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 2016  giugno 03 Venerdì calendario

CLAUDIO RANIERI: «I MIEI RAGAZZI NON HANNO MAI PAURA, C’È SCRITTO NELLO SPOGLIATOIO. GIOCANO SEMPRE IN 11 E LI PROTEGGE RICCARDO III» – Ci vorrebbe Shakespeare per raccontare la vittoria del Leicester, «la più grande impresa nello sport di tutti i tempi» per il New York Times (che ha aggiunto un “forse” che si può tranquillamente levare)

CLAUDIO RANIERI: «I MIEI RAGAZZI NON HANNO MAI PAURA, C’È SCRITTO NELLO SPOGLIATOIO. GIOCANO SEMPRE IN 11 E LI PROTEGGE RICCARDO III» – Ci vorrebbe Shakespeare per raccontare la vittoria del Leicester, «la più grande impresa nello sport di tutti i tempi» per il New York Times (che ha aggiunto un “forse” che si può tranquillamente levare). La squadra che doveva lottare per salvarsi (questo era l’obiettivo di inizio stagione) ha trionfato nel campionato più importante del mondo. E, probabilmente, Shakespeare lo zampino ce l’ha messo. Vediamo come. Tempo fa ritrovarono a Leicester i resti di Riccardo III, uno dei grandi del teatro shakespeariano. Era un segnale. Il principe Riccardo non era favorito, per dirla calcisticamente, nella corsa al trono (lo scudetto), ma riuscì a farsi re eliminando gli altri pretendenti a colpi di omicidio (contropiede). Rileggete adesso il famoso monologo di Riccardo («Ora l’inverno del nostro scontento / si è tramutato in gloriosa estate grazie a questo sole di York»), e capirete che si sta parlando proprio del Leicester City Football Club. Il passaggio dall’oscurità e dal dolore (lo scontento) alla luce e alla gioia (l’estate gloriosa). Nel resto del monologo si trovano, poi, ghirlande di vittoria a cingere la fronte di chi ha combattuto (i festeggiamenti del titolo), armi ammaccate (tutte le sconfitte del club nel passato) trasformatesi quasi per magia in trofei d’oro, massacranti marce (i tornei di Championship, la B inglese) diventate «leggiadri passi di danza». E perfino Marte, dio della guerra (e oggi, forse, del calcio), dopo aver lanciato al galoppo i suoi destrieri (il centravanti Jamie Vardy?) contro i nemici atterriti, ora «piroetta nel salotto di una dama secondando le note lascive di un liuto». È chiaro che Shakespeare aveva previsto tutto. Mister Claudio Ranieri, nessun giornalista inglese aveva intonato il monologo di Riccardo III per celebrare la vittoria? «No, proprio no. Però a Leicester si diceva che aver trovato lo scheletro del re è di buon augurio (anche per la squadra)». Vorrei cominciare l’intervista con una curiosità linguistica. Da Jamie Vardy e dagli altri campioni del Leicester si fa chiamare “mister” all’italiana? «Mai. Mi chiamano boss o gaffer». Gaffer non l’avevo mai sentito. Cosa significa? «Non so di preciso, credo capo. Adesso mi fa ricordare che quando ero ragazzo il mio primo allenatore, il vecchio Masetti, il portiere che vinse lo scudetto 1941-42 con la Roma, non lo chiamavo mister, ma maestro, come a scuola». La favola del suo Leicester è cominciata, poco più di un anno fa, in Calabria con una telefonata. «Ero al mare, a Caminia». Mi scusi, sono calabrese, ma... «Calabrese come mia moglie e mia figlia». Scusi, Caminia dov’è? «Sullo Ionio. Come non la conosce?» Che figura! È che io bazzico più il Tirreno, Diamante, Tropea, Capo Vaticano. «Caminia, tra Copanello e Soverato. Dove c’è il Rebus, la storica discoteca». Ora ho capito. Lei è più calabrese di me. «Beh, ho giocato otto anni con il Catanzaro, ero il capitano. A Caminia, un posto meraviglioso, vado dal 1974. Per me il significato vero della parola vacanza è stare lì, anche solo per quattro giorni. Posso andare ovunque nel mondo ma se non passo da Caminia è come se l’estate non ci fosse stata». Lì si ritrova con i vecchi compagni del Catanzaro, quello dei due settimi posti consecutivi in serie A (1980-1982, non è vincere la Premier, però), con il centravanti Palanca, quello che faceva gol anche dal calcio d’angolo... «Palanca, Silipo, Banelli, Spelta, Pellizzaro. Lo spirito di gruppo di quel Catanzaro era fortissimo. E sa da dove viene quel legame che dura da quarant’anni? Dall’alchimia che scattò tra le mogli. Il segreto è là. Ci si ritrova a Natale da me in campagna, vicino a Siena, e d’estate al mare. Abbiamo tutti la casetta lì». I suoi ex compagni dicono che sua moglie è una cuoca straordinaria. «Ah, ah, ah». Specializzata in pesce? «In ogni cosa. Carne, pesce». Pensi che una volta un grande chef mi ha detto che la cucina calabrese non esiste. «La mia esperienza mi dice l’esatto contrario». Diceva dello spirito di squadra del Catanzaro. «È lo stesso che ho ritrovato a Leicester. I ragazzi hanno vinto perché veramente giocavano in undici. Lei dirà: vabbè, una squadra di calcio è fatta sempre di undici. Invece, tante volte si gioca in molti meno. I giocatori del Leicester c’erano tutti in campo, negli allenamenti come nelle partite. Hanno un senso altissimo dell’aiuto reciproco. Ogni palla non la danno mai per persa, ogni palla può essere quella giusta. Sono le cose che da sempre cerco di inculcare ai giocatori, ma come mi hanno dato retta loro è incredibile. Evidentemente avevano questo spirito dentro e io ho soltanto attaccato i collegamenti giusti». Lei da giocatore era un terzino roccioso, per usare il linguaggio dei giornali dell’epoca. «Uno che se non arrivava, arrivava lo stesso». Colpite qualsiasi cosa si muova sull’erba, se è il pallone meglio, predicavano i vecchi mister. «Ero terzino fluidificante e, anche se ero un destro, giocavo a sinistra». A piedi invertiti, come si dice all’università di Coverciano. «Però marcavo anche l’uomo. Ero duttile». Da quello che mi sta dicendo, lei doveva essere un giocatore all’inglese. «Come spirito sì. Ed è lo spirito che cerco da sempre di trasferire ai giocatori. Non m’interessa se fanno un errore tecnico. Mi importa che non rimangano lì a pensare: ho sbagliato. Hai fatto un errore? Scordatelo. Continua a giocare». Allora, lei è a Caminia da qualche giorno quando squilla il telefonino. «Ero arrivato appena da due giorni». Non aveva contatti avviati, qualche promessa, seppure vaga, di un ingaggio? «Disoccupato. Anche perché era tardi, era luglio. Le squadre già in ritiro. I giochi ormai fatti. Però per scrupolo avevo portato il vestito, perché la volta prima che ero andato ad allenare in Inghilterra, ai tempi del Chelsea, mi chiamarono che ero a Siena, nella casa di campagna, e nell’armadio tenevo solo roba casual e dovetti andare a comprare un vestito buono. Questa volta mi ero detto: me lo porto un vestito blu al mare. Lo metto nell’armadio, chissà». A che ora l’hanno chiamata da Leicester la mattina fatidica? «Verso le dieci e mezza, undici». E quindi? «Quindi tutto di fretta. Prendere l’aereo a Lamezia per Bergamo, dove c’era un volo per Londra che atterrava in serata». In quell’occasione con chi parlò? «Col direttore generale, col segretario, con il vicepresidente, che è il figlio del presidente Srivaddhanaprabha, e con l’amministratrice delegata». Lo stato maggiore. Cosa vi siete detti? «Vollero conoscere la mia visione del calcio, cosa sapevo del Leicester, se avevo visto giocare la squadra, se mi erano noti i giocatori». E lei cosa sapeva? Che si erano salvati all’ultimo tuffo dalla retrocessione in Championship, la serie B inglese? «Sapevo di più, sapevo abbastanza. Li avevo un po’ seguiti come seguo un po’ tutti». Era al corrente del risvolto a luci rosse dietro le dimissioni dell’allenatore suo predecessore, il party scandalo fra alcuni giocatori, tra cui il figlio del mister, e delle ragazze che erano state trattate un po’ male? «Lo ignoravo». Che impressione ebbe dall’incontro? «Che c’era stato un buon feeling. Mi aveva colpito che il vicepresidente fosse stato sempre in silenzio. Gli chiesi conferma dell’acquisto di Okazaki per sette, otto milioni. Poi feci una domanda che per me contava molto. Gli chiesi: se mi accorgo di aver bisogno di un difensore, voi me li spendete altri sette, otto milioni? Lui rispose: facciamo subito l’assegno». Perché era una domanda così importante per lei? «Perché dalla risposta avrei capito se facevano sul serio. Di solito i presidenti spendono volentieri i soldi per gli attaccanti, mentre sono molto meno propensi a farlo per i difensori. Ti dicono di arrangiarti con quello che hai in casa. Poi fu il vicepresidente a farmi la sua domanda importante. Mi chiese: ma se noi retrocediamo, lei resta con noi? Certo, dissi». Finito il colloquio, ritorna in Calabria a farsi i bagni. «Proprio due bagni di numero. Mi richiamano: vuole parlarti il presidente. Rivado su di corsa». E non torna indietro. «Firmo e mi metto al lavoro. La squadra si stava già allenando da una decina di giorni». Qual è la prima sensazione che ha incontrando i ragazzi? «Positiva. Li vedo quella sera stessa in albergo. C’era una buona elettricità, sia nei giocatori che nella società. La mattina dopo sono sul campo ad allenare e poi parliamo di acquisti. Prendiamo Inler e Kanté». Kanté si è rivelato poi una tessera fondamentale. È stata un’idea sua? «Lo conoscevo, ma anche gli scout del Leicester lo avevano individuato e così quando me ne parlarono ci trovammo subito d’accordo». La squadra che lei ereditò giocava col 3-5-2? «Non si fidi dei numeri. Si ricordi che contano i giocatori, non gli schemi. All’inizio avevo pensato di non toccare il sistema di gioco con cui avevano disputato il torneo precedente. D’altra parte ero stato preso perché avevo detto che la squadra l’anno prima non era andata malissimo. Dovevo solo capire come mai a metà campionato, dopo un buon inizio, era crollata di brutto per poi risollevarsi alla fine. Durante le partite di preparazione giocammo nella vecchia maniera». Ma qualcosa non la convinceva. «Giocavano col freno a mano. Allora cominciai a cambiare. Misi la difesa a 4. Come centrocampisti scelsi King e Drinkwater, che avevano giocato l’anno prima, lasciando in panchina i nuovi acquisti Inler e Kanté. E poi piano piano misi Kanté perché esplose in maniera prodigiosa». Mi faccia dare i numeri, se no non capisco, non ce la faccio a seguirla. Lei dal 3-5-2 passa al 4-2-3-1, dove i 2 davanti alla difesa sono Kanté e Drinkwater? «È così». Poi fa un’altra mossa decisiva. Prende Mahrez, che nella vecchia versione stava al centro del terzetto dietro la punta, e lo sposta a destra. «Sì. Perché avevo visto che il ragazzo era bravo tecnicamente e le cose migliori le faceva quando partiva largo a destra». Infatti alla fine Mahrez è stato eletto miglior giocatore della Premier. Ancora una mossa, anche questa più che decisiva, l’esatto contrario di quella che aveva fatto con Mahrez. Prende Vardy che giocava esterno e lo sposta centravanti. «Vardy aveva fatto bene in serie B, 16 gol. Arrivato in A aveva avuto difficoltà, solo cinque, sei reti. Sapevo quanto poteva essere veloce e quindi dissi: ragazzi, non teniamo la palla, diamola subito avanti così troviamo gli altri impreparati e Vardy può filare verso la porta». Era bellissimo vedere giocare il Leicester quest’anno. Si lanciavano all’attacco come bolidi di Formula 1 alla partenza. «Poi ho aggiunto allo spirito inglese la tattica italiana e da un certo momento in poi non abbiamo quasi più preso gol». Lei da ragazzo non ebbe altro in mente che giocare al calcio? «Chiodo fisso». E studiare? «Mai piaciuto». Ma un po’ ha dovuto farlo. «Fino alla terza media». Il minimo di legge. «Il minimo». Dentro di lei (lo dice spesso) ci sono due persone, una specie di poliziotto buono e poliziotto cattivo. Il Claudio 1 dice: stai sereno, hai cominciato dall’Interregionale con il Vigor Lamezia e ne hai fatta di strada. L’altro, il Claudio 2, le diceva: tu non hai mai vinto quello che ti eri prefisso, non hai mai vinto uno scudetto, sei l’eterno secondo. Così si svolgeva il dialogo fino a poche settimane fa. E adesso? Il Claudio 2 che cosa le dirà, si arrenderà al fatto che lei contro ogni pronostico (i bookmakers davano il Leicester campione 5000 a 1) ha dominato in Premier League? «Arrendersi quello? Nemmeno per sogno. Claudio 2 continuerà. Mi dirà: adesso hai iniziato e devi continuare». No, boss, così diventa un incubo. «E un incubo è, glielo dico io che ci convivo quasi da sempre». Sarete teste di serie nella fase eliminatoria a gironi della Champions League? «Sì, e tutti sperano di capitare nel nostro gruppo perché come testa di serie il Leicester è underdog». Non hanno fatto i conti con Riccardo III, il vostro protettore. La marcia trionfale con il Leicester ha prodotto in lei ripensamenti sul calcio italiano e le sue elucubrazioni? «Non mi faccia fare abiure. Posso dirle solo che da noi c’è un gioco forse troppo tattico. Mentre in Inghilterra c’è un gioco forse troppo gioco. Nella bagarre della partita sono portati a pensare di meno e ad affidarsi all’istinto. Io li ho fatti pensare un po’ di più». Ho immaginato il Leicester come una classe fatta di ragazzi irrequieti, di quelli che è difficile costringere nei banchi per troppe ore, che muoiono dalla voglia di muoversi. E lei come un maestro (il vecchio Masetti docet) che ha detto: okay, adesso vi lascio andare, ma almeno queste quattro cose dovete impararle. Sbuffavano quando lei li faceva studiare? «No, no. Lo facevano. E io sono stato attento a non esagerare». Oggi è di moda la rottamazione e lei, malgrado sia uno splendido sessantaquattrenne, come direbbe Nanni Moretti, sarebbe un bersaglio perfetto per i rottamatori. Voglio dire che poteva benissimo succedere che quella mattina a Caminia non squillava il telefono. E, magari, nemmeno nei giorni e mesi seguenti. Quindi niente favola del Leicester ecc. ecc. «Poteva accadere, certo. Ma io sono positivo, e infatti, a ogni buon conto, il vestito blu me lo ero portato». A proposito di abbigliamento, l’altra volta un amico con cui stavo guardando una partita del Leicester, mi ha detto: guarda che bella giacca blu ha Ranieri, se ti capitasse di incontrarlo gli chiedi dove l’ha presa? «Dipende. O fa parte della divisa della squadra oppure è di Prada o Armani, di solito compro quelle giacche lì. A quando risale la partita di cui mi sta parlando?». L’ultimo periodo di campionato. «Allora è la divisa ufficiale. Perché essendo arrivato all’ultimo minuto, all’inizio portavo i miei vestiti, poi mi hanno dato quelli del club». Cosa c’è scritto nello spogliatoio del Leicester? «Fearless. Senza paura, impavidi». È verissimo. Però anche gentili, il presidente del Leicester ha avuto un pensiero tenero che mi è difficile immaginare nei suoi colleghi italiani, cannibali di allenatori. Ha offerto a tutti i tifosi presenti allo stadio una birra e una ciambella. «Sì, 32mila birre e 32mila ciambelle. Era il giorno del suo compleanno». Dà l’idea di un club che è vissuto come una famiglia. «Sì, l’atmosfera è familiare. Il presidente vuole che sia così. Per il mio compleanno mi ha fatto trovare una torta nello spogliatoio prima che iniziasse la partita». E l’avete mangiata a ridosso della gara? «Noo, ho spento solo le candeline». Dal Leicester abbiamo imparato che l’ossessione del calcio italiano per le diete (la leggenda di Inzaghi che mangiava solo bresaola, ecc.) è, forse, esagerata. I suoi giocatori mangiavano tutto e lei all’inizio era allarmato. «Sì, in linea di massima mangiano tutto e sono convinti di essere nel giusto. Io ho detto che non ero molto d’accordo. Però sono abituati così». Mangiano di tutto e in quantità notevoli. «Sono atleti, perciò... E mangiano cibi molto conditi, molto speziati. Digeriscono pure le pietre, guardi». E corrono come i destrieri di Marte. «E corrono come cavalli da corsa». E si scolano qualche pinta al pub. Forse lei dovrebbe scrivere un saggio rivoluzionario dal titolo: Il ruolo della birra nel calcio. «Sarebbe la volta buona che quelli di Coverciano mi ritirano il patentino di allenatore». Mi pare che finora lei, tra i mille impegni celebrativi, non abbia avuto il tempo di godersi in pace la sua impresa. Per quando è fissato l’inizio del ritiro per la prossima stagione? «Il 4 luglio». È vicino. Quando se la godrà? «Me la godrò quando sarò lì a Caminia, davanti al mio mare».