Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2016  giugno 08 Mercoledì calendario

L’ANARCHICO DEL CLIC– Era il 1977, Michael Lichter aveva 22 anni, suonava la batteria in una Bebop jazz band e per puro diletto scattava fotografie

L’ANARCHICO DEL CLIC– Era il 1977, Michael Lichter aveva 22 anni, suonava la batteria in una Bebop jazz band e per puro diletto scattava fotografie. Quello stesso anno comprò una Harley-Davidson Shovelhead del 1971, una moto che possiede ancora oggi e contribuì in modo determinante a dare una svolta alla sua vita: mise presto da parte le bacchette da batterista e decise che le due ruote e la macchina fotografica sarebbero state le uniche cose essenziali per il resto della sua carriera. Che oggi è ancora in pieno svolgimento. Per capirlo basta guardare Michael quando lavora. Sembra un soldato più che un fotografo: tre corpi macchina, ottiche, flash, filtri, cavalletti, tutti agganciati al gilet tecnico. Esagerato. Come le sue fotografie. Mettendole in ordine cronologico si ottiene uno straordinario racconto della storia degli ultimi 40 anni della cultura motociclistica americana, dai raduni di Sturgis ai viaggi coast to coast in sella a vecchie Harley. C’è di più, però, perché ogni frame è un collage di sentimenti ed emozioni che insieme contribuiscono a scrivere un racconto. Vanno analizzate bene le sue foto perché, per esempio, ce n’è una in cui alla prima occhiata non noti il ragazzo con i capelli lunghi senza un braccio che se la ride. Ma sono proprio dettagli come questo a fare le differenza. Quando nasce la tua passione per la fotografia? «Avevo cinque anni quando uno zio mi portò nella sua camera oscura; vidi per la prima volta la stampa della foto emergere dalla soluzione chimica e provai una sensazione stupenda. Fu l’inizio di tutto. Per qualche anno, finché ero ancora bambino, usavo semplici Polaroid o usa e getta. Per il tredicesimo compleanno papà mi regalò una Pentacon 35 millimetri che risaliva alla Seconda guerra mondiale. Andai immediatamente fuori a scattare. Creai una piccola camera oscura nella casa dei miei genitori e lì cominciai a sviluppare la mia tecnica fotografica. Durante l’adolescenza passai innumerevoli notti in quella camera. Amavo scattare ma amavo soprattutto vedere le foto emergere dalla pellicola. Non ho mai fatto un corso di fotografia, ero un autodidatta. Poi, all’università, mentre studiavo storia e arte, cominciai direttamente a seguire lezioni avanzate di fotografia». E le moto? «Da ragazzo non ne ho mai avuta una mia, ma usavo comunque quelle degli amici. Durante l’università un compagno di studi un giorno arrivò con una Harley-Davidson Knucklehead del 1947 e mi disse semplicemente: “Prendila”. Fu incredibile, il mio primo giro su una moto di grossa cilindrata, davvero indimenticabile. Nel 1977 comprai una vecchia Shovelhead in California e, cinque minuti dopo averla ritirata, ero già sulla strada verso casa, in Colorado, scattando fotografie. Diciamo che da quel momento cominciai a combinare assieme queste due passioni: ogni volta che salgo in sella ho sempre con me una macchina fotografica. Cominciai a raccontare i miei viaggi con le immagini e, soprattutto, iniziai a documentare i raduni e gli altri eventi ritraendo le persone, spesso straordinarie, che popolavano queste manifestazioni». Osservando attentamente le tue foto, quello che a un primo sguardo sembra qualcosa di inutile in realtà spesso contribuisce a raccontare una storia. Da dove parte il tuo processo creativo? «Ho un profondo interesse per ogni cultura e per le persone: mi piace osservarle, capire che cosa fanno, ma sopratutto adoro guardarle mentre si impegnano in ciò che amano fare. Fotografo personaggi che vivono la propria vita al massimo. Quindi, qualsiasi cosa stiano facendo, cerco di preoccuparmi meno della macchina fotografica e di essere più coinvolto nelle loro passioni. Questo è ciò che cerco di catturare in ogni scatto: emozioni allo stato puro». Che cosa significa per te la parola “passione”? «È un termine che assume un significato diverso per ognuno di noi. Ho viaggiato molto in Asia, Africa ed Europa e ogni cultura aveva una propria concezione della parola. Ma voi italiani siete il popolo maggiormente coinvolto dalla passione. Questo è uno dei motivi per cui l’Italia è uno dei miei Paesi preferiti: si percepisce un totale coinvolgimento emotivo nel vostro cibo, nelle moto che costruite, nei monumenti che hanno fatto la vostra storia. Per quanto mi riguarda, la passione può essere equiparata all’amore: abbandonarsi a quello che i sensi ci trasmettono, essere totalmente coinvolti dal contesto». Preferisci definirti “un fotografo che va in moto” o “un motociclista che fotografa”? «Credo di essere entrambe le cose. Sono un fotografo che va in moto ma, naturalmente, sono anche un motociclista che fotografa. Purtroppo non ho abbastanza tempo per salire in sella quanto vorrei, a causa dei continui viaggi lavorativi. Agli inizi scattavo mentre guidavo, ma negli ultimi anni ho scoperto che riesco a trovare nuove angolazioni e inquadrature solo stando dietro. Credo di avere accumulato più di 20mila miglia di viaggi e fotografie come passeggero. Alcune persone non concepiscono l’idea di non guidare personalmente, ma a me non importa. Ho fatto tre viaggi da costa a costa per un totale di 3.960 miglia come passeggero e ne ho fatti quattro guidando. La cosa più importante è lasciarsi coinvolgere completamente dagli avvenimenti, dalle situazioni e dalle persone. E credo che la moto sia il mezzo che più di tutti permette di trasmettere queste sensazioni: puoi sentire il vento e percepire tutti gli elementi della natura che ti circonda. Senti il freddo, la pioggia, anche la neve, qualche volta. La moto forza i tuoi sensi a emergere, ed è questo che ti fa sentire vivo. I suoni, i colori... Tutto è intensificato, non sei protetto, non c’è nulla che si frappone tra te e il mondo. La cosa che mi piace di più è immortalare queste sensazioni congelandole in uno scatto». In che cosa cerchi di migliorare dopo ogni scatto? E qual è, se puoi citarne uno, il tuo preferito? «Ogni foto è un’esperienza nuova ed è impossibile sceglierne una piuttosto che un’altra perché in tutte c’è stato qualcosa di unico che merita di essere ricordato. È come se mi chiedessero di scegliere quale dei miei due figli è il preferito, non è possibile rispondere e lo stesso principio vale per le immagini. C’è poi da considerare che sono un dannato perfezionista e ogni volta trovo qualcosa che non va, che posso migliorare. Oltre alla passione, quindi, ho anche una forte motivazione che mi spinge a fare sempre meglio. Tornare fuori con la macchina fotografica, cercare di migliorarmi, riprovarci, cercare nuove angolazioni. Mettersi in ginocchio e osservare il soggetto da fotografare dal basso, poi alzarsi e vedere come cambia nel mirino della fotocamera...». Quanto conta la tecnica per essere un grande fotografo? «Molto, ma da sola non basta. Ho tenuto alcune lezioni a dei bambini e non ho nemmeno fatto usar loro una vera fotocamera, ma soltanto semplici cornici da usare come una sorta di mirino. Questo per far loro capire come muta un mondo tridimensionale quando lo si rappresenta in due dimensioni. Tante volte inquadro dei soggetti solo per capire come questi possono cambiare apparendo in uno scatto. La fotografia rappresenta spazi, oggetti, forme, colori e luci e tutti questi elementi si fondono per formare, appunto, uno scatto». Cosa definisce un’immagine ben riuscita? «Ci sono diverse sfumature di bellezza. C’è il sorriso di una bella donna ma anche quello di una persona bella dentro, una di quelle che quando le guardi capisci subito il carattere. Per quanto riguarda la fotografia, uno scatto è bello quando c’è una buona composizione e se tutti gli elementi si combinano assieme. Bisogna imparare a essere veloci a vedere con la mente la foto che stai per scattare per capire come esaltarla». Ma allora è più importante la qualità del tuo lavoro o la storia che quel lavoro racconta? «Dipende tutto da chi la guarda. Fare una fotografia significa catturare un istante di vita e di storia, lo ho immortalato il mondo motociclistico per quasi quarant’anni e alcuni affermano che ne ho raccontato la storia. In effetti è così, ma chi guarda la foto può fermarsi anche al mero aspetto tecnico, senza leggere tra le righe i messaggi che lo scatto racconta». Che rapporto hai con le nuove tecnologie? «Oggi, purtroppo, a causa di Instagram e Facebook molte persone non prestano la minima attenzione alla qualità dello scatto. Ne fanno un sacco, meccanicamente, e poi li caricano in rete. Ma nessuno li osserva davvero. Chi lo facesse potrebbe scoprire, per esempio, che sarebbero bastati pochi centimetri per fare in modo che la luce colpisse il soggetto o la scena in maniera diversa, esaltandone i colori e le forme. Credo che bisognerebbe insegnare nuovamente alle persone a prestare attenzione ai dettagli anche negli scatti di tutti i giorni. Il trucco che consente di fare cose egregie anche con un iPhone consiste nel far diventare la macchina fotografica un’estensione di se stessi. Se ci pensi è il medesimo concetto di quando siamo alla guida di una moto». Le macchine fotografiche sono destinate a estinguersi? «Non bisogna mai dimenticare che sono solamente un mezzo. Nella fotografia digitale moderna diventano veri e propri computer. Per chi come me è cresciuto con le analogiche a volte è difficile adattarsi. Ma cerco di capire come lavora ogni singola funzione, così da poter realmente entrare in sintonia con l’oggetto. Il lato negativo è che molti comprano migliaia di dollari di attrezzature che poi usano in automatico, quando basterebbe un minimo sforzo di comprensione per riuscire a scattare foto molto migliori. La macchina fotografica non può sapere che cosa si sta fotografando, se nel mirino hai un uomo con la barba scura, vestito di pelle, in un bar con poca luce oppure una sposa con il classico abito bianco in un ambiente inondato dalla luce. Dobbiamo essere noi a interpretare la luminosità e le forme e a saper dialogare al meglio con la nostra macchina. Insomma: devi sempre essere in controllo della scena e della tua attrezzatura. Ti faccio un esempio: mio padre era un pilota da caccia e durante l’addestramento facevano un test bendati, per capire se riuscivano a ricordare la posizione di ogni pulsante e di ciascuna leva. Dovrebbe essere lo stesso anche con la macchina fotografica». Crei un legame particolare con la tua attrezzatura? «Per molti di noi la macchina fotografica è una sorta di talismano, un portafortuna, pensi addirittura che possa proteggerti. Questo convincimento porta molti professionisti a sentirsi invincibili e può essere pericoloso. Alcuni di loro hanno perso la vita spinti da un distorto senso di immunità. Ma ci sono anche alcuni casi in cui un fotografo è stato realmente salvato dalla propria fotocamera. Tutti ricordiamo Don McCullin, che nel 1968 stava documentando la guerra del Vietnam quando la sua Nikon fermò un proiettile. È stato un caso, ovvio, ma sta di fatto che quella macchina lo salvò veramente. La maggior parte delle volte, però, si tratta di una falsa protezione. Al tempo stesso nessuno può toglierti dalla testa che senti di poter fare qualcosa che senza quell’oggetto in mano non saresti in grado di fare. Anch’io qualche volta ho esagerato: stavo scattando una campagna pubblicitaria per un’azienda di occhiali e caddi dal cassone di un pick-up che viaggiava a 110 chilometri all’ora. Dopo quell’incidente mi sono dovuto fermare per tre mesi. Ma il bello è che appena mi sono ripreso sono tornato subito in Wyoming, anche se avevo ancora parecchie ossa doloranti, per trovare quello scatto: era proprio il clic che mi mancava per il servizio. Da allora qualche volta mia moglie ha obbligato il nostro primogenito a venire con me, perché mi controllasse». A proposito di figli: stanno seguendo il tuo percorso? «No. Entrambi si sono specializzati nelle energie rinnovabili. Qualche volta sono stati miei assistenti, ma non è il loro lavoro. Da padre ho accettato questo fatto perché non li ho mai obbligati a fare qualcosa. Penso che per un figlio sia estremamente difficile seguire il percorso o la passione dei genitori, perché subentra sempre il confronto. Ma adesso basta domande, l’intervista è finita, devo andare a scattare». Ancora una: fotograferai delle Harley o che altro? «Assolutamente no. Oggi il mio soggetto sono le persone. Voglio catturare le emozioni di chi osserva la propria compagna a due ruote. Fotografare solo le moto sarebbe troppo facile».