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 2016  giugno 04 Sabato calendario

NELLE VISCERE DELLA CITY L’ORO DI MOLTE WALL STREET


LONDRA. «L’oro è come un ombrello, quando piove costa di più», dice l’adagio. Lo chiamano safe haven. Bene rifugio. Ironico, nell’epoca della moneta virtuale Bitcoin, che la soluzione preferita dagli investitori per fronteggiare mercati senza direzione sia il caro vecchio deposito di Zio Paperone.
Dopo un rally decennale, che ha raggiunto il suo picco nell’agosto 2011 a 1.900 dollari l’oncia, con successiva caduta, da inizio 2016 il prezzo dell’oro a consegna immediata è salito del 20% a quota 1.229 dollari l’oncia. Tassi d’interesse negativi e generalizzati, politiche monetarie espansive e la percezione di un rallentamento economico globale sono i fattori che hanno influenzato il recupero del metallo prezioso. Il rischio Brexit e Donald Trump quelli che potrebbero sostenerne la performance futura.
In una lettera agli investitori pubblicata a fine aprile, Paul Singer, fondatore del fondo Elliott, che gestisce 28 miliardi di dollari, ha commentato: «Se la fiducia del mercato nelle banche centrali continua a indebolirsi, gli effetti sull’oro saranno dirompenti». Stan Druckenmiller, sodale di George Soros e fondatore di Duquesne Capital Management, 8 miliardi in gestione, ha svelato il mese scorso che l’oro rappresenta la fetta più consistente del suo portafoglio di investimenti, terminato il rally azionario americano.
La corsa all’oro non riguarda solo Wall Street. Secondo le stime del World Gold Council, l’organizzazione che riunisce le principali compagnie minerarie aurifere del mondo, le banche cinesi, russe e kazake acquisteranno complessivamente 600 tonnellate di metallo prezioso nel 2016, rispetto alle 566.3 tonnellate comprate nel 2015.
«L’oro è stato sostenuto dalla forte domanda fisica proveniente dall’Asia, con le importazioni da parte dell’India che a gennaio hanno visto un’impennata del 62% rispetto all’anno precedente, mentre anche in Cina la richiesta del metallo giallo dovrebbe continuare a crescere, stimolata dal rischio di una svalutazione dello yuan», sostiene Nevine Pollini, senior analyst delle commodities presso Union Bancaire Privée – Ubp, in un report pubblicato a inizio marzo.
Una dimostrazione pratica della fame cinese è avvenuta a metà maggio, quando Icbc Standard Bank ha diramato un comunicato annunciando di essere in trattativa con Barclays per l’acquisto di un forziere in grado di contenere duemila tonnellate di lingotti per un controvalore attuale di 80 miliardi di dollari.
Ignota la cifra pagata dalla banca d’affari basata a Londra, nata lo scorso febbraio dal matrimonio tra la Industrial and Commercial Bank of China (Icbc) – una delle quattro principali banche controllate da Pechino, (le altre sono Agricultural Bank of China, Bank of China e China Construction Bank) – e la sudafricana Standard Bank. Ignota, ovviamente, la location del forziere. Si sa solo che si trova all’interno del M25, l’autostrada che ruota attorno a Londra. Un po’ come dire che a Roma un deposito si trova all’interno del Grande raccordo anulare.
Secondo quanto riferisce il Guardian, sparsi per Londra ci sarebbero altri sei mini Fort Knox. L’unico noto è quello della Banca d’Inghilterra, sotto Threadneedle Street, che non è visitabile. Magra consolazione, al museo dell’istituto centrale inglese è però possibile toccare un lingotto dal valore di 400 mila sterline. Peccato sia vietato portarlo a casa. Sembra invece che uno dei sei, di proprietà di JP Morgan, potrebbe trovarsi sotto Victoria Embankment, a due passi da Westminster e dal London Eye, la ruota panoramica parte dello skyline cittadino.
Perché Londra? Nella capitale britannica ha sede la London Bullion Market Association (Lbma), di cui fanno parte fondi, investitori privati, istituti di credito e banche centrali. L’ente si occupa di certificare il cosiddetto “Good Delivery”, la lista di parametri standard dei lingotti d’oro e d’argento (peso, qualità della superficie, percentuale d’oro, etc.) stilati per la prima volta dalla Banca d’Inghilterra nel 1750. Ad aprile, sulla piazza londinese si sono chiuse compravendite d’oro per un controvalore di 20 miliardi di dollari, secondo gli ultimi dati della Lbma.
L’acquisizione del forziere segreto di Barclays servirà ad espandere le attività di compensazione e di stoccaggio dell’istituto sino-africano. Con malcelato patriottismo, il Financial Times ha definito l’operazione «un voto di fiducia» sulla città. I media inglesi hanno peraltro ricordato come l’istituto avesse già provato in passato, senza successo, a comprare il deposito di Deutsche Bank, capacità 1.500 tonnellate, sempre a Londra.
Per la banca inglese, invece, l’uscita dal business del trading di metalli preziosi è parte del piano strategico. Anche per via delle investigazioni dei regolatori americani ed europei sulla presunta manipolazione dei prezzi di oro, argento e altri metalli preziosi di concerto con JP Morgan, Deutsche Bank e una decina di altri istituti. Secondo uno scarno comunicato della Fca, la Consob inglese, a giugno 2012 il trader Daniel James Plunkett, poi licenziato, avrebbe cercato di influenzare il prezzo dell’oro piazzando un proprio ordine di vendita contro quello di acquisto di un cliente della banca, per evitare che il prezzo fissato alle 15 andasse sopra la soglia di 1.550 dollari l’oncia, così da evitare un esborso da 3,9 milioni di dollari. Barclays ha già pagato una multa da 26 milioni di sterline.
Se dunque dall’infrastruttura londinese non si può prescindere se si vuole operare in oro, capire quanto ci si potrà guadagnare nel corso dell’anno è impresa ardua. Esempio pratico: lo scorso 27 maggio la cauta apertura del presidente della Federal Reserve, Janet Yellen, su un possibile rialzo dei tassi definito «probabilmente appropriato» dato il Pil statunitense migliore delle attese, ha fatto crollare le quotazioni dell’oro sulla piazza newyorkese (il Comex, ndr) ai minimi da tre mesi, a 1.206 dollari l’oncia, lo stesso livello dello scorso 22 febbraio.
Essendo convenzionalmente denominato in dollari, il lingotto è infatti correlato inversamente al biglietto verde, ovvero si muove in direzione opposta. Un rialzo dei tassi, segno di un’economia in salute, rafforzerebbe infatti le quotazioni della divisa americana, ribassando quelle del metallo prezioso. Guardando ai prezzi indicati dalla borsa londinese a tre mesi, peraltro, la mossa della Fed è già prezzata sul contratto con consegna a tre mesi, dove il prezzo cala a 1.150 dollari l’oncia.
Ovviamente, comprare ai minimi conviene. Lo dimostrano i dati Bloomberg secondo cui al 16 maggio scorso gli asset detenuti globalmente dagli Exchanged traded funds (Etf) – fondi che replicano l’andamento di un indice o una commodity – hanno toccato le 1.822,3 tonnellate, il massimo da dicembre 2013. Gli acquisti di oro da parte degli Etf (che comprano oro e danno agli investitori quote del fondo il cui valore varia a seconda del prezzo dell’oro) sono saliti di 63,2 tonnellate nelle ultime due settimane.
Poi ci sono i fondi che investono in azioni di compagnie minerarie. Il primo della classe è Mfm Junior Gold, fondato da Jim Slater, per decenni commentatore finanziario del Sunday Telegraph e uno dei padri dei fondi specializzati in fusioni e acquisizioni. Da ricordare la sua partnership con il tycoon James Goldsmith, padre di Zach, di recente battuto dal laburista Sadiq Khan alle elezioni per il sindaco di Londra.
Mfm è salito del 102% da maggio 2015 a oggi, secondo i dati Trustnet. Sul podio si piazzano anche Smith & Williamson Global Gold & Resources, più 66,5% nello stesso periodo, e Investec Global Gold, più 66% da un anno a questa parte. Il suo principale investimento, pari al 10,3% del capitale del fondo, è nella canadese Barrick Gold Corporation, mentre il 4,9% degli asset di Smith & Williamson Global Gold & Resources è investito in un’altra compagnia canadese, la Agnico-Eagle Mines.
Non è un caso. Entrambe quotate a Wall Street, le azioni di Barrick da inizio anno sono salite da 7 a 17 dollari, quelle di Agnico da 26 a 45 dollari. Il segreto è nei loro costi di produzione rispetto alle attuali quotazioni del metallo giallo: 573 dollari l’oncia per Agnico nel primo trimestre 2016, mentre 540-580 dollari l’oncia è quello stimato da Barrick per il 2016, secondo una presentazione che entrambe hanno tenuto nel corso di un evento settoriale organizzato a inizio maggio da Bank of America Merrill Lynch. Difficile dire se il trend sarà duraturo. È invece facile stimare che, per una compagnia che produce al costo di 600 dollari l’oncia, un eventuale rally dell’oro da 1.200 a 1.500 dollari – ovvero più 300 dollari – significherebbe un guadagno del 50%.
«L’oro è una forma di assicurazione a lungo termine», ha dichiarato al Telegraph James Steel, capo del desk metalli preziosi a Hsbc. Brexit, volatilità del prezzo del petrolio, dollaro debole sono gli elementi da tenere d’occhio per capire se i lingotti dei cinesi custoditi nelle viscere della City saranno stati un buon investimento.