Silvia Nucini, Vanity Fair 8/6/2016, 8 giugno 2016
INTERVISTA A BIAGIO ANTONACCI
«Successe una sera, o forse era un mezzogiorno, non fa molta differenza. Mio padre e i suoi fratelli erano a tavola; di nove sedie, una era vuota: mia nonna era morta, lasciando al nonno l’incombenza di sette figli da tirare su. Suonarono alla porta, entrò una donna, con un bambino per mano. Il nonno disse: da oggi questa è vostra madre, lei prese la sedia vuota, si sedette col bambino in braccio. Nessuno disse niente, iniziarono a mangiare. Era nata una nuova famiglia».
«Famiglia» è stata la parola che ha occupato il dibattito pubblico degli ultimi mesi in cui la politica è stata chiamata, attraverso il ddl Cirinnà, ad allinearsi ai cambiamenti già avvenuti nella società civile. E tra famiglie arcobaleno e Family Day, c’è stato, in mezzo, un Paese di persone che forse non si erano mai fermate prima di allora a chiedersi che cos’è una famiglia. Tra i tanti anche Biagio Antonacci, che – prima di cantare come ospite speciale al concerto di RadioItalia in piazza Duomo a Milano e poi a quello di Laura Pausini allo Stadio Olimpico di Roma, e prima di chiudere l’estate con i suoi live – parte, per parlare di che cosa significhi per lui famiglia, da questo ricordo che, anche se non è suo ma di suo padre, ha lasciato una traccia.
«La signora che entrò da quella porta era una vedova, che mio nonno aveva conosciuto al cimitero, dove l’uno e l’altra portavano i fiori a quei coniugi che non c’erano più. Immagino che il sentimento sia nato piano piano, incontro dopo incontro, parlando del loro dolore, fino a quel giorno in cui lei entrò nella casa e nella vita di quella famiglia monca. Non so se il loro sia stato un amore come lo intendiamo noi adesso, o più probabilmente una più pratica forma di mutuo soccorso in cui una donna sola e un uomo solo univano le loro forze per crescere degli orfani. In ogni caso a me è rimasta questa idea di famiglia come un posto dove ci si aiuta, e che può prendere non una ma tante forme».
Uno dei bambini seduti a quel tavolo era suo padre. Vi ha cresciuti con quest’idea?
«Mio padre è un uomo del Sud, scappato dal suo paese a 16 anni. Arrivato a Milano fa la vita che fanno adesso gli extracomunitari: dorme nelle cascine abbandonate e, quando i soldi guadagnati come fiorista e poi garzone di parrucchiere glielo permettono, nelle pensioni a una stella. Ama ballare e una sera all’Arci Bellezza vede una ragazzina di 14 anni che è lì con sua madre. La sposa quattro anni dopo, e poi – ma la mia mamma ci tiene a dire che è andata all’altare vergine – nasco io. La battaglia più grande che mio padre ha combattuto è stata quella di rendere la sua famiglia economicamente indipendente: abbiamo vissuto coi nonni – anche qui si stava insieme per aiutarsi – fino a quando ci hanno assegnato un alloggio popolare a Rozzano. Ricordo mio padre silenzioso, autoritario, concentrato esclusivamente sull’orizzonte, che si accorciava o si spalancava a seconda di quanti soldi avevamo. Una giostra di cassa integrazione e speranze».
Quanto l’ha condizionata, poi, nella vita, questa storia da famiglia tradizionale?
«Apparentemente per niente: non mi sono mai sposato, ho fatto due figli con una donna (Marianna Morandi, ndr) con la quale non condividevo nemmeno la residenza scritta sui documenti, mi sono separato da lei e adesso sto con Paola, senza nessun legame formale, vivo con lei e sua figlia e mi ci sento padre, anche se non lo sono per legame biologico. Quindi, per rispondere alla sua domanda, sembra che io abbia dato un calcio a ogni forma di tradizione. Ma invece delle cose dentro le ho, e sono venute fuori soprattutto nella forma del senso di colpa ogni volta – ed è stato per scelta – in cui mi sono discostato da “quello che avrei dovuto fare”».
Sembra che il senso di colpa sia riuscito a superarlo, però.
«Sì, anche se viene fuori negli angoli più strani della vita, nei nomi che diamo alle cose. Per esempio, io da 12 anni vivo con Benedetta, la figlia di Paola. Ti hanno detto che papà vuol dire che quel figlio l’hai fatto tu, quindi io so che non sono suo padre, anche se per lei ho avuto l’amore e le attenzioni di ogni papà. E poi quando ci raggiungono anche i miei figli – Paolo ha 20 anni e Giovanni 15 – siamo semplicemente una famiglia, e loro sono fratelli, anche se non si chiamano così e anche se non hanno un legame di sangue. A loro non è mai importato niente, non hanno mai avuto bisogno di dare un nome al rapporto: per i bambini le cose sono intuitive».
I figli biologici e quelli acquisiti si amano allo stesso modo?
«Con quelli non tuoi hai attenzioni anche superiori, più morbidezza. Forse perché sai che possono sempre dirti: che vuoi da me? Tu non sei mio padre. Benedetta non me l’ha mai detto, ma avrebbe avuto ragione, nel caso».
Qual è la ricetta di questa armonia?
«Una sola, penso: essere brave persone. Forse non perfetti compagni, ma un uomo e una donna che decidono che certe cose sono intoccabili. Io e Marianna abbiamo sempre tenuto due punti fermi: mettere i figli al centro, preservandoli, e cercare di essere sereni anche nella separazione. La stima reciproca tra ex compagni è fondamentale, perché si porta dietro la fiducia: Marianna sa che non avrei mai esposto i nostri figli a persone non per bene, e io so lo stesso di lei. Se ci fosse stata della gelosia tra di noi sarebbe stato complicato, ma non c’è stata: lasciare liberi è un gesto d’amore che ti torna indietro. A me è successo, e adesso i nostri figli sanno accogliere tutti senza diffidenza. Mio nonno, presentando la sua seconda compagna, se ne fregò delle eventuali diffidenze dei figli, ma noi oggi siamo padri diversi. Baciamo, accarezziamo. Quando mai io sono stato baciato da mio padre? Lui lavorava tutto il giorno, poi tornava a cena – e nessuno poteva alzarsi prima che lui avesse finito di mangiare – dopo di che usciva a fare politica. Era molto assente. Ma uno può imparare le cose anche dagli altri».
Chi sono stati i suoi altri «padri»?
«Mio nonno, che mi ha insegnato a pescare. I professori, in particolare uno, il professor Filia. E le persone che, anche brevemente, incontri nella vita. Siamo sempre lì, ai nomi da dare alle persone, ai generi da affibbiare alla famiglia. Che Paese strano il nostro: tra cento anni i nostri pronipoti diranno “ma ti ricordi quando ancora ci si doveva sposare per poter fare le cose? E ti ricordi che le famiglie omosessuali avevano meno diritti? Che cosa assurda, come gli autobus per i bianchi e quelli per i neri”. Perché anche questo è razzismo. Se un bambino va a scuola ed è felice, chi se ne frega se ha due padri o due madri? Il problema ce lo dobbiamo porre quando i bambini sono infelici».
Il decreto di legge Cirinnà è passato con delle limitazioni, prima tra tutte la stepchild adoption.
«Questa delle adozioni è una cosa assurda. Dicono che apra la via all’utero in affitto. A parte che non c’entra nulla, ma la mia domanda è: e allora? So che è un discorso molto delicato, e credo che si debba essere donne per sapere com’è dare il proprio corpo per generare un figlio di altri, ma il gesto non mi sembra né violento né sbagliato se alla base c’è un sentimento di amore. Se una donna ha la forza di farlo: perché no? L’importante è che sia libera di scegliere. Non ha mica una pistola puntata alla tempia».
La «pistola» potrebbe essere il bisogno.
«Certo, ma quel bisogno allora potrebbe indurla anche a commettere crimini. Però, ripeto, io non posso partorire figli, quindi ho diritto di parlare fino a un certo punto. Se anche gli uomini potessero rimanere incinti, di figli ne farei a decine».
I figli sono un diritto?
«La libertà è un diritto. E fare figli non è un dovere. In Italia se a trent’anni non hai figli la gente si sente autorizzata a chiederti perché. La verita è che siamo dei primitivi a fare ancora, oggi, questi discorsi sulla famiglia. Basta leggere i nomi delle cose – patrigno, matrigna, figliastra – per capire che abbiamo ancora la clava».
In tutto questo parlare di famiglia non
abbiamo mai parlato d’amore.
«Abbiamo parlato di legami, e quello dell’amore di coppia mi sembra, nella famiglia, il meno importante».
Sta scherzando?
«L’amore è la debolezza più grande, implica passione, gelosia, possesso: tutte cose da cui i figli sono esclusi. L’amore della coppia dovrebbe venire dopo il nucleo, così come la parola amore dovrebbe venire dopo la parola stima. È la stima a formare le famiglie: la stima, il rispetto, il saper capire e il saper sopportare. L’arrivo di un figlio è uno scossone per la coppia, il momento in cui bisogna capire che le dinamiche cambiano totalmente. La famiglia è una qualità superiore del sentimento, un’alleanza, un team, una squadra. L’amore è un’altra cosa».