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 2016  giugno 03 Venerdì calendario

AIR FORCE TRUMP

«L’America è tornata grande. Siamo di nuovo, come ai tempi di Ronald Reagan, quella casa che splende lassù sulla collina. Da oggi il Sogno Americano è di nuovo realtà, alla portata di tutti voi». Inauguration Day, 20 gennaio 2017. L’inverosimile è diventato realtà. Donald Trump sta prestando giuramento davanti al giudice capo della Corte suprema John Roberts. La First Lady Melania Trump risplende in un completo di Armani, più bella che mai, come quando posava come modella per Helmut Newton e finiva sulle copertine di Vanity Fair, Elle, Vogue. Il vicepresidente, generale Ray Odierno, fissa lo sguardo nel vuoto, impettito e imperturbabile, lui che è stato chiamato per dare credibilità e sostanza alla politica estera della nuova Amministrazione. In prima fila tra gli ospiti d’onore ci sono tutti i maggiorenti repubblicani, raggianti, compresi quelli che ancora pochi mesi prima sostenevano il movimento #NeverTrump e poi si sono inginocchiati di fronte al deus ex machina che ha resuscitato la destra. Spicca soprattutto Michael Bloomberg, l’altro miliardario newyorchese, ex sindaco della Grande Mela, che Trump ha supplicato e convinto finalmente ad accettare il dicastero del Tesoro. È il trofeo più sorprendente e prestigioso nella campagna acquisti del nuovo esecutivo.
Quando arriva il passaggio più atteso e temuto, nel discorso inaugurale del nuovo presidente, il mondo intero impazzisce: il traffico di commenti sui social media esplode, le Borse di tutto il mondo girano vorticosamente in negativo, un crollo generalizzato. Diversi leader stranieri convocano riunioni dei loro gabinetti di crisi. «Domani stesso» annuncia Trump, «dalla Casa Bianca chiamerò Enrique Pena Nieto e Xi Jinping. Al presidente del Messico lancerò l’ultimatum: o viene a Washington entro pochi giorni a negoziare il suo pagamento per la costruzione del Muro e la deportazione dei clandestini, oppure sequestro gli averi delle banche e delle società petrolifere messicane qui negli Stati Uniti. Al presidente della Cina dirò questo: voglio vedere subito un boom d’importazioni made in Usa, che azzeri il nostro deficit commerciale. Voglio anche una reciprocità d’investimenti, Xi Jinping deve darmi una lista delle sue maggiori aziende di Stato con l’impegno a costruire fabbriche qui negli Stati Uniti per dare lavoro agli operai americani. In caso contrario invoco una clausola di sicurezza nazionale e sospendo la nostra adesione alla World Trade Organization (Wto). Poi mando al Congresso una lista di superdazi doganali da imporre su tutte le merci made in China, con la richiesta che Camera e Senato l’approvino in un fast-track, corsia preferenziale dalla massima urgenza».
Il dado è tratto. Trump fin dai primi minuti del suo insediamento al vertice dell’esecutivo manda un messaggio all’America e al mondo: non ho affatto scherzato. Sull’aborto o sui matrimoni gay potrei anche cambiare parere come ho fatto altre volte, sul divieto d’ingresso ai musulmani devo fare i conti con la Costituzione e la Corte suprema. Ma chi mi ha votato lo ha fatto soprattutto per quel che dicevo sul libero scambio e sull’immigrazione. Se oggi sono qui a prestare giuramento come 45° presidente degli Stati Uniti, lo devo a loro: ai perdenti della globalizzazione, agli operai licenziati nel Midwest perché le loro fabbriche chiudevano e riaprivano a Shenzhen, ai maschi bianchi adulti i cui salari sono più bassi oggi di vent’anni fa, a quelli che si sono visti pignorare la casa dalle banche mentre i banchieri venivano salvati coi soldi dei contribuenti. Sono diventato presidente perché tanti americani bianchi, anglosassoni e protestanti, sono stufi quando la segreteria telefonica di un servizio pubblico gli chiede se vogliono parlare in spagnolo. Non accettano di essere trattati come una minoranza nel loro stesso Paese. Non tollerano che i loro figli debbano pagare 50 mila dollari all’anno di retta universitaria mentre i figli dei neri e degli ispanici hanno agevolazioni per il diritto allo studio. A loro lo dico chiaro e forte: non vi dimentico, non vi tradisco, rifarò l’America grande e forte ma soprattutto nostra.
Pochi, nel discorso inaugurale, i cenni alla politica estera del tipo tradizionale (extra-economia). Ma abbastanza clamorosi da catturare subito l’attenzione dei media internazionali. «Il mio amico Vladimir Putin» dice Trump parlando dalla scalinata di Capitol Hill spazzata dal vento gelido di gennaio, «mi ha confermato come si fa a sconfiggere lo Stato Islamico. Bisogna usare gli stessi metodi che lui ha applicato in Cecenia. Per ogni jihadista che combatte al fronte, si sequestra l’intera famiglia fino ai cugini di terzo grado. Incarcerati, interrogati, e torturati tutti, finché il jihadista non si consegna. Se il terrorista non cede, l’intera famiglia allargata viene sterminata. Vista la sua esperienza in questo campo, ho concordato con Vladimir che gli affido la guerra per procura. D’ora in avanti cessa ogni coinvolgimento americano in Siria, raid aerei inclusi. L’esercito russo diventa il nostro braccio armato mercenario. In cambio condono i debiti della Russia». L’altro passaggio, che fa sobbalzare solo gli ingenui: «Entro febbraio sarò a Pyongyang, incontrerò il dittatore nordcoreano Kim. Vedrete che rinuncerà al nucleare. E tutta la sinistra al Congresso dovrà applaudirmi, visto che appoggiò Barack Obama quando lui andò a parlare con i peggiori nemici dell’America, dall’Iran a Cuba».
Fanta-politica? Ma fino a qualche mese fa, tutto ciò che sta accadendo sarebbe apparso come il frutto della fantasia perversa di un romanziere. Magari un premio Nobel, intendiamoci.
Sì, perché oggi tanti americani colti hanno riscoperto due romanzi scritti da altrettanti premi Nobel. Il primo è di Sinclair Lewis, It can’t happen here (Qui non è possibile), fu scritto negli anni Trenta, immaginò che dopo il primo mandato di Franklin Roosevelt vincesse l’elezione un fascista: a rileggerlo, quel personaggio è davvero un ritratto impressionante di The Donald.
L’altro romanzo, più recente, lo ha scritto Philip Roth nel 2005: The Plot against America (Il complotto contro l’America) immagina che, sempre nella Grande Depressione, diventi presidente l’aviatore Charles Lindbergh, grande 1 ammiratore (realmente) di Mussolini e Hitler. Non ebbe grande successo quando usci la prima volta, ma adesso molti corrono a rileggerlo per la paura che questo Paese possa plebiscitare un mostro...
Trump non fu preso sul serio per molti mesi. «Non può succedere qui» si ripetevano un po’ tutti: sondaggisti e opinionisti, grandi firme del giornalismo di sinistra e anche di destra; e naturalmente l’establishment repubblicano. L’ondata dei populismi europei, l’alternarsi di personaggi alla Berlusconi e Le Pen, Orbàn e Grillo, è stata osservata con condiscendenza dalle élite americane. «Non può succedere qui». Lo stesso Trump, lo hanno confessato amici della sua cerchia intima, all’inizio pensava di gareggiare per un onorevole secondo posto, un trampolino mediatico sufficiente a rilanciare la sua carriera televisiva e il suo merchandising. Poi si è accorto di essere diventato, per una parte della nazione, l’Uomo della Provvidenza.
E cosa succederebbe, all’indomani di quell’immaginario discorso inaugurale? Anche in questo caso, qualche analogia con gli anni Trenta può essere utile. I protezionismi scattarono come reazione al crac del 1929 e alla Grande Depressione. L’escalation delle ritorsioni e delle rappresaglie fece crollare il commercio mondiale e aggravò ulteriormente la crisi. In quanto all’espulsione degli 11 milioni di immigrati clandestini, non si ricordano precedenti su una scala così vasta. Ma già circolano proiezioni catastrofiche in alcuni settori economici: turismo e ristorazione, agricoltura, edilizia, servizi di prossimità alla persona (badanti e colli. L’esodo in massa provocherebbe vuoti massicci di forza lavoro, che non sarebbero sostituibili con manodopera americana (perché non c’è o non è disposta a lavorare per salari così bassi).
Ma ancor prima di arrivare a questo scenario estremo, ci si chiede come Trump possa riuscire a realizzare il suo piano. Le forze dell’ordine sono sottodimensionate rispetto a una missione di rastrellamenti, arresti di massa, trasporto oltre frontiera. Per non parlare dei dispositivi di sicurezza necessari per prevenire o spegnere resistenze, scontri, proteste violente. Per riuscirci occorrerebbe reclutare un numero molto maggiore di agenti, creare un nuovo esercito di massa. Ma questo, insieme con la costruzione del Muro, sarebbe un boom di spesa pubblica tale da stimolare la crescita. Proprio come le grandi opere pubbliche che fascismi, nazismi e stalinismi usarono per contrastare la Grande Depressione degli anni Trenta. Se unito con il fantastico abbattimento d’imposte che Trump promette in campagna elettorale, potrebbe essere l’antidoto alla «stagnazione secolare» che affligge l’Occidente?
Resta da capire come gestire l’esplosione di deficit e debito pubblico. Ma in questo l’America ha una ricetta ben collaudata: stampare dollari, e svalutare.
Lo scenario fanta-politico si smorza, se è vera la variante dei più cinici, i convertiti dell’ultima ora a Trump. Ha scherzato, metterà la testa a posto, sarà «presidenziale» e moderato, si affiderà a consiglieri esperti, coopterà l’establishment. Continuerà a dare spettacolo per non deludere i suoi fan, ma nelle decisioni sarà più cauto di quanto sembri. È possibile anche questo. Sarebbe l’ennesima beffa verso tutti quelli che hanno creduto alle favole di un’America che toma ad un passato meraviglioso, mai esistito in realtà.
Federico Rampini, il venerdì di Repubblica 3/6/2016