Paola Emilia Cicerone, Mente&Cervello 6/2016, 1 giugno 2016
NELLA MENTE DI MARYLIN
Anche le storie più note possono avere un volto nascosto. È il caso della vicenda di Marilyn Monroe, diva amatissima e celebre. Sono stati in molti a indagare sui suoi amori, sui personaggi che sono entrati nella sua esistenza, e sulla sua morte, precoce quanto misteriosa. Ma anche la sua vita può essere oggetto di interesse, soprattutto per gli psichiatri che trovano nel dramma dell’attrice echi di quadri patologici oggi frequenti. È nata così in due psichiatri pisani l’idea di dedicare un saggio a L’altra Marilyn. «Tutto è cominciato durante un’esercitazione con futuri psichiatri in cui avevo proposto casi clinici relativi a personaggi famosi», spiega Liliana Dell’Osso, direttore della Clinica psichiatrica e della Scuola di specializzazione in psichiatria dell’Università di Pisa. E da un incontro casuale con Riccardo Dalle Luche, psichiatra e scrittore, è nata la voglia di approfondire quella storia.
Un lavoro da fare in due, «perché c’è un controllo reciproco, scrivere un libro è un percorso conoscitivo che fatto a quattro mani riesce meglio», spiega Dalle Luche. Ne è uscita una specie di autopsia psichiatrica di Marilyn, che analizza la sua vicenda esistenziale come fosse una cartella clinica: «Forse pochi sanno che l’attrice all’epoca fu oggetto della prima vera autopsia psicologica della storia della psichiatria forense, richiesta dal giudice per capire se si trattasse di omicidio o suicidio. Per poi arrivare a concludere che si trattava di un probabile suicidio», spiega Dell’Osso.
Le verità nascoste
A rendere interessante la storia di Marilyn non è solo il mistero della sua morte. «Possiamo considerarla un prototipo di un certo tipo di paziente borderline: pazienti complesse, gravi, con una patologia a decorso prolungato», osserva la psichiatra. «Ma anche di quei personaggi che, forse in virtù della loro diversità e dei loro stessi disturbi, hanno vite travagliate e scompaiono prematuramente dopo aver raggiunto le vette della celebrità».
Su Marilyn si è scritto molto, «anche se sono pochi i libri che affrontano la vicenda dal punto di vista scientifico», osserva Dalle Luche. «E quei pochi sono stati pubblicati negli ultimi anni». Forse perché la patologia di cui probabilmente soffriva l’attrice, il disturbo borderline di personalità, all’epoca era rara, «mentre è diventata sempre più frequente, tanto da poter essere considerata un problema sociale», prosegue lo psichiatra. E oggi c’è addirittura chi parla di «società borderline».
In oltre mezzo secolo molte cose sono cambiate nella gestione della malattia mentale, e questo saggio è anche un’opportunità per ricordarlo, con qualche nota polemica nei confronti del percorso terapeutico della sfortunata attrice. «Oggi abbiamo farmaci specifici e sicuri, che non esistevano al tempo di Marilyn: all’epoca la necessità di ricorrere ai barbiturici fece moltissime vittime per overdose, sia accidentale sia deliberata», ricorda Dell’Osso. Ma soprattutto è cresciuta la conoscenza del funzionamento cerebrale, e delle basi neurobiologiche dei disturbi psichici.
«Siamo sempre più convinti che molti disturbi mentali nascano da alterazioni più o meno pervasive del neurosviluppo, che non dobbiamo considerare limitato alla vita intrauterina: il nostro cervello continua a svilupparsi fino alla fine dell’adolescenza e mantiene un certo grado di plasticità anche in età adulta», prosegue. «Da qui deriva la necessità di focalizzare le terapie sulle alterazioni neurobiologiche alla base di sintomi elementari come l’insonnia, le ruminazioni, le ossessioni, i disturbi del contatto sociale e così via, più che su generiche etichette diagnostiche».
Gli strumenti per ricostruire il percorso psicologico di Marilyn non mancano, dalle interviste alle testimonianze di chi le era accanto, ai Frammenti autobiografici, una sorta di diario in cui l’attrice riportava il suo pensiero, un insieme di appunti, poesie e pagine dattiloscritte che rivelano, come scrive Antonio Tabucchi nella prefazione all’edizione italiana, «la complessità dell’anima che stava dietro l’immagine». Gli autori dedicano particolare attenzione alle opere di Arthur Miller, che Marilyn aveva sposato sperando che scrivesse per lei. E che in realtà si ispirò all’attrice in due drammi, Dopo la caduta e Finishing The Picture, non tradotto in italiano, in cui ci lascia di lei un ritratto non certo benevolo, forse influenzato dall’insuccesso matrimoniale: «Anche nel nostro lavoro è spesso utile ascoltare i parenti, sono una fonte attendibile per capire meglio le diverse situazioni: i pazienti gravi a volte non hanno consapevolezza dei loro disturbi, mentre quelli meno gravi si difendono – come del resto i sani – dallo svelamento delle verità più intime», osserva Dalle Luche.
La scissione del sé
D’altronde la storia di Marilyn – nata Norma Jeane Baker o Mortenson, i cognomi di due precedenti mariti della madre – è costellata di episodi drammatici, a partire dalle relazioni con una famiglia segnata dalla malattia mentale. La madre Gladys, dopo anni in cui aveva sofferto di alcolismo e depressione, fu ricoverata in uno stato di «autismo schizofrenico», e in ospedale psichiatrico morì anche la nonna Della, affetta da psicosi maniaco-depressiva, di cui si dice che abbia tentato di soffocare la piccola Norma con un cuscino.
A 16 anni Norma, che era stata sballottata tra diverse famiglie affidatarie e probabilmente vittima di abusi sessuali, sposò un vicino di casa per non tornare in orfanotrofio. Dopo la partenza del marito per la guerra divorziò, e decise di sfruttare la sua bellezza tentando la carriera nello spettacolo.
Il dramma che ha attraversato quasi tutta la vita dell’attrice nasce così, «dalla tragica dialettica tra un’identità pubblica, vincente, ma totalmente artefatta, e la realtà sofferente di Norma Jeane, una ragazza semplice, priva di un’identità solida, pluritraumatizzata, che non avrebbe potuto vivere senza la sua maschera ipercompensativa che le apriva le porte in ogni ambiente sociale». E dalla capacità di imitare e simulare, nella scissione tra un falso sé e una personalità reale sofferente e disturbata: c’è stato chi ha parlato di una vera e propria sindrome Marilyn, che si riassume nell’espressione looking good, feeling bad.
«Provavo una strana sensazione, come se fossi due persone», scrive di sé Marilyn. «Una era la Norma Jeane dell’orfanotrofio, la figlia di nessuno; l’altra era una di cui ignoravo il nome, ma sapevo il suo posto. Lei apparteneva all’oceano, al cielo, al mondo intero».
«Molti attori si “curano” attrezzandosi professionalmente a gestire un disturbo di identità, ma a Marilyn questo percorso è riuscito solo fin quando l’effetto a cascata dei suoi disturbi non gliel’ha impedito – spiega Dell’Osso – nonostante la sua determinazione di diventare un’attrice di talento. E una cura dell’immagine che tutt’ora non ha pari, ed è stata efficace sui media fino alla fine». Grazie alla capacità di scindersi tra ciò che era realmente e ciò che mostrava al pubblico, «da una parte c’era una persona modesta, ansiosa davanti alla macchina da presa, ruminativa, in cerca di qualcuno cui appoggiarsi», commenta Dalle Luche. «Dall’altra c’era il personaggio che si era creata in modo imitativo, un personaggio che combatteva e dal quale voleva svincolarsi, ma che al tempo stesso le apriva tutte le porte».
Intelligenza disarmonica
Parlare dell’intelligenza di Marilyn non è facile, anche se i suoi scritti e molte delle considerazioni di quanti l’hanno conosciuta fanno pensare a una persona sensibile e acuta. «La sua era forse un’intelligenza disarmonica, limitata ad alcuni aspetti», osserva Dalle Luche. «Quel tipo di intelligenza vivace che spesso mostrano persone che poi non arrivano mai a sfruttare davvero le loro capacità».
Certo la sua storia di bellissima poco e malamente amata ha contribuito a rendere più difficili le relazioni con l’altro sesso, tanto che secondo alcuni biografi Marilyn sarebbe arrivata a mettere in dubbio le sue preferenze sessuali sperimentando relazioni con altre donne. «Per quanto riguarda le molestie che avrebbe subito, è difficile dire fino a che punto si sia trattato di eventi reali o di proiezioni, un tema ricorrente nel modo in cui la psicoanalisi di quegli anni affrontava gli abusi sessuali precoci», osserva Dalle Luche.
Difficile anche valutare il loro impatto sulle sue relazioni successive: «Anche se non abbiamo testimonianze precise sulla sua vita privata, emerge la sensazione che molti dei suoi rapporti non fossero governati dalla passione, ma che usasse il sesso per legare a sé le persone, per non stare da sola e per rafforzare la propria autostima», osserva Dalle Luche. Così ci sono situazioni in cui Marilyn idealizza i suoi partner, mentre in altri casi ha incontri casuali, che sembrano motivati dalla necessità di uno sfogo fisico. «Un atteggiamento a metà strada tra l’isteria e la ninfomania», osserva Dalle Luche. «In ogni caso Marylin ha sempre cercato di mantenere rapporti con gli ex o con i loro figli, come se sentisse l’esigenza di farsi “adottare” dalle persone cui aveva voluto bene».
Vivere nelle sabbie mobili
Più complesso definire il quadro patologico. Nonostante la difficoltà di arrivare a una diagnosi a posteriori, secondo studi recenti il profilo dell’attrice soddisferebbe i criteri del DSM-IV per il disturbo borderline di personalità, che però non si sovrappone del tutto al significato che si dava di questo disturbo negli anni cinquanta e sessanta.
A partire dalla metà degli anni cinquanta, Marilyn fu curata da diversi psicoanalisti famosi, come Anna Freud, che formulò una diagnosi di «paranoide con tratti schizofrenici», indirizzandola a una collega di New York, Marianne Kris, che nel 1961 la convinse a ricoverarsi in una clinica. Negli ultimi anni fu seguita da Ralph Greenson, che aggiunse alla diagnosi della collega il concetto di addictive, ovvero incline alla dipendenza: una dipendenza da farmaci ma anche affettiva, da mariti e insegnanti, dal sesso, e anche dalla fama. E se la terapia con Greenson non riuscì a salvarla, Marilyn riteneva – lo scrisse in una lettera al suo insegnante di recitazione – di aver fatto con lui progressi «che mi lasciano sperare di aver finalmente trovato sotto i piedi un po’ di terraferma, invece delle sabbie mobili in cui sono sempre vissuta».
«Il problema dei borderline è che fanno fatica a essere adeguati a un ruolo», osserva Dalle Luche. «Ogni ruolo sociale presuppone un nucleo solido dell’identità e la capacità di entrarne e uscirne a piacimento. Invece Marilyn era “obbligata” a restare Marilyn, il suo personaggio nella vita come sugli schermi, anche se lo odiava, perché non era in grado di assumere veramente altri ruoli stabili».
«La difficoltà di fare una diagnosi, particolarmente con un quadro clinico complesso come quello di Marilyn, dipende anche dal fatto che quella precedente al 1980 era una psichiatria descrittiva. Poi rivelatasi insufficiente, e sostituita da una psichiatria categoriale», spiega Dell’Osso. «Oggi stiamo passando a un approccio dimensionale alla psicopatologia, che supera la dicotomia sano/malato per sostituirla con un continuum ai cui estremi si situano la normalità e la patologia conclamata, mentre nel mezzo ci sono una serie di situazioni subcliniche che sono espressione di alterazioni morfologiche». Per questo, prosegue Dell’Osso, per Marilyn si può parlare di un disturbo dello spettro autistico sottosoglia. «Una condizione caratterizzata da molti tratti dello spettro autistico, che si nascondono dietro comportamenti tipicamente borderline come l’instabilità emotiva e relazionale, i gesti autolesivi, l’intolleranza alle frustrazioni, la palese dipendenza dalla rassicurazione e altri atteggiamenti divistici».
Tratti spesso nascosti sotto il volto ufficiale che traspaiono in contesti privati, come le numerose fobie, aspetti di incompetenza sociale, l’uso casuale del denaro, lo scarso senso del pudore e perfino, in certi momenti, l’inaspettata assenza di cura del proprio corpo. E che si ritrovano in altri personaggi di successo. «La mia ipotesi è che Marilyn sia diventata un’icona proprio grazie ai tratti dello spettro autistico subclinico di cui soffriva, e che la spingevano a perseguire ossessivamente il proprio obiettivo», spiega Dell’Osso. «Dobbiamo smettere di pensare che un paziente raggiunga il successo nonostante la sua patologia». In realtà, spesso lo raggiunge grazie ai suoi tratti patologici, «che in Marilyn sono rappresentati dai sintomi su base neuroevolutiva – a riprova di ciò la dislessia e la balbuzie di cui soffriva – quali tratti come il perfezionismo, la tendenza alla ruminazione, la perseveranza, la coesistenza di atteggiamenti iperempatici accanto ad altri di cinismo e totale assenza di empatia», prosegue.
Destinati a morire
Sembra difficile conciliare il concetto di spettro autistico e quello di disturbo borderline. «Il problema nasce dall’inadeguatezza della nosologia psichiatrica», osserva Dell’Osso. «Questi tratti sono riconducibili a un comune denominatore di neuroatipicità cerebrale, in parte di origine genetica e in parte legata a problemi dello sviluppo». Una condizione di spettro autistico sottosoglia che rappresenta al tempo stesso un substrato di vulnerabilità al disturbo borderline. Che in questi soggetti predisposti può essere innescato da eventi traumatici ma a volte anche da avvenimenti che persone meno vulnerabili riescono a superare senza eccessivi traumi. «Marilyn è diventata l’icona immortale che è grazie ai suoi tratti di spettro autistico, che hanno fatto da terreno per lo sviluppo della sua patologia», sintetizza Dell’Osso.
In un quadro come questo, è ovvio che il percorso terapeutico seguito da Marilyn soprattutto con Ralph Greenson – che finirà per violare tutte le regole del setting freudiano per seguire la sua paziente – non sia stato un successo. «È facile formulare un giudizio negativo col senno di poi, ma bisogna tenere conto che pazienti di questo tipo creano un forte coinvolgimento emotivo e sono difficili da gestire», osserva Dalle Luche. «Greenson era un protagonista della psicoanalisi statunitense, coautore di un manuale usato anche in Italia. Ma dobbiamo considerare che all’epoca si pensava che la psicoanalisi fosse in grado di gestire anche casi limite».
Oggi per pazienti di questo tipo sarebbe disponibile una terapia farmacologica efficace, a volte affiancata da una psicoterapia. «All’epoca non esistevano strumenti farmacologici adeguati, un problema per un personaggio come Marilyn che come molti pazienti borderline doveva fare i conti con una propensione alla dipendenza da farmaci e da alcolici», spiega Dalle Luche. «Si creano meccanismi patologici che possono rendere la situazione incontrollabile, come è successo proprio a Marilyn».
Senza escludere che all’epoca gli psichiatri fossero meno attenti nella gestione dei farmaci. Che sono di certo stati la causa della morte dell’attrice, avvenuta per avvelenamento da pentobarbital, nella notte tra il 4 e il 5 agosto 1962. Marilyn aveva 36 anni. Nonostante una ridda di voci a favore di altre ipotesi, l’indagine si concluse con il verdetto di «probabile suicidio». Una tesi ancora discussa, visto che alcuni autori propendono per l’avvelenamento doloso per opera di ignoti. «Non credo che su questo si possa prendere una posizione, anche se sappiamo che nella storia di Marilyn ci sono altri tentativi di suicidio, e tutto sommato è irrilevante», conclude Dalle Luche. «Ci sono pazienti che sembrano destinati alla morte, che si mettono in situazioni a rischio: comunque siano andate le cose, la radice ultima della morte di Marilyn è la sua patologia».