Laura Laurenzi, Oggi 1/6/2016, 1 giugno 2016
ALBERTAZZI, UN RE DI CUORI E DI TEATRO
Può un mostro sacro essere raccontato attraverso le donne che ha amato? Nel caso di Albertazzi, che ha vissuto in quello stato di grazia di chi è perennemente innamorato, certamente sì. Gli è stato accanto fino alla fine la legittima consorte, l’aristocratica toscana Pia de’ Tolomei, matrimonio tardivo per non dire senile: lui aveva 84 anni e lei 36 di meno. «Da sempre io mi nutro di Pia e mi rigenero in lei», dichiarò lui subito dopo il sì. «Faccio mie le parole di Shakespeare: sarai giovane, sarò giovane». Curioso: l’unica donna che Alberazzi ha sposato è anche l’unica fra le sue molte fidanzate che non fa l’attrice.
Arrivò alla cerimonia vestita da buttera
Ma la storia d’amore più importante risale a un’epoca che sembra remota, il 1956, quando Albertazzi, sbancando il botteghino, fece ditta sul palcoscenico e nella vita con Anna Proclemer, sua coetanea: un tempestoso sodalizio artistico-sentimentale durato una ventina d’anni. All’inizio si amarono di nascosto, poiché lui era legato alla collega Bianca Toccafondi, la quale quando scoprì il tradimento andò a fare la spia a Luchino Visconti. Non si sono mai persi di vista, al punto che, quando Anna morì, Giorgio raccontò che la sua antica compagna gli aveva chiesto di aiutarla ad andarsene. Una sorta di eutanasia assistita: «Non l’ho fatto per egoismo», confessò Albertazzi, «volevo continuare a vederla».
Ma torniamo al suo matrimonio, il solo in una vita eroticamente movimentata. Dicembre 2007: a officiare il rito nella chiesina sconsacrata di Caracalla, a Roma, fu Veltroni. Lui indossava un berrettone di lana, lei fece un ingresso non convenzionale: arrivò a cavallo non di bianco vestita né di tulle ma in completo pantaloni di rustico fustagno marrone, un look più da buttera maremmana che da sposina romantica. «Per me che sono epicureo dalla nascita, il matrimonio costituisce il traguardo della mia lunga vita da amante», dichiarò successivamente l’attore ripercorrendo le sue numerose storie sentimentali, a cominciare dalla prima, quella con Bianca Toccafondi: «Con lei conobbi la bohème senza freni della giovinezza. Ma ci sono stati ben altri episodi nella mia vita di involontario rovinafamiglie». E ancora: «Sono un Casanova di marca fiorentina, più pericoloso del Metello di Pratolini».
Che abbia vestito i panni di Metello o di Amleto, di Mefistofele, dell’imperatore Adriano, del dottor Jekyll, calato il sipario Albertazzi è sempre stato fedele al suo personaggio di sciupafemmine narciso, di dongiovanni seriale, al centro di una galassia che annoverava stelle assolute come Anna Proclemer e via via molte altre. Per esempio Mariangela D’Abbraccio, «tenace e flessibile come un giunco», parole del mattatore; Elisabetta Pozzi, «ero il papà numero due»; Fiorella Ceccacci in arte Rubino, «la più tenera e appassionata di tutte». Semplice il meccanismo. Lo ha spiegato lui stesso in una recente intervista al Corriere della Sera: «Continuavamo a recitare anche quando eravamo a letto insieme. Gli attori non sono degli impiegati che finiscono il lavoro quando si spengono le luci».
«Convinse i miei genitori»
Pigmalione & allieva. Prendiamo la Pozzi, o meglio Betta. Cosa può esserci di più lusinghiero di un personaggio del calibro di Albertazzi che bussa alla porta dei tuoi genitori per convincerli a darti il permesso di fare l’attrice? «Non avevo ancora 18 anni e mi aspettava l’esame di maturità», racconta la Pozzi. «Feci un provino per Il fu Mattia Pascal e Albertazzi venne fino a casa per parlare con i miei genitori e convincerli a farmi andare, perché sarebbe stata un’occasione unica. Disse loro di fare uno sforzo perché quella era l’età giusta per “i cavalli di razza”». Da allora, era il 1974, Elisabetta Pozzi recitò con Albertazzi fino all’83: «Crescevo sul palco e crescevo nella vita: un’esperienza straordinaria», ricorda: «Albertazzi aveva una luce interiore enorme. Era un uomo di grande intelligenza, dotato anche di fortissima autoironia. E poi gioioso, vivace, amante delle belle donne».
Recitare con lui e fare coppia anche nella vita era quasi la regola. «I rapporti con le mie attrici sono sempre stati totali: lavorando insieme nasce per forza un’affettività elettiva, che può somigliare all’amore», teorizzò il maestro. Sono vibranti oggi le parole di nostalgia, artistica ma anche carnale, di Mariangela D’Abbraccio, che dopo un provino galeotto diventò per due anni la sua compagna. «Devo tutto a Giorgio. È la persona che mi ha dato la consapevolezza di cosa vuol dire fare teatro. Era un leone che ruggiva, un uomo che si mangiava la vita e la scena. Abbiamo sempre continuato a vederci, anche con Pia: siamo una grande famiglia allargata». Il primo incontro fu nell’84 a un provino: «Non ero convinta, c’era tantissima gente e volevo andare via. Lui mi fermò e mi chiese: “Hai lasciato il curriculum, la foto?”. Lì capii che avevo qualche possibilità».
Il primo spettacolo insieme fu Il genio di Damiano Damiani e Raffaele La Capria, in cui Albertazzi, in qualità di regista, selezionò lei, sexy e superfemminile, per la parte del transessuale Rosy. «Disse di avermi scelto perché ero molto donna». Astuto. Ma la passione divampò su un testo di D’Annunzio. Altra regola aurea: lasciarsi senza perdersi, anzi, con la certezza di ritrovarsi: «Che emozione tornare insieme in scena lo scorso anno con Borges-Piazzolla», ricorda D’Abbraccio.
«Firenze, la mia amante»
Intemperante, parlava di Firenze come fosse una donna: «città non madre, tantomeno matrigna», piuttosto «un’amante che a volte è ritrosa, a volte si nasconde o si veste da sera, straordinaria perché conosce i segreti dell’amore, dell’eros». Albertazzi ci ha lasciato un insegnamento: l’amore a 90 anni e oltre non è una questione di Viagra. Il suo sogno - lo ha reso noto la famiglia in un comunicato - era riuscire a mettere in scena un Romeo e Giulietta «interpretato da due vecchi», come disse nell’ultima intervista una ventina di giorni fa: lui e Valeria Valeri, «per farlo alla rovescia e in qualche modo iniziare dalla fine. Esiste qualcosa di meglio dell’età matura per studiare i sentimenti? I vecchi hanno un po’ capito la vita, non tanto ovviamente. Ma un po’ sì. Forse per potersene andare con serenità, consapevolezza e amore».