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 2016  giugno 04 Sabato calendario

PERCORSI NUOVI PER USCIRE DALLA CRISI

Fin dall’inizio della crisi del 2008, tra Germania e Stati Uniti c’è stata una profonda polarizzazione sulle modalità con cui affrontarla. Ne è derivato un dibattito tra due scuole di pensiero economico: i keynesiani da un lato e i fautori dell’ortodossia del rigore dall’altro.
I primi dicono che per ridurre il debito occorre fare leva su inflazione e crescita economica da realizzare attraverso stimoli fiscali sui consumi e con investimenti pubblici; mentre l’austerità spreme il settore pubblico e quello privato, annichilendo i sistemi economici. Per contro, gli austeriani sostengono che, in situazioni di squilibri diffusi, la riduzione della spesa pubblica genera un minor carico fiscale futuro, provocando un incremento del reddito atteso che costituisce un incentivo a lavorare, investire e produrre; pertanto gli effetti positivi del consolidamento fiscale tendono a dominare gli effetti iniziali negativi legati a un minor livello di benessere.
I profeti europei dell’austerity sono convinti che il consolidamento fiscale e il rigore dei conti costituiscono l’unico modo per indurre i Paesi in difficoltà ad attuare riforme strutturali per ritrovare una crescita di buona qualità. Per tali motivi l’austerity è ritenuta una forma di “risanamento responsabile” poiché non lascia irrisolti i problemi cronici. Dal loro canto, gli anti-austeriani ribattono che si tratta di tesi dogmatiche basate su congetture in quanto, in periodi di crisi della domanda, le strette fiscali ripetute e le contrazioni di spesa pubblica repentine mortificano le aspettative sul futuro, inducendo a ridurre consumi e investimenti, innescando un circolo vizioso che peggiora la sostenibilità del debito.
È indubbio che, in un periodo di crisi economica da domanda, affrontare gli shock avversi con tagli draconiani e indiscriminati di spesa pubblica e con aumenti di imposte porta come unico risultato una grande distruzione di ricchezza e un peggioramento rilevante del rapporto debito/Pil . La storia recente del nostro Paese (-9% di Pil dal 2008 a oggi) lo conferma.
Peraltro è ormai un dato incontrovertibile che le politiche monetarie ultraespansive, in un contesto di moderata crescita globale e rilevanti spinte deflazionistiche, non riescono da sole a conseguire gli obiettivi d’inflazione e di sviluppo economico attesi. Tuttavia, se i Paesi devono le loro avversità a una crisi di debito, non possono pensare di reagire a una fase di gravi difficoltà economiche, accompagnata da crisi di fiducia dei mercati, accrescendo il deficit ed il debito. È evidente che i Paesi creditori e i mercati non sarebbero disposti ad avvallare tale scelta accettando gli ulteriori rischi a proprio carico.
Le due correnti di pensiero hanno pertanto un limite comune: quello di voler essere universalmente valide. Le teorie dei keynesiani sembrano applicabili solo a quei Paesi in fase di stagnazione o recessione che hanno livelli di debito e di rischiosità complessiva ritenuti accettabili, o che hanno capacità di gestire con ampia flessibilità la leva monetaria, valutaria e fiscale. Le teorie dell’ortodossia del rigore sono applicabili a quei Paesi con alti livelli di debito o deficit abnormi, forti inefficienze dell’apparato pubblico, livelli di produttività e competitività inadeguati, sistemi finanziari fragili e ricchezze private esigue. Poi ci sono i Paesi con economie competitive e con elevate ricchezze private che hanno un elevato debito pubblico, un alto costo del servizio del debito, tassi di interesse reali di rinnovo positivi, un elevato livello di pressione fiscale, una spesa pubblica primaria difficilmente comprimibile, deficit di bilancio contenuti e un forte bisogno di riforme strutturali. In questo caso per spezzare il circolo vizioso che s’instaura tra ricerca di equilibri di bilancio e crescita reale che non si materializza, occorre trovare soluzioni capaci di provocare, almeno su uno dei fattori destabilizzanti o sui deficit strutturali, uno shock positivo di credibilità immediato, da incardinare all’interno di un piano di risanamento e rilancio.
Di fronte all’impotenza conclamata degli schemi classici di reazione alle crisi occorre considerare che probabilmente siamo entrati in una fase macroeconomica assimilabile a quelle che Thomas Kuhn definiva “crisi dei paradigmi”. La fase successiva è quella della “rivoluzione scientifica”. Qual è l’alternativa? La rassegnazione al declino o a una lenta agonia? O quella di individuare percorsi nuovi come quello della riduzione in via diretta di una quota di debito attraverso una sua messa in ammortamento nel lungo termine per liberare risorse da destinare alla crescita, redistribuendo ricchezza dalle rendite alla produzione e al lavoro, nell’ambito di un piano di rafforzamento strutturale? Se la crisi attuale è anche paradigmatica, le soluzioni non possono più essere semplicemente dogmatiche. È questa una consapevolezza essenziale per promuovere una sana e indispensabile rivoluzione scientifica.


Giuseppe Maria Pignataro, Il Sole 24 Ore 4/6/2016