Cecilia Attanasio Ghezzi, pagina99 28/5/2016, 28 maggio 2016
LA LUNGA MARCIA DELL’AUTOMAZIONE CINESE
PECHINO. Wu Shuqing, classe 1979, è sulla linea di assemblaggio della Bernard Controls da ormai cinque anni. L’operaia stessa ha descritto il suo lavoro come «sensualità sulla punta delle dita». I suoi gesti, ripetitivi e coreografici, sono stati raccolti in un video artistico da Alessandro Rolandi, che dal 2011 lavora nel dipartimento per la sensibilità sociale della sede di Pechino di quella stessa fabbrica. La tecnica è «la maniera in cui la forma dell’operaio mobilita il mondo», spiega l’artista prendendo in prestito un concetto che Ernst Junger scrisse quasi un secolo fa.
«L’utopia di una rivoluzione industriale che ti proietta nel mondo delle macchine è più attuale che mai», afferma Rolandi, «il mio compito è quello di recuperare l’intelligenza del lavoro manuale per evitare il rischio che l’automazione dei gesti si traduca in perdita di creatività».
Quella dove lavora è una fabbrica, medio piccola. Ha aperto una decina di anni fa e oggi impiega una sessantina di operai su catene di montaggio di valvole. Il suo direttore operativo, Guillaume Bernard, progetta di convertirla all’automazione nei prossimi cinque anni. Ma nel frattempo ha permesso a un artista di lavorare assieme ai suoi operai per evitare che «le procedure diventino più importanti dei loro fini».
«La sfida è aumentare la produzione, la competitività e, in ultima istanza, avere un modello di business sostenibile», spiega a pagina99 tra una riunione e l’altra. «Quello dell’operaio è un lavoro pieno di contraddizioni che necessitano di essere esplicitate e affrontate. Gli si chiede di lavorare come robot e, allo stesso tempo, di migliorare come un essere umano. Quando passeremo all’industria 4.0 sarà ancora più importante trovare il giusto equilibrio tra la ripetizione dei gesti e l’intelligenza necessaria affinché tutto funzioni».
Di mese in mese, il tempo previsto perché si ripaghi l’investimento che una piccola azienda può fare in robot si accorcia. Negli ultimi cinque anni in Cina è passato da 63 a 19 mesi. E secondo alcuni calcoli dell’azienda di servizi finanziari Citi, l’anno prossimo sarà ancora più breve: 15 mesi. Il Boston Consulting Group azzarda un’altra previsione: se oggi i compiti che si possono affidare a un robot rappresentano l’8 per cento del totale, entro il 2020 saranno il 26 per cento. Per quella data si prevede che il mercato sarà occupato all’80 per cento dai Paesi che hanno iniziato per tempo la cosiddetta quarta rivoluzione industriale: Cina, Germania, Corea del Sud, Giappone e Usa. Di cosa si tratta? Della fabbrica intelligente, ovvero una fabbrica dove la tecnologia si integra completamente nella catena industriale del manifatturiero. Un piano che qui si chiama “Made in China 2025” ed è parte integrante del difficile processo di transizione della seconda economia mondiale da fabbrica del pianeta a società di consumi.
Significa che l’innovazione e l’automazione guideranno l’industria fino al 2025. Poi, se tutto andrà secondo i piani, per il 2035 la Cina potrà competere con i Paesi più avanzati e nel 2049, per il centenario della Repubblica popolare, sarà nuovamente un paese leader nel manifatturiero.
Il cuore del progetto è la robotica. Non è casuale infatti l’offerta da 4,5 miliardi di euro della cinese Midea per diventare azionista di maggioranza di Kuka, l’azienda tedesca specializzata nella produzione di robot industriali. Mentre i tedeschi ci pensano, le sue azioni sono già salite del 30 per cento. «Quella cinese è una visione ambiziosa», dice a pagina99 Alessandro Beghi, professore di ingegneria informatica dell’Università di Padova specializzato proprio su questi temi. «Nel 2050 vogliono essere una potenza industriale che non abbia nulla da invidiare all’Occidente più sviluppato. Ma attualmente sono ancora all’industria 2.0, ovvero sulla linea di assemblaggio. È come se si trovassero di fronte a un burrone. Saltare è l’unica possibilità per arrivare dall’altra parte. Ma solo una spinta governativa può indurli a farlo». I piccoli e medi imprenditori cresciuti nella Cina “fabbrica del mondo” lamentano il venir meno delle condizioni che hanno permesso loro di fare fortuna. Soffrono per la crescita del costo del lavoro, per la diminuzione delle esportazioni e per le tutele crescenti che devono all’ambiente e ai lavoratori. Un recente sondaggio mostra come oltre il 30 per cento degli operai teme che le macchine gli ruberanno presto il salario. Ma è una visione parziale. «Liberare forza lavoro nella fabbrica può far nascere iniziative collaterali più interessanti per i lavoratori stessi», ci spiega ancora il professor Beghi. «Nei paesi occidentali, ogni robot che si inserisce nel settore dell’alta tecnologia genera cinque posti lavoro nell’indotto, al netto degli esuberi. La sfida consiste nell’abbassare i costi di produzione, alzare i salari e creare consumatori».
La fabbrica 4.0 aprirà le porte a una rivoluzione industriale che secondo i più avrà effetti sulla società paragonabili a quelli della prima rivoluzione industriale. Per questo in Cina non sono solo gli imprenditori a scommettere sul lavoro meccanizzato. L’anno scorso il governo del Guandong – la regione che per decenni ha rifornito di merce a basso costo il resto del mondo e in cui, nel solo 2015, il manifatturiero ha generato oltre 600 miliardi di euro in esportazioni – ha annunciato un investimento di 135 miliardi di euro per arrivare ad automatizzare l’80 per cento delle fabbriche entro il 2020. Migliaia di stabilimenti hanno già aderito al piano e centinaia di startup stanno sperimentando un’economia legata alla robotica, con tutta l’innovazione che comporta. I dati parlano chiaro. E la Federazione internazionale di robotica anche: «Siamo di fronte a un cambiamento senza precedenti».
Dei 240 mila robot per gli impianti industriali prodotti l’anno scorso in tutto il mondo, 66 mila sono stati comprati da fabbriche cinesi. E, se si mettono in relazione con il numero di operai, sono ancora troppo pochi. La Cina ha appena 36 robot ogni 10 mila operai, contro i 292 della Germania, i 314 del Giappone e i 478 della Corea del Sud.
La lunga marcia dell’automazione cinese, come viene chiamata, sta già avendo un ruolo evidente nell’abbassamento dei prezzi di mercato dei robot e nel loro miglioramento. Secondo il Boston Consulting Group, nei prossimi dieci anni i prezzi dei robot e dei loro software si abbasseranno ancora del 20 per cento, mentre le loro capacità aumenteranno di circa un 5 per cento all’anno. In un discorso del 2014 all’Accademia di scienze sociali, il principale think tank del paese, il presidente Xi Jinping ha riassunto la situazione di quella che chiama «la rivoluzione dei robot»: «Il nostro paese sarà il mercato principale per la robotica, ma la nostra tecnologia e capacità manifatturiera saranno in grado di competere con il resto del mondo? Bisogna sviluppare la nostra robotica e conquistare gli altri mercati». La sfida è quella di arrivare il prima possibile alle cosiddette dark factories, fabbriche completamente automatizzate in cui è necessario talmente poco personale «che si potrebbe spegnere la luce senza che la produzione venga interrotta». La paura è quella di arrivarci prima di riuscire a riqualificare centinaia di milioni di lavoratori. Il sogno è quello di Bernard: un «operaio aumentato» capace di gestire dati e compiere una pluralità di operazioni in tandem con la macchina senza perdere creatività e coinvolgimento.