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 2016  giugno 04 Sabato calendario

MEMORIE DI DUCKADAM UN EROE DA PARATA


BUCAREST. «Non puoi diventare un eroe in sette minuti». Neppure se pari quattro calci di rigore e consegni alla Steaua Bucarest la sua prima, e unica, Coppa dei Campioni. Modestia e disincanto. Helmuth Duckadam, l’uomo che trent’anni fa fermò il Barcellona e regalò una clamorosa ribalta sportiva alla Romania di Ceausescu, sa quanto sia effimera la gloria. «Due mesi dopo l’impresa mi ritrovai in un letto d’ospedale, senza lavoro e senza futuro». I medici scongiurarono l’amputazione del braccio, ma la carriera era finita. «L’esercito, di cui la Steaua era emanazione, mi congedò. E tanti amici scomparvero». Le grandi dita mimano dieci rivoli d’acqua assorbiti dal terreno.
Anche Duckadam sparì, nel silenzio imposto dal regime in putrefazione e nel frastuono seguito al crollo del blocco comunista. Oggi, però, ha una nuova vita. Dal 2010 è presidente onorario della Steaua Bucarest, che ha legato i suoi destini al controverso businessman e politico George “Gigi” Becali. L’ultimo campione della Romania comunista, insomma, è diventatati o un uomo immagine di quella liberista e votata agli affari. Un trait d’union tra due mondi agli antipodi. Eppure, se gli chiedi un confronto, l’ex portiere ti sorprende: «All’epoca di Ceausescu, se lavoravi, avevi il pane. Oggi non è scontato».
«Sono nato il 1° aprile 1959 Semlac, un villaggio alla frontiera con l’Ungheria», racconta Duckadam a pagina99. Qui, nel cuore dell’Europa, i confini sono sempre stati permeabili e imprecisi: «La mia famiglia è tedesca, appartiene alla comunità dei svevi del Banato». Negli anni Sessanta, quelli in cui Nicolae Ceausescu costruì le fondamenta del suo potere tirannico, Helmuth era «un bambino felice. Non pativamo i razionamenti. In campagna avevamo terra e bestiame». E poi scuola e sport: «Appena finivano le lezioni, correvamo a giocare. A me piaceva il calcio, piaceva stare porta». Non un ripiego, ma una scelta precisa di un ragazzo alto e potente: 190 centimetri 93 chili.
Cresciuto nelle squadre di Arad, Duckadam giunse in fretta alla seconda divisione e alla Nazionale Under 21. Se la vita è fatta di incontri, il primo importante fu con Mircea Lucescu, il futuro santone del calcio rumeno. «Lo incrociai nel 1980, era allenatore-giocatore del Corvinul Hunedoara. Naturalmente gli parai un rigore». Meglio di un biglietto da visita. Due anni dopo, divenuto ct della Nazionale maggiore, Lucescu convocò Duckadam, nonostante militasse in Serie B: «Due apparizioni, contro Danimarca e Germania Est, senza subire reti». Si fecero avanti l’Universitatea Craiova, ai tempi una corazzata, e la Steaua Bucarest, la formazione dell’esercito. «Scelsi la “stella”». La seduzione della capitale? «Macché. Avevo già moglie e due figli!», sorride Duckadam. Neppure il denaro fu decisivo: «Eravamo militari con appena il 60 per cento in più dello stipendio normale. Ne ho approfittato per iscrivermi all’Accademia, specializzandomi nella costruzione di motori per l’aeronautica». La Steaua era in piena trasformazione: «Testarono 60-70 giocatori. Poi, con Emerich Jenei in panchina, si formò un gruppo speciale». Lacatus, Belodedici, Balint, Iovan, Piturca: nomi noti anche in Occidente. «Jenei ebbe la capacità, come Kovács alla guida dell’Ajax di Cruijff e Neeskens, di gestire uno spogliatoio pieno di personalità». La rivalità con la Dinamo Bucarest, la squadra della polizia, si riaccese: «Il marele derby era molto sentito dai tifosi e, inutile negarlo, dai generali. Difesa contro Interni».
Molti attribuiscono le fortune della Steaua alla vicinanza di Valentin Ceausescu, il figlio maggiore del presidente-dittatore: «Era un nostro grande tifoso. Mai, però, ha ingerito nella gestione del team». Certo, la sua presenza in tribuna non passava inosservata. E le simpatie calcistiche di Valentin – il più schivo della famiglia, un docente di fisica tuttora nel mondo accademico di Bucarest – contribuirono a coagulare, sotto la “stella”, un gruppo di atleti di valore europeo. «Vincemmo il titolo nazionale nel 1984/85, dopo cinque stagioni di digiuno, conquistando l’accesso alla Coppa dei Campioni».
L’urna fu benevola, opponendo alla Steaua, nei primi turni, formazioni modeste. Il primo ostacolo di rilievo si frappose solo in semifinale: i belgi dell’Anderlecht, giustizieri del Bayern Monaco. «Perdemmo 1-0 a Bruxelles, ma a Bucarest dilagammo: 3-0». Mai una squadra rumena era giunta all’atto conclusivo del massimo trofeo continentale: ad attenderla, il 7 maggio 1986, il Barcellona.
Al di qua della cortina di ferro, nell’immaginario collettivo, l’undici dello Steaua assumeva contorni sfumati. Poche informazioni, molto mistero. La glasnost, l’operazione di trasparenza voluta da Gorbacëv, era appena agli albori. Quando il 26 aprile 1986, undici giorni prima della finale, il reattore numero 4 della centrale nucleare di una sconosciuta località ucraina prese fuoco, sprigionando una nube radioattiva, le autorità sovietiche tacquero per 30 ore e per giorni negarono la gravità dell’incidente. Nei Paesi del blocco comunista, in realtà, la percezione del disastro di Cernobyl’ fu rapida: «Il campionato di calcio fu sospeso per due settimane», testimonia Duckadam. «Proibirono perfino gli allenamenti». Un dramma nel dramma, per la Steaua, attesa dalla partita più importante della sua storia: «Ci concessero, in via eccezionale, due sedute diurne allo stadio Ghencea e una notturna all’arena Nationala. In questo caso, il peso di Valentin Ceausescu si fece sentire», ammette. Un’atmosfera irreale: «In campo eravamo affiancati da scienziati dotati di contatore Geiger. I livelli di radioattività erano del 200 per cento superiori alla norma. I medici consigliarono a noi portieri di non portare la palla al petto. Ci allenammo solo con i piedi». Perfino la preparazione tattica fu superficiale: «Non disponevamo di alcun video». Una disdetta: «Dopo aver eliminato la Juventus, i blaugrana furono trascinati ai rigori dagli svedesi del Göteborg. Ma non potei analizzare come li calciavano».
A Siviglia la Steaua si presentò con la forza dell’incoscienza. Lo stadio era colmo di tifosi catalani. «I nostri erano poche centinaia», rivela Duckadam, «giunti su otto aerei speciali messi a disposizione da un facoltoso simpatizzante siriano». La partita fu tattica e noiosa. I pochi talenti di quel Barcellona (Schuster, Archibald, Alexanco) non fecero breccia nella ragnatela organizzata da Jenei. E Valentin Ceausescu, impassibile in tribuna accanto al re Juan Carlos, vide i suoi beniamini costringere il Barça ai penalty.
Di quei sette minuti che valsero a Duckadam l’appellativo di Eroul de la Sevilla si è detto molto. Il portiere della Steaua parò i primi due tiri tuffandosi alla sua destra, ma Urruticoechea, il suo alter ego catalano, fu altrettanto bravo. A spezzare l’incantesimo pensò Lacatus, che nel 1990 avrebbe indossato il viola della Fiorentina. Duckadam, invece, si lanciò per la terza volta alla sua destra, bloccando il tiro di Pichi Alonso. Toccava a Balint, il numero 10 della “stella”. «Mi misi di spalle per non guardare, poi reclinai indietro il capo per percepire la reazione della folla». Silenzio gelido: Balint aveva segnato. Bastava una parata, un’altra ancora. «Entrai nella testa di Marcos, il tiratore avversario. Avevo effettuato tre parate sullo stesso lato: di certo una voce gli stava suggerendo di cambiare angolo. Lo ingolosii muovendomi ancora verso destra, poi mi gettai dall’altra parte. Fu un gioco psicologico. E vinsi io».
La cerimonia di premiazione della Steaua fu rapida, quasi per non disturbare. «Non eravamo pronti a festeggiare, non sapevamo come farlo. Nell’ultima finale di Champions ho visto atleti milionari strappare pezzi di rete per ricordo. Noi non facemmo nulla di simile». Urruti fu l’unico giocatore del Barcellona che andò a complimentarsi con Duckadam. «Lo rividi quindici anni dopo, invitato da una trasmissione della tv rumena». Una sorta di “Carramba!”. «La sua presenza fu per me una sorpresa. Fu simpatico. Purtroppo, quindici giorni dopo, perse la vita in un incidente stradale».
La festa composta dei campioni d’Europa della Steaua, nella notte di Siviglia, non andò oltre una cena in albergo con le mogli. A Bucarest, due settimane dopo, furono ricevuti dal presidente Ceausescu: «Ci offrì una medaglia, il riconoscimento sportivo di prima classe e una coppa di champagne». Denaro? La risposta è un sorriso.
In Occidente si disse che un tifoso del Real Madrid, grato per l’umiliazione inflitta ai rivali del Barcellona, avesse regalato a Duckadam una Mercedes: «La sto ancora aspettando!», ironizza il portiere. Eppure su quel dono è fiorita una leggenda: sarebbe stato il rifiuto di cedere l’auto a uno dei figli di Ceausescu a stroncare la carriera di Duckadam. Qualcuno sostenne che gli uomini dei servizi segreti, la terribile Securitate, gli avessero spezzato le mani. «La verità è che, da un anno e mezzo, soffrivo di forti dolori al braccio destro. A un mese di distanza dal trionfo di Siviglia, dopo aver perso la finale di Coppa di Romania contro la Dinamo, l’arto si bloccò. Fui operato d’urgenza: un aneurisma aveva causato la rottura di un vaso sanguigno».
Duckadam rischiò l’amputazione e perse tutto. «Fuori dall’esercito, senza più poter giocare, tornai a Semlac. Lì ottenni un posto nella Polizia di frontiera e organizzai una scuola calcio, ma furono anni duri sul piano economico». E il problema al braccio richiese altri tre interventi. I guanti invitti con cui aveva fermato il Barcellona finirono all’asta su Internet, la maglia era già stata regalata a un tifoso greco che gli aveva offerto una vacanza. «I ricordi non me li toglierà nessuno». Li ha portati con sé negli Stati Uniti, dove ha risieduto per qualche tempo: «Ho vinto una green card alla lotteria. Sono stato a Phoenix, in Arizona. Ma non potevo lavorare e sono rientrato in Romania. Mia moglie e mia figlia sono rimaste là». Un altro schiaffo dalla vita.
Povero e quasi dimenticato, Duckadam ha avuto un sussulto d’orgoglio nel 2008, quando Traian Basescu, presidente della nuova Romania, gli ha assegnato il Meritul Sportiv di seconda classe. «Non l’ho ritirato. Ceausescu mi aveva già conferito quello di prima classe». Poi l’incontro con “Gigi” Becali, quello con la seconda moglie e la nascita della piccola Julianne.
A Bucarest, dove lo sguardo abbraccia contemporaneamente edifici liberty, palazzoni egualitari e grattacieli di vetro, si può vivere senza contraddizioni il presente pur avendo nostalgia di un passato diversissimo. La singolare parabola di Duckadam è una chiave di interpretazione per capire come sia possibile trovare in vendita, nella principale libreria del centro, un volume fotografico intitolato Flashback. Glorioso comunismo, vittorioso capitalismo.