Antonino Michienzi, pagina99 4/6/2016, 4 giugno 2016
VITE DA KETAMINA TRA SBALLI E RISVEGLI
«Ogni volta che ci facevamo era un nuovo viaggio dentro noi stessi, vedevamo le nostre paure, i nostri desideri più inconsci, ricordi passati che si mischiavano a ricordi più presenti e l’anima che si staccava dalle ossa, un’esperienza ultraterrena che ancora oggi a distanza di tempo mi ha lasciato dei segni indelebili nella mente». Pare tratto da un romanzo, il racconto che un ragazzo in cura presso il dipartimento per la Prevenzione delle dipendenze patologiche della Usl7 di Siena fa della sua esperienza con la ketamina.
Una droga diversa dalla maggior parte di quelle che si trovano sulle piazze dello spaccio. E con un destino bizzarro, che ora potrebbe vederla impiegata a scopo medico come antidepressivo, dopo essere stata concepita per combattere il dolore fisico ed essersi imposta tra le sostanze più popolari nella cultura rave.
La ketamina viene sintetizzata all’inizio degli anni Sessanta con l’obiettivo preciso di farne un anestetico. Alla fine del decennio è già sul mercato, e tra i primi a sfrattarne gli effetti ci sono i soldati americani impegnati nella guerra del Vietnam. A differenza degli altri anestetici, la ketamina sortisce i suoi effetti senza deprimere eccessivamente il sistema respiratorio. È quindi l’anestetico ideale per le condizioni di emergenza come uno scenario di guerra: non richiede particolari attrezzature e perfino i soldati possono somministrarla ai commilitoni.
La sostanza agisce su diversi meccanismi nella trasmissione dell’informazione al sistema nervoso centrale (l’azione più nota è l’interazione con il recettore Nmda): attraverso quest’azione è in grado di alterare il modo in cui il cervello accoglie ed elabora i dati in arrivo dall’ambiente e dal corpo stesso. Nasce da questo la sua proprietà anestetica, ma anche il suo “lato oscuro”, che emergerà poco dopo la sua immissione in commercio.
La ketamina crea una distorsione della percezione dei sensi e arriva a produrre l’illusione dell’estraniamento dall’ambiente e di una separazione tra corpo e mente. In alcuni casi si arriva perfino a sperimentare esperienze di pre-morte. Sono queste sue proprietà che, già all’inizio degli anni Settanta, ne fanno la sostanza ideale nell’ambito della controcultura scientifica americana.
John C. Lilly, psicologo e neuroscienziato statunitense, fu tra quelli che più aprirono la strada all’uso della sostanza, sperimentandone gli effetti su di sé: ebbe a dire che la ketamina offre a chi ne fa uso la capacità di «spiare dal buco della serratura dell’eternità».
Lentamente, mentre la medicina la accantona a causa dei suoi effetti indesiderati relegandola a usi marginali e a quelli veterinari, il suo impiego ricreativo cresce. E negli anni Novanta comincia ad affermarsi anche in Italia, soprattutto nel contesto dei rave. Ma non è una droga come le altre. Chi la assume ha comportamenti palesemente diversi da chi lo circonda. «Per questo spesso è stigmatizzata tra i consumatori di altre sostanze», racconta Giulio Vidotto Fonda.
Vidotto è un sociologo; oggi si occupa di ricerche per Swg, ma per anni è stato operatore sociale e di strada, nonché ricercatore nel campo degli stili giovanili. È da questo contesto che ha tratto spunto per un saggio sociologico sui modelli di consumo della ketamina edito da Franco Angeli nel 2013.
Dal lavoro emerge tutta l’atipicità di questa sostanza: «Se non c’è una persona che accompagni in un percorso di apprendimento spesso non piace e si interrompe il consumo», dice. Inoltre non esiste un consumatore-tipo. «C’è chi ha iniziato con la ketamina perché usava altre sostanze e ha sentito la necessità di un sedativo, di un qualcosa che garantisse un “effetto atterraggio”; ci sono quelli che la prendono per sentire la musica in modo diverso, per partecipare di più al ballo; ci sono poi quelli che cercano esperienze di dissociazione, un distacco completo dal corpo», aggiunge il ricercatore che per mesi ha osservato e intervistato chi faceva uso della sostanza.
L’analisi di Vidotto si riferisce al contesto dei rave, attraverso cui la ketamina ha fatto il suo ingresso in Italia. Ma il mondo delle droghe è fluido e già oggi la realtà potrebbe essere diversa da quella fotografata solo pochi anni fa dal sociologo.
Sembra chiaro, per esempio, che la ketamina è ormai uscita dalla cerchia originaria per diffondersi in altri ambienti. Ma nessuno sa quali sono i reali consumi.I dati ufficiali, riportati dalla Relazione annuale al Parlamento 2015 sullo stato delle tossicodipendenze in Italia, parlano di circa 120 mila persone che nell’ultimo anno hanno fatto uso di allucinogeni. Una categoria ampia, in cui rientrano oltre alla ketamina diverse sostanze: dai funghi allucinogeni, alla mescalina, all’Lsd.
Rilevazioni condotte negli anni passati avevano osservato un aumento nei consumi di ketamina fino al 2011, con una sua progressiva stabilizzazione negli anni successivi. La droga, inoltre, sembra essere quasi completamente assente dal Sud e dalle Isole.
Poche informazioni che comunque confermano la sensazione di Vidotto: «Non penso che diventerà mai la droga più diffusa». Un altro aneddoto del ricercatore, inoltre, fotografa una possibile transizione nell’uso della sostanza: «Molte persone che ho intervistato mi dicono che, vista la forte assuefazione prodotta dalla ketamina, non sentivano più gli effetti allucinogeni. Ciononostante la continuano a prendere perché seda l’ansia, la tristezza, la solitudine». Funziona, insomma, come antidepressivo.
Ed è puntando su quest’ultimo aspetto che la medicina sta cercando di riprendersi la ketamina. Numerose ricerche stanno infatti indagando le proprietà antidepressive della sostanza. L’ultimo lavoro è stato pubblicato sulla rivista Nature e mostra che l’azione antidepressiva della ketamina non ha nulla a che vedere con i meccanismi di azione che ne determinano gli effetti allucinogeni. Ed è una buona notizia perché significa poter sfrattare, della sostanza, soltanto le proprietà che tornano più utili, escludendo i noti effetti non desiderabili.
«In questo lavoro i ricercatori hanno utilizzato dei topi e hanno visto innanzitutto che solo una della due forme in cui esiste la ketamina è in grado di dare l’effetto antidepressivo. Non solo: è stato osservato che la forma attiva non era efficace in quanto tale ma attraverso un metabolita, la nor-idrossi-ketamina», spiega Gaetano Di Chiara, ordinario di Farmacologia dell’Università di Cagliari. «A quanto pare questo metabolita agisce sui recettori Ampa e non su quelli Nmda a cui sono legati gli effetti anestetici e di allucinogeno della molecola».
Ora la ricerca prosegue e bisognerà verificare i risultati sull’uomo. «A differenza degli antidepressivi tradizionali che hanno un periodo di latenza dai 15 giorni ai due mesi, la ketamina ha un effetto antidepressivo rapido», dice ancora Di Chiara. Agisce in poche ore. «Inoltre questo effetto dura vari giorni».
Basta mettersi per un attimo nei panni di una persona depressa per capire cosa significhi non dover attendere mesi per avere sollievo dai sintomi della depressione. Significherebbe ritornare alla vita; sarebbe una svolta. Per ora, però, la ketamina terapeutica è poco più che una promessa.