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 2016  maggio 28 Sabato calendario

IL CASO DI VENETO BANCA SEMBRA IL REMAKE DELLA POPOLARE DI VICENZA

Dopo Popolare Vicenza, anche Veneto Banca si avvia a non valere più nulla. È la sconsolante conclusione da trarre dalle indiscrezioni filtrate ieri. Il verdetto arriverà lunedi, quando il nuovo cda renderà nota la forchetta di prezzo per l’aumento di capitale da 1 miliardo – con sperata quotazione in Borsa – che partirà il 6 giugno: il valore minimo sarà di 0,10 centesimi per azione e, stando al responso degli investitori sondati, sarà anche quello definitivo. L’esito del cosiddetto pre-marketing è infatti andato come si pensava, male.
Stando così le cose, gli 88 mila soci perderanno quasi il 100% di quanto investito, grazie al vizietto della banca di farsi in casa il prezzo delle azioni con perizie palesemente gonfiate. Solo ad aprile 2015, il valore era a 39,5 euro. Nel 2014 l’ultimo aumento di capitale fu collocato a 36 euro per azione. Nel 2013, in piena crisi del settore bancario e con la vigilanza di Bankitalia sguinzagliata, l’istituto, scassato dalla gestione dell’ex padre padrone Vincenzo Consoli – indagato per ostacolo alla vigilanza – chiuse in perdita il bilancio, ma non prima di ver portato il prezzo da 40,25 euro al picco storico di 40,75 euro per far contenti i soci. Quelli che adesso si trovano col cerino in mano. Se il prezzo finale sarà di 10 centesimi, il valore totale delle azioni passerà ufficialmente dai teorici 4,9 miliardi a 12,4 milioni. Con Vicenza, siamo a 11 miliardi azzerati dal dissesto delle due grandi popolari del Nord-Est.
Di norma, quando le cose prendono una brutta piega, le banche collocatrici sospendono tutto in attesa di tempi migliori. Per Veneto Banca, però, significherebbe il fallimento istantaneo. Per questo da due settimane il fondo Atlante, costituito in tutta fretta da banche, fondazioni, Cassa depositi e prestiti e assicurazioni sa già che dovrà intervenire. Banca Imi (Intesa SanPaolo) ha infatti garantito di sottoscrivere le azioni che dovessero essere lasciate “inoptate” dai soci, ma non a qualsiasi condizione: nel contratto è prevista una soglia minima di azioni collocate (intorno al 30%).
Se non verrà raggiunta Intesa avrà diritto di sfilarsi. Soglia che non era stata fissata nell’accordo fatto da Vicenza con Unicredit, un errore che ha contribuito a far saltare nei giorni scorsi l’amministratore delegato della seconda banca italiana, Federico Ghizzoni.
Se Atlante dovrà sobbarcarsi l’operazione offrirà 10 centesimi. A bloccare gli investitori c’è un altro dettaglio: per collocare 1 miliardo di aumento di capitale a quel prezzo dovranno essere emesse 10 miliardi di nuove azioni. È chiaro che i 124 milioni di titoli ora in mano ai soci perderanno ogni peso, ma soprattutto sarà difficile garantire un “flottante” minimo (la quota non di controllo e disponibile alla negoziazione in Borsa) per quotare l’istituto. Stessa situazione già vista con Vicenza, stoppata ai primi di maggio da Borsa Italiana. In quel caso, il salasso dei soci sarebbe completo.
Dopo aver fatto sottoscrivere le azioni, spesso in cambio di prestiti, la banca s’è poi rifiutata di ricomprarle, fatta eccezione per pochi privilegiati che hanno potuto monetizzarle prima che a dicembre la trasformazione in spa portasse il prezzo a 7,3 euro. Per questo – e per aver truccato i profili di rischio dei clienti – la Consob ha avviato un procedimento sanzionatorio a carico di Consoli e altri. Fuori da Piazza Affari i titoli saranno invendibili e la minusvalenza non potrà neanche essere detratta dalle imposte su altre rendite finanziarie. Sarà poi ancora più difficile dimostrare il danno subito.
I veri patemi d’animo per il settore bancario si presenteranno invece dopo l’intervento di Atlante: cosa fare dei due istituti? Le direttive ricevute dalla Quaestio Sgr, società presieduta dall’economista Alessandro Penati che gestisce il fondo, sembravano chiare: tentare di risanarle e rimetterle sul mercato, o procedere allo spezzatino. Penati, invece, interpreta il suo ruolo come quello di un vero banchiere e – non essendo vincolato a un mandato definito – punterebbe a fondere le due ex popolari. Un’operazione invisa tanto a grandi e piccoli investitori di Atlante quanto al ministero dell’Economia: i due istituti operano nelle stesse aree e il costi per eliminare le sovrapposizioni schizzerebbero alle stelle.
Non solo. Dopo i 2,5 miliardi usati per gli aumenti di capitale, i banchieri vogliono che i restanti 1,7 rimasti al fondo Atlante vengano convogliati nelle operazioni di cartolarizzazione delle sofferenze (i crediti ormai inesigibili) in pancia alle banche italiane – Mps in testa – per tentare di tirare sù il prezzo ora offerto dal mercato (il 20% del valore nominale, a fronte del 41% messo a bilancio dal settore). Nella migliore delle ipotesi, usando anche una leva finanziaria piuttosto audace, si potrebbero rilevare non più di 16 miliardi di sofferenze lorde, su oltre 200 miliardi che pesano su tutto il settore bancario.
Carlo Di Foggia, il Fatto Quotidiano 28/5/2016