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 2015  giugno 03 Mercoledì calendario

FURIA DURA E SENZA PAURA

«Io li stendo alla fine, quelli tosti». Così parlò il caporale Frank Chamizo, campione di lotta libera incontrato sotto il sole di Roma al centro sportivo dell’Esercito, meglio noto come Cecchignola. Lo slang è quello ispanico-siculo innestato in palestra da un assiduo sparring partner come Carmelo Lumia da Termini Imerese. E così continuò, il caporale Chamizo, staccando dalle cuffie la voce dell’amato Marco Mengoni: «Vedi, nella lotta libera i combattimenti durano sei minuti, ma per me sono 360 secondi, perché è come se li conoscessi a uno a uno tutti e 360, io li sento scorrere dentro di me ognuno un po’ più lungo, un po’ più duro di quello prima. Così io ci sono sempre mentre gli altri non è detto, e così quelli forti li metto giù, li schieno, come diciamo noi, anche a un soffio dalla fine».
Parole non troppo esagerate sulle labbra di uno spavaldo e picaresco guerriero caraibico, che ad appena 23 anni ha già appeso in bacheca l’oro di campione del mondo e d’Europa di lotta libera, categoria 65 chili. Metallo che risplende naturale sull’incarnato afro e su quei sorrisi privi di preavviso. Manca per ora quello olimpico, di oro, che per un lottatore significa la grandiosità di essere incoronato erede dell’invincibile Melisso, «volpe e leone» in un corpo solo, cantato dal poeta Pindaro 2500 anni fa. Ma basta poco per capire che nessun mito va stretto al caporale Frank Chamizo, nato a Cuba nel 1992 e arrivato in Italia cinque anni fa – in tempo per essere naturalizzato e diventare uno degli atleti di punta a Rio de Janeiro 2016 – dopo avere sposato una «collega» lottatrice di Genova.
Rievocando un passato fatto di palestre come giostre per i bambini, in una città chiamata Matanzas, e, più tardi, di gladiatorie arene caucasiche, s’intuisce perché gli epiloghi dei match gli portino bene. None tanto questione di fame, ma di intensità. Abbandonato da piccolo alle dispotiche cure di un’amata nonna Ornai – da, a soli 7 anni il piccolo Frank sa già come intrufolarsi ovunque si pratichi la lotta libera, sport di culto nel suo Paese. E, una volta messo il piedino oltre il fatidico cerchio rosso che segna l’area delle sfide, gli resta solo battersi. Contro un padre svanito nel nulla, contro un’infanzia agra, contro chi sul tappeto bara, rintronandolo con gli schiaffoni che gli deturpano le orecchie. E la somma si concentra contro una vita da rivoltare come un calzino, perché diventi bella nell’unico modo possibile: vincendo. É la ragione per cui gli avversari prima o poi schiantano contro la sua furia computerizzata. Volpe e leone, come Melisso. «Troppo» per chiunque.
Lo imparano a loro spese i rivali spazzati via fino al bronzo mondiale di Mosca 2010, conquistato appena diciottenne con la tuta della nazionale cubana. Quel podio è adrenalina dalle conseguenze incontrollabili. Come diventare «Novado dell’anno», il giovane che fa sognare un’intera isola. Come sposarsi ragazzo con una ragazza italiana, Dalma Caneva, lottatrice a sua volta. Ma anche come essere «obligado» dalla propria federazione a dimagrire dieci chili, per scendere a 55 e vincere in quella categoria il titolo pan americano, in palio a Guadalajara nel 2011. Follia da regime. Troppo
perfino per lui, che infatti si presenta al peso della manifestazione duecento grammi sopra il limite consentito e, per questa ragione, nel suo Paese viene squalificato due anni dalle competizioni.
Il destino fa sì che, a questo punto, un Chamizo pesto e furioso diventi italiano al momento giusto. In tempo per trovare due case: quella messa su con Dalma a Genova, e il centro sportivo dell’Esercito, che oltre a una nuova nazionalità gli cuce addosso gradi da caporale e identità d’atleta. Al centro federale di Ostia completano l’opera, creando un’enclave cubana a sua misura, con l’ingaggio di un guru-allenatore come «Fuli» Delgado, e di uno sparring dal passato glorioso come Ivan Fundora. Per cui, quando tocca all’«azzurro» Chamizo ripresentarsi al limitare del cerchio rosso, roba di neanche due anni fa, il senso vitale di quei famosi 360 secondi da consuma re uno alla volta è sedimentato ancora più a fondo nelle leve scolpite come epici esametri. Il primo urlo è a Las Vegas, lo scorso settembre, per l’oro mondiale vinto dopo avere atterrato, a pochi secondi dalla fine, un colosso uzbeko di nome Ikhtiyor Navruzov. Il secondo è ancora più fresco, e riecheggia due mesi fa a Riga, in Lettonia, dove il titolo europeo arriva chiamando un «challenge», una prova video, in base a cui la giuria gli assegna i punti decisivi inizialmente attribuiti al suo avversario, il turco Mustafà Kaya.
«So che in Brasile me li ritroverò fra i piedi tutti e due, che si vogliono vendicare» dice scherzando con Indirà Terrero, passata a correre per la Spagna dopo avere a sua volta abbandonato Cuba ed essersi fidanzata con un italiano, l’ex mezzofondista Andrea Longo. «E poi fossero soli...» continua provando mimiche da supereroe, «perché a Rio ci sarà anche Toghrul Asgarov, l’azero. È quello che ha vinto l’oro a Londra, e ancora non si capacita di come l’ho schienato ai Mondiali in America, quando l’ho buttato fuori ai quarti. Personalmente vorrei tanto rifare i connotati a Soslav Romanov, il russo che sogna di portarmi via il primo posto nel ranking mondiale. Capisco che non ne può più di essere fermo al secondo, ma l’ultima volta, a Minsk, ha esagerato con le scorrettezze, solo perché eravamo a casa sua...». Spacconate da lottatori. Fatte per svanire non appena il racconto vira nuovamente sui 360 secondi che fanno del cerchio rosso il confine con un altro mondo. «Io sono uno che ama mettere le mani addosso, stare vicino, non dare respiro. Allora l’altro cosa fa, di solito? Mi tiene a distanza, perché sa che nel corpo a corpo potrei schienarlo in qualsiasi momento. Però così finisce che io, attaccando, prendo punti, e allora è costretto a reagire e per farlo più che scoprirsi si sfianca, inizia ad avere un respiro più affannoso... Devo avere la pazienza e la prontezza di aspettare quel momento, perché quando arriva, che manchi anche un secondo alla fine, io lo tirerò giù. E avrò vinto di nuovo. È questione di resistenza, la lotta libera: pochi capiscono che vince chi è più resistente, non chi ha più forza».
Di questi segreti, il caporale Chamizo ha parlato che non è molto in Sicilia, a migliaia di tifosi accorsi a festeggiarlo fresco di titolo europeo nella Termini Imerese dell’altro suo sparring Carmelo Lumia. «C’erano tantissimi ragazzini» ricorda ad alta voce, «per i quali io ero fiero di essere più importante di un calciatore, e a loro ho cercato di spiegare il fascino e la bellezza di questo sport che l’uomo pratica da sempre. Mi pareva davvero strano essere diventato una star agli occhi di tutti quei giovani, e questo mi colpisce ancora di più quando scopro che nella mia Cuba c’è appena stata la prima sfilata di Chanel. e stanno girando l’ottavo episodio della serie Fast & Furious».
Dopo la liberalizzazione del Paese avallata dagli Stati Uniti di Obama, alta moda e Hollywood approdano dove l’utopia comunista si è eclissata da tempo, innescando via via una continua fuga di braccia e cervelli a cui non si sottrasse nemmeno il padre del campione, Pavel, fuggito in America per fare, pensate un po’, il lottatore. «E dire che quando ho cominciato io, da bambino, nemmeno lo sapevo» dice suo figlio, senza troppo pretendere che gli si creda. Enigma di un sorriso che non si risolve nemmeno quando rivela: «È venuto a vedermi, quando ho vinto il mondiale a Las Vegas. Certo che si è complimentato con me, e come non poteva?... Io sono già andato molto più lontano di lui».
Spettacolare e felpato come un acrobata circense, più volpe che leone al momento del congedo, Frank Chamizo lascia che ci balocchiamo con le sue frasi sibilline per avventurarsi sul materasso, dove lo attendono le diritte del coach Delgado e le prese dell’amico Fundora. Spetta a loro indicargli la Strada lungo la quale bissare l’unico oro vinto finora dall’Italia nella libera: con il napoletano Claudio Pollio, primo a Mosca 1980 fra i 48 chili.
Continua così, dentro un centro olimpico delle arti marziali di bellezza addirittura faraonica per gli standard impiantistici a cui siamo abituati, una comune giornata iniziata all’alba. Quando la sveglia gli ha sparato voci campionate da hip hop nelle cuffie con cui ritmare la corsa sul lungomare di Ostia. Dove il bagnasciuga forse è lo stesso di cui l’amato Marco Mengoni canta in Rock Bottom: «I want to bury my head in the sand», io voglio seppellire la testa nella sabbia. Inglese di un giovanotto di Ronciglione, provincia di Viterbo, affidato a un cubano dallo slang a metà tra Fidel Castro e Montalbano.
Cosi Frank Chamizo da Matanzas si presenta ai Giochi di Rio de Janeiro. Per stendere di nuovo tutti: avversari e pubblico. Sulla tuta è scritto Italia. Ma si può leggere «mondo».
Stefano Ferrio, il venerdì di Repubblica 3/6/2015