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 2016  giugno 08 Mercoledì calendario

INTERVISTA A STEFANO PARISI

L’sms di Stefano Parisi – candidato sindaco del centrodestra a Milano, promosso con un sorprendente 40,8% al ballottaggio contro il favorito Sala (appena 5 mila voti in meno) – arriva dopo mezzanotte: «Mi spiace ma mia moglie non vuole essere fotografata». La mattina dopo riesce a farle cambiare idea, non si sa a che prezzo. Probabilmente alto, perché Anita Friedman, israeliana di padre americano, sessant’anni compiuti sei mesi prima del marito (che ci scherza su: «È più vecchia di me»), è una donna tanto riservata quanto decisa. Direttore generale della fondazione istituita dai ministeri esteri d’Italia e di Israele per promuovere gli scambi culturali tra i due Paesi, è sposata a Parisi da 32 anni. Hanno due figlie: Sarah, 28, e Camilla, 26.
Il servizio fotografico, nella loro casa milanese, durerà in tutto cinque minuti: il tempo di «catturarli» a colazione e di assistere a qualche siparietto. Stefano punzecchia: «Lavo i pavimenti, cucino, mi stiro le camicie da solo, e lei guarda». Anita sta al gioco: «Stefano prendi le giacche degli ospiti», «Stefano fai il caffè». Non ama truccarsi, e dopo che la stylist l’ha convinta a mettere un po’ di matita per gli occhi il marito commenta: «Oddio, l’ultima volta che ti ho visto così è stato il giorno del matrimonio». Detesta essere fotografata e lui le fa scatti in continuazione con il cellulare. Poi, mentre posano insieme: «Puoi sforzarti di fare un gesto affettuoso?». La risposta è un movimento della mano, un po’ rigido, per sistemargli i capelli sulla fronte. «Non ho detto di mettermi in ordine, ho detto un gesto affettuoso».
Come ha preso sua moglie la scelta di
candidarsi?
«All’inizio era molto perplessa: sapeva che avremmo avuto la vita stravolta da uno tsunami. Una volta presa la decisione, però, il suo carattere da combattente ha prevalso. Mi sostiene in tutto».
Quando vi siete conosciuti?
«A 17 anni. Lei era appena arrivata da Israele a Roma (la città di Parisi, ndr) per l’ultimo anno di liceo, dopo che suo padre aveva sposato in seconde nozze un’italiana, e io ero fidanzato con la sua migliore amica. Ci siamo ritrovati dieci anni dopo, nel 1982, alla manifestazione per Stefano Taché, il bimbo ucciso nell’attentato alla sinagoga di Roma. Da lì non ci siamo più lasciati».
Lei che ragazzo era?
«Da bambino ero buonissimo, sempre dieci in condotta: a scuola non ero granché, ma i professori mi amavano perché ero ubbidiente. Il carattere è venuto fuori dopo, al liceo, con l’impegno sociale e la politica nel partito socialista. Non sono mai stato uno da giri in vespa e discoteche, anche perché vengo da una famiglia molto cattolica, i quattro fratelli di mio padre erano tutti gesuiti, non eravamo incoraggiati alla spensieratezza».
Poi ha sposato un’ebrea.
«Non sono un cattolico praticante, e amo la cultura ebraica: Israele è un avamposto di civiltà, il Paese più libero e democratico che conosca».
Un palestinese potrebbe dissentire.
«Non è vero: anche loro si rendono conto del grado di democrazia che c’è in Israele».
Suo padre che lavoro faceva?
«Dirigente dello Stato. Ero quindicenne quando si è ammalato, un calvario durato undici anni: avere un tumore, negli anni Settanta, era spesso una condanna. Sono cresciuto tra le donne, ultimo di cinque figli, con tre sorelle più grandi. Mio fratello, l’altro maschio, si è ammalato quando è morto mio padre – cancro anche lui – e mi ha lasciato quindici anni dopo».
Questi lutti l’avranno segnata.
«Ho imparato a relativizzare i problemi e sviluppato un rapporto molto sano con la realtà, un carattere ottimista, un pregiudizio positivo nei confronti delle persone. Da un punto di vista pratico, visto che quello di papà era l’unico stipendio in casa, la sua morte mi ha costretto a lavorare presto, già durante l’università (Economia alla Sapienza di Roma, ndr), nelle cooperative, alla Cgil e poi con Gianni De Michelis al ministero delle Partecipazioni statali».
Quindi conosce bene la politica, non è un tecnico puro.
«Ho ricoperto posizioni apicali al ministero del Lavoro, degli Esteri, alla presidenza del Consiglio. Ho servito cinque presidenti del Consiglio, dal ’92 al ’97. Sono tra i pochi manager ad aver lavorato con successo sia nel pubblico sia nel privato (Confindustria, Fastweb, ndr)».
Rapporto con i soldi?
«Sono passato dal nulla al successo economico, al dover ricominciare dopo la tempesta giudiziaria su Fastweb, quindi non avrei problemi oggi a vivere con poco, anche perché ho la fortuna di avere una moglie a dir poco sobria. I risparmi li ho investiti tutti nella mia azienda, Chili Tv (una piattaforma di video on demand, ndr)».
Qualcuno ha insinuato che lei si sia candidato in cambio dell’impegno, da parte di Berlusconi, di ripianare i debiti.
«Falso. Mediaset possiede Infinity, che è concorrente di Chili. E comunque nel candidarmi ho lasciato ogni carica aziendale, oggi sono solo azionista».
Dai socialisti al centrodestra: perché?
«Per realizzare quella politica liberale che in Italia è stata sempre sacrificata a logiche di compromesso. Non vedo contraddizioni: dopo la caduta del Muro di Berlino, i fondamentali della politica di ieri sono venuti meno. Oggi mi sento più a mio agio in una coalizione riformatrice di centrodestra, specie a Milano dove c’è una sinistra radicale molto conservatrice».
Con la Lega in coalizione, non pensa di dover scendere a compromessi anche lei?
«Abbiamo condiviso un programma di governo, il mandato sarà quello di attuarlo. Con il supporto di tutti i partiti».
Un suo difetto?
«Non sono mai contento di me stesso e di quello che faccio. Penso sempre che si sarebbe potuto fare meglio».
Il momento più doloroso della sua vita?
«La morte di mio fratello. E poi, quando ho dovuto lasciare la carica di amministratore delegato di Fastweb a causa di un gravissimo errore giudiziario. Ma in quella storia ci sono amici, persone perbene, che sono state vittime ben più di me».
E il momento più bello?
«La nascita delle mie figlie. Con loro ho un legame speciale. Sarah è una fashion designer, ha studiato alla Marangoni. Camilla è storica dell’arte, sta facendo il dottorato alla Normale di Pisa».
È un padre geloso?
«No: né delle figlie né della moglie».
Sua moglie invece lo è?
«Abbastanza».
Qual è il segreto di un matrimonio così lungo?
«Amore, intelligenza, rispetto. Negli anni si cambia, e solo partendo da queste basi riesci ad accettare che l’altro possa diventare diverso e a volergli bene lo stesso. Per lavoro ho spesso cambiato città, ma la famiglia ha sempre condiviso le mie scelte».
Qual è il «vostro posto» a Milano?
«Forse corso Garibaldi, dove abbiamo vissuto a lungo. E la montagnetta di San Siro, dove vado a correre. Ma un posto speciale nel nostro cuore ce l’ha Tel Aviv. Laggiù abbiamo casa, e un giorno vorremmo andarci a vivere».
Dovesse diventare sindaco, quale sarebbe la prima cosa che farebbe per Milano?
«Dare più sicurezza. E generare sviluppo e occupazione».