casa Bianca, contro Donald Trump, non più la candidata che deve sconfiggere un rivale interno, il senatore Bernie Sanders. LA TELEFONATA I suoi occhi sono puntati avanti, e così quelli dell’intero partito, incluso il presidente Barack Obama, che si appresta a scendere in campo al suo fianco. Solo gli occhi di Sanders rimangono puntati alla Convention di luglio, dove crede di poter ancora ottenere qualcosa. È vero che c’è stata una sua telefonata di congratulazioni a Hillary per la vittoria in California, ma in quella telefonata non ha fatto cenno alla nomination. Non solo: Bernie ha risposto a una telefonata del presidente Obama, che sperava di convincerlo a tirarsi indietro, ma ha invece chiesto un incontro a 4 occhi alla Casa Bianca. Obama ha ingoiato il rospo, ricordando quanto il senatore socialista sia stato uno dei più ferventi critici della sua presidenza, e ha accettato di vederlo, per trovare una soluzione alla divisione che il movimento filo-Sanders ha creato nel partito.La Casa Bianca non vuole certo sottolinearlo, ma è un dato di fatto che Sanders si sia infilato come un cuneo in quel grande movimento che univa bianchi-neri-ispanici, giovani-anziani e moderati-progressisti e che ha eletto e rieletto Obama nel 2008 e nel 2012, e sul quale Hillary faceva affidamento per novembre. I giovani bianchi sono ora con Sanders, ammaliati dalle sue ottimistiche promesse di università gratuite e assicurazione statale. Starà a Hillary Clinton recuperare almeno parte di quel 71 per cento del voto di questi giovani andato a Sanders. Ma già nella campagna si è spostata sinistra, e pochi potrebbero riconoscere in lei la Hillary che aveva esordito in politica 16 anni fa come candidata al seggio di senatore di New York, quando si presentò come una democratica moderata, sulla falsariga del marito Bill. La Hillary candidata alla Casa Bianca è decisamente più liberal, ed è infatti stato notato come nel discorso di martedì sera abbia citato la nonna, la madre, la figlia, la nipotina, ma non il marito, pigiando il piede sull’acceleratore del femminismo, piuttosto che ricordare i successi di Bill. IL NODO Difatti una dei grandi quesiti che circondano Hillary oggi è la scelta del vice. È una teoria trita che i vice contino poco. Ma basta ricordare il peso che Joe Biden ha avuto nell’aiutare Obama nel 2008 per capire che la teoria fa acqua. Gira voce che Hillary potrebbe chiedere proprio a Elizabeth Warren, senatore del Massachusetts, beniamina della sinistra, di farle da vice: un ticket al femminile occuperebbe le prime pagine per mesi, togliendo ossigeno a Donald Trump.Altri pensano proprio a Bernie Sanders. Ma sia l’uno che l’altro nome avrebbero ricadute negative: con la Warren nel ticket il partito perderebbe il seggio senatoriale del Massachusetts, mentre con Sanders avrebbe un ticket anziano e troppo spostato a sinistra. Ma in lista ci sono anche Julian Castro, Segretario dell’Edilizia, caro agli ispanici. O il senatore di colore Cory Booker, un candidato che ha l’eloquenza di Obama e che unirebbe il voto dei neri. Ma c’è chi fa il nome di un ex comico, Al Franken, firma d’oro di Saturday Night Live e oggi stimato senatore del Minnesota. Anna Guaita *** ELENA MOLINARI, AVVENIRE – A giudicare dal voto degli ultimi cinque mesi, in queste ore la maggior parte degli americani deve sentirsi in qualche modo “vendicata”. Di vedere Hillary Clinton arrivare alla nomination dopo il fallimento di otto anni fa. O di vedere una faccia nuova del panorama politico come Donald Trump emergere dal nulla, ignorare le regole dei partiti tradizionali e farsi strada “dicendo le cose come stanno”. Ma la democrazia, si sa, è imperfetta. La scelta fra, da una parte, un’ex first lady con un passato minato da zone d’ombra e rappresentante di una dinastia che influenza la politica americana da trent’anni e, dall’altra, un costruttore di casinò che non esita a fare leva sul razzismo è deludente per una minoranza di elettori tutt’altro che trascurabile. Da come si comporteranno dipende il nome del prossimo presidente americano. I giovani sembrano essere i più alienati. La maggior parte si era identificata con la “rivoluzione” del democratico Bernie Sanders. Se sul fronte etico e dei diritti civili le differenze con Hillary Clinton non sono marcate (entrambi sostengono la legittimità dell’aborto, del suicidio assistito e del matrimonio gay), su quello economico, sociale e ambientale il senatore del Vermont prometteva riforme radicali: sanità e università gratuita per tutti, tagli drastici alla produzione energetica da idrocarburi, salario minimo più alto, una sanatoria per gli immigrati senza documenti. Clinton, che ha denunciato quelle proposte come utopiche, sta cercando di riassorbirne alcuni elementi nel suo programma, per motivi puramente opportunistici. Non può infatti permettersi che nessuno di quei voti finisca nelle tasche di Donald Trump. È possibile? Le interviste condotte fra i più estremi fan del 74enne Sanders rivelano di sì: potrebbe essere una reazione di protesta di alcuni under 25, uniti da un tale disprezzo per l’ex first lady da essere disposti a scommettere sull’incognita Trump. La loro scelta a novembre dipenderà molto dallo stesso Sanders. Se finirà col riconoscere la sconfitta e inchinarsi alla vincitrice, come fece Hillary nei confronti di Barack Obama nel 2008, potrebbe evitare uno scisma pericoloso per i democratici. Se invece terrà duro, c’è da aspettarsi che i giovani “sanderiani” inscenino manifestazioni simili a quelle del movimento ’OccupyWall Street’ del 2011. Probabilmente già a partire dalla convention di Philadelphia.